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Herman Bavinck, Filosofia della rivelazione (Alfa
& Omega,
Caltanissetta 2004; traduzione di uno scritto del 1909), pp. 335; € 24,10.
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sottostante
Primo
{Fernando De Angelis} ▲
Ti sottopongo questa «proposta di dialogo» e affronto un solo argomento: il
rimprovero che fai alla fine a Bavinck di non dimostrare sufficientemente la
sua filosofia della rivelazione. Mi sembra un rimprovero da «scientista»,
perché presuppone che la Filosofia si possa dimostrare, mentre tutto il
discorso di Bavinck si basa sull’impossibilità di costruire una qualsiasi
Filosofia senza una preliminare scelta (consapevole o inconsapevole, ma
sempre oltre la ragione) di propri presupposti. L’inconsistenza di una
ragione che poggi su se stessa mi sembra molto biblica e mi rafforza che
l’abbia messa ben in luce Pascal («la ragione comprende i suoi limiti», cito
a senso). Il filosofo Mirri conclude così un suo saggio: «È
al santo in preghiera che occorre rivolgersi per avere risposta alla domanda
“chi è Dio?”. Al filosofo non resta che la coscienza di una necessaria
ascesi del pensare dall’insensata assolutizzazione umanistica del finito, e
la capacità di indirizzarlo a quelle regioni dove Dio si fa manifesto; ma in
queste il suo dire inevitabilmente tace: perché la filosofia, nel rifulgere
della luce meridiana del vero, trova la sua sera». [Edoardo Mirri,
Pensare il Medesimo (Napoli, 2006), p. 516] Insomma, la santità fa
capire la realtà più della cultura.
Mi colpì, a suo tempo, la lettura della 1 Corinzi,
per esempio dove dice che nessuno conosce le cose dell’uomo se non lo
spirito dell’uomo che è in lui, così come nessuno conosce le cose di Dio se
non lo Spirito di Dio (2,11). Anche per le cose dell’uomo bisogna dunque
partire dallo spirito, il solo a poter illuminare la ragione; una ragione
che si ritenga autonoma è una contraddizione in termini, perché essa poggia
su una rivelazione innata e tradizionale che al cane manca.
Secondo
{Irene Bitassi} ▲
Personalmente, la mia posizione «filosofica» è kantiana pura, nel senso che
ritengo che razionalmente non si possa presupporre nulla al di là delle
manifestazioni fenomeniche. Mondo, Dio e anima sono concetti al di là della
conoscenza (l’errore dell’evoluzionismo è sostanzialmente quello di aver
cercato l’origine del «mondo»). A mio avviso, l’uomo non può andare oltre
ciò e questo rappresenta esattamente il distacco dovuto allo stato di
peccato originale. Tutte le filosofie che sono venute dopo tentando di
superare questo punto morto della filosofia kantiana, a mio avviso, si sono
solo perse in voli di fantasia. La conoscenza di Dio perciò deve venire
dall’altra parte della «barricata», cioè non dall’uomo, ma dalla grazia. A
questo punto, però, mi chiedo se abbia senso una teologia che non sia
semplice esegesi della Bibbia o studio storico su di essa. Infatti, non si
rischia di fare voli di fantasia su Dio, se la nostra razionalità si ferma
prima?
Per quanto riguarda la morale kantiana, devo dire
che all’epoca degli studi per me costituiva un motivo di grande imbarazzo.
Infatti, è abbastanza facile concordare con Kant che un’azione è morale solo
e soltanto se non è motivata da un secondo fine. Questa definizione è stata
spesso liquidata come troppo fredda, ma penso che non si riesca veramente a
contestarla, anche se ci mette davanti all’evidenza che quasi nessuna delle
nostre azioni è strettamente «morale» e disinteressata. Essendo io all’epoca
cattolica, sentivo in modo particolare questo peso, perché alla fin fine
dietro ad ogni «buona» azione c’era anche il pensiero di assicurarsi un
posto in paradiso. Si trattava di un fine buono, ma pur sempre di un secondo
fine che di fatto toglieva moralità all’azione. Soltanto quando ho
conosciuto la salvezza per grazia, mi sono sentita veramente in grado di
compiere pienamente un’azione morale, visto che il paradiso è già assicurato
dall’opera di Cristo e posso compiere un’azione solo perché è giusto
compierla. A mio modesto parere, l’uomo religioso che non conosce la grazia
non è nelle condizioni di compiere azioni morali in senso kantiano.
Paradossalmente, in questo senso un salvato per grazia e un ateo sono molto
più vicini: per entrambi esiste una «indifferenza» a ciò che sarà di loro
dopo la morte (anche se per motivi diametralmente opposti, perché un ateo si
sente sicuro che non esisterà, mentre il credente sa che sarà in paradiso)
che secondo me è presupposto implicito della morale kantiana.
Bavinck mi sembra in certi punti oscillare un po’
tra la constatazione che umanamente non si riesca andare al di là della
filosofia kantiana e il tentativo di «razionalizzare» la grazia, inserendola
in un sistema filosofico. Mi sembra che, in generale, il libro dimostri
abbastanza chiaramente come la fede nel Dio biblico risolva molti problemi
filosofici, ma poi, come sempre in filosofia, nasce il problema di
«dimostrare» Dio. Personalmente, a quel punto, io avrei scritto a chiare
lettere che la fede è solo una grazia e avrei chiuso lì. Bavinck, invece,
raccoglie la sfida e «butta lì» questo spunto anche piuttosto originale e
interessante della, passami il termine, «dimostrazione sociale». Però come
lettrice avrei preferito che avesse approfondito di più il concetto,
seguendone le implicazioni e prevedendo qualche risposta alle obiezioni
possibili. Questo voleva essere un po’ il senso della critica che avevo
scritto.
Terzo
{Fernando De Angelis} ▲
Mi era venuto il sospetto (a partire da piccoli indizi) che tu fossi
kantiana e avevo già pensato di chiedertene conferma (arrivata spontanea),
così ora mi confermi l’impressione di «razionalismo» che a volte mi dai,
come per esempio quando ritieni possibile un’analisi «distaccata» e
«semplicemente tecnica»: in una certa misura è possibile e doveroso, ma
credo che tu non tenga conto a sufficienza che ognuno è sempre una «persona
storica».
Scrivi: «Ritengo che razionalmente non si possa
presupporre nulla al di là delle manifestazioni fenomeniche». Le
manifestazioni fenomeniche, però, sono un nulla rispetto alla complessità
del reale (cito a memoria Wittgenstein: quand’anche avessimo la risposta a
tutte
le possibili domande scientifiche, non avremmo nemmeno sfiorato i veri
problemi della condizione umana); se così è, allora la tua affermazione
significa che «non si può conoscere nulla al di fuori del nulla», cioè che
in fondo non si può conoscere nulla!
È significativo che proprio su questo fondamento
sia costruita la grande filosofia, che parte da un Socrate che «sapeva di
non sapere nulla»! Perché allora i filosofi se lo dimenticano? Certo non
perché credenti nella Bibbia, perché la necessità di una rivelazione si basa
proprio sull’incapacità dell’uomo a comprendere con le sue forze. La
teologia del Nuovo Testamento, per esempio, è essenzialmente la teologia
dell’apostolo Paolo, che in fondo esprime in parole quella che era stata la
sua esperienza sulla «via per Damasco» dove gli apparve evidente, da un lato
l’inconsistenza perfino delle migliori intenzioni umane, dall’altro
l’irrompere chiarificatore del rivelarsi di Gesù.
Certo poi riconosci il ruolo essenziale della
grazia, ma lo inserisci in un contesto «dualista», di contrapposizione fra
grazia e intelligenza, mentre l’irrompere della grazia biblica
distrugge il razionalismo e fa
emergere la ragione. «Distruggiamo ogni ragionamento e facciamo
prigioniero ogni pensiero che si eleva contro la conoscenza di Dio»,
dice Paolo. Anche Daniele in Babilonia distrusse il loro razionalismo e la
loro autosufficienza perché illuminato dalla grazia di Dio. Per comprendere
e accettare Gesù ci voleva qualcosa che andava oltre la ragione, ma Gesù
accettò di scontrarsi con i suoi nemici usando le loro stesse armi (logica,
fatti, Scrittura). Pascal ha insegnato che se la ragione funziona bene
riesce a comprendere i suoi limiti. Lo Spirito illumina la ragione, mentre è
solo una ragione abnorme, gonfiata, che si illude di poter fare a meno dello
Spirito.
Mi scrivi anche: «La conoscenza di Dio perciò deve
venire dall’altra parte della “barricata”, cioè non dall’uomo, ma dalla
grazia. A questo punto, però, mi chiedo se abbia senso una teologia che non
sia semplice esegesi della Bibbia o studio storico su di essa. Infatti, non
si rischia di fare voli di fantasia su Dio, se la nostra razionalità si
ferma prima?». Come se si potesse fare esegesi senza interpretazione. Come
se la Bibbia esponesse la verità alla maniera greca (cioè con affermazioni
di carattere assoluto) quando invece tutta la Bibbia è rivelazione STORICA;
non posso leggere l’epistola ai Romani come se fosse l’epistola a Fernando,
certo che devo farla mia e applicarla a me, ma è pur sempre una APPLICAZIONE
che segue un’interpretazione. Chi dice di fare solo esegesi, in realtà vuol
far passare per ASSOLUTA la sua particolare teologia e la sua particolare
applicazione.
La Bibbia non è un libro che ci consente di fare a meno di Dio e del suo
Spirito. Perfino con Mosè vivente c’era bisogno di una colonna di nuvole
e di fuoco che guidasse il popolo di Dio. Perfino l’apostolo Paolo aveva
bisogno di interpretare certi sogni non proprio univoci per sapere dove lo
Spirito voleva che evangelizzasse (non in Asia, ma piuttosto in Grecia).
Sembra che tu sia contraria ai «voli di fantasia» e
non hai tutti i torti. Ma Abramo, il padre della fede, non andò dietro i
sogni? Nessuno può vivere senza sognare, non solo di notte, ma anche di
giorno! Certo, i sognatori biblici cercavano poi delle corrispondenze con la
realtà concreta, ma piuttosto che contrapporre i sogni alla concretezza,
bisogna integrarli (l’Evangelo non ci rivela un Gesù pieno di sogni e di
concretezza?).
Scrivi: «È abbastanza facile concordare con Kant»,
come se fosse una questione di logica, mentre è soprattutto una
questione di storia. Quello che a un occidentale appare logico non
appare altrettanto logico a un arabo o a un indiano o a un cinese e, guarda
caso, la tua comprensione e condivisione di Kant è aumentata quando sei
entrata in quell’area «pietista» dalla quale proveniva Kant!
Scrivi: «Bavinck mi sembra in certi punti oscillare
un po’ […] poi, come sempre in filosofia, nasce il problema di “dimostrare”
Dio». Perdonami la brutalità, ma hai guardato al moscerino, ignorando il
cammello! Anziché guardare il credente Bavinck con la tua sensibilità da
credente, hai cercato in lui le giuste risposte alle false domande
della filosofia. Erano i greci a voler «dimostrare» Dio, arrivando però a
una resa totale e a fare un altare «al Dio sconosciuto». Il Dio biblico non
si «dimostra» ma si «mostra»: è il Dio che si rivela. Quando
l’apostolo Paolo doveva spiegare cosa credeva, raccontava la propria
storia, perché la rivelazione di Dio gli era arrivata a un certo
punto della sua vita e aveva dato alla sua vita una direzione sovrumana.
L’Evangelo non è tanto la
dottrina di
Gesù, quanto la storia di Gesù. La tua fede è nata all’interno
della tua storia e non potrà che crescere all’interno di essa,
continuando a coinvolgerti nei pensieri, nelle esperienze, nei sentimenti e
nei sogni!
Gesù, da buon profeta, si sentì responsabile verso
la sua generazione: avvertì dell’imminente pericolo («Non sarà lasciata
pietra sopra pietra» del tempio) e indicò la via pratica per scampare
(fuggire da Gerusalemme), intravedendo gli eserciti che stavano per arrivare
e sarebbero venuti 40 anni dopo. Anche Paolo, nel centro dell’Impero e ai
capi dell’Impero, fece sapere quale cancro stava sgretolando quelle
fondamenta che sembravano «eterne». Qualcosa di simile fece Geremia e credo
che pure Bavinck abbia assolto al suo compito di «sentinella», intravedendo
nel 1908 quelle guerre che avrebbero distrutto l’Europa. Questa credo che
sia l’essenza del suo libro, che doveva avere le caratteristiche di parlare
alla gente del suo
tempo e gli argomenti dovevano colpire sulla base delle convinzioni e dei
presupposti della gente del suo
tempo. Piuttosto che insistere su quanto scritto da
Bavinck, però, credo che come credenti abbiamo l’obbligo di porci le sue
stesse domande: «Qual è la condizione della nostra
generazione? Quali sono i pericoli che si vanno profilando? Come parlare
alla nostra generazione nel
loro linguaggio? Quando la nave è in pericolo di affondare, è «santo»
pensare solo alla nostra cameretta e alla nostra scialuppa? In ogni caso, i
profeti non fecero così e inviarono messaggi a tutte le nazioni! Cosa
diranno di me nel futuro, quando leggeranno la mia analisi di questi tempi e
le prospettive che intravedo? Forse molti di noi nel futuro appariranno
ridicoli, ma a me sembra che i «pii cristiani» ci hanno in genere visto
giusto (anche perché sono i malvagi a sapere chi devono
perseguitare!). In ogni caso, preferisco rischiare esponendo le convinzioni
alle quali sono pervenuto (credo con la guida di Dio, in qualche misura)
piuttosto che correre il rischio di mettere la lampada sotto il tavolo.
Quarto
{Irene Bitassi} ▲
Perché i filosofi si dimenticano che la grande filosofia è fondata da un
Socrate che affermava di sapere di non sapere nulla? L’impressione che ho
sempre avuto studiando è che alcuni di essi riconoscano la propria ignoranza
mettendo in un certo senso dei punti fermi alla stessa filosofia. Poi, però
nessuno riesce a convivere con queste limitazioni, perciò ci si trova
davanti a due strade: o accettare una rivelazione superiore o lanciarsi nei
famosi voli di fantasia. Secondo me, è così che nascono tante assurde
filosofie. Non riesco sinceramente a considerare «dualista» la
mia visione tra grazia e razionalismo. La razionalità riconosce per logica
che le sue conoscenze si fermano ben presto e di lì parte la grazia e la
rivelazione: la definirei una staffetta. Il primo tratto possiamo farlo
tranquillamente in compagnia degli atei e degli agnostici, perché si tratta
di intendersi solo sulle questioni di logica. Durante il secondo tratto,
invece si tratta di dimostrare l’assurdità delle filosofie che pretendono di
indagare l’essenza e di predicare l’Evangelo. Possiamo aiutarci appellandoci
al buon senso e alla razionalità, ma non possiamo indagare a fondo
razionalmente, perché la logica si ferma al tratto precedente. Hai ragione quando mi fai notare che la mia
espressione «È abbastanza facile concordare con Kant» è troppo generica,
perché non apparirebbe altrettanto logica a un arabo o a un cinese. In
effetti pensavo in maniera implicita alla staffetta di cui ho scritto sopra
e di come percorrere il tratto in comune con i non-credenti. Ho verificato
che su Kant si riesce a trovare un punto di incontro con gli atei (persino
con quelli così estremisti che tendono a considerare come inesistente
qualsiasi cosa che non si misura con il metro!). Naturalmente, queste
persone sono comunque influenzate dalla cultura «cristiana» in cui sono
cresciute.
Di seguito, nella tua lettera, mi rimproveri di
aver «maltrattato» il credente Bavinck in favore delle false domande della
filosofia e in un certo senso è vero. Quello a cui pensavo è come far
arrivare il messaggio evangelico a un non-credente impastato di filosofia e
per farlo cercavo di mettermi dal suo punto di vista, ponendomi nel suo
schema mentale. Anche tu più avanti poni questa domanda: «Come parlare alla
nostra generazione nel loro linguaggio?». Per riuscirci, penso (ma posso
sbagliare, s’intende: non sono una grande evangelizzatrice!) di dover fare
l’avvocato del diavolo ed essere implacabile nelle obiezioni da fare a ogni
argomentazione dei credenti. Non per distruggerle davvero o sminuirle, ma
solo per obbligarci a renderle sempre più chiare e convincenti per quando
saranno vagliate davvero dai non credenti.
Quinto
{Fernando De Angelis} ▲
La tua immagine della «staffetta», fra prima fase razionale e seconda fase
che va oltre, la condivido pienamente, come pure condivido quanto esprimi in
relazione a Kant: le divergenze su questi punti, perciò, erano solo
equivoci. Rifletto solo che, essendo la cultura moderna di derivazione
essenzialmente protestante, con certi giovani scettici (come quelli da te
citati) ci possono essere convergenze dovute proprio al loro essere in
qualche misura (e spesso in modo stravolto) «protestantizzati».
Fai certamente bene a immaginarti come «avvocato
del diavolo» e così prepararti alla difesa, ma bisogna armarsi anche di
spada (attacco) e non fermarsi solo allo scudo. Per distruggere il sistema
del «nemico» (che non è mai un essere umano, il quale è semmai una vittima),
bisogna vagliare il
suo sistema cercando di disarticolarlo, usando sì le sue categorie di
pensiero, ma mettendone in evidenza l’insostenibilità.
►
Hermann Bavinck e la psicologia: La psicologia tra scienza e rivelazione {Tonino Mele}
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/Proiezioni/306e-Bavinck_confronti_R56.htm
Aggiornamento: 02-05-07
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