Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Tutto ciò che serve per istruire il neofita nella sana dottrina e in una sana morale cristiana, per così orientarsi nell'insegnamento biblico di base, nella devozione e nel discernimento spirituale riguardo alle questioni che attengono alla fede biblica e al saggio comportamento nel mondo. È «vademecum» per chiunque voglia trasmettere la fede biblica.

   Ecco le singole parti principali:
01. La via che porta a Dio;
02. Le basi della fede
03. La Sacra Scrittura
04. Dio
05. Creazione e caduta dell’uomo
06. Gesù Cristo
07. Lo Spirito Santo
08. La salvezza dell’uomo
09. Il cammino di fede
10. La chiesa biblica
11. Ordinamenti e radunamenti
12. L’opera della chiesa
13. Il diavolo
14. Le cose future
15. Aspetti dell’etica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CALICE O BICCHIERINI? PARLIAMONE

 

 a cura di Nicola Martella

 

Sono da tempo convinto che 1 Corinzi 11 non parli essenzialmente della Cena del Signore in sé, ma d’altro, ossia del fatto che la presenza in cerimonie e banchetti in connessione con idoli crei un legame verso le potenze che vi stanno dietro; la Cena del Signore fu usata come termine di paragone positivo.

     Un potērion era un bicchiere, un calice, una coppa; nell'uso comune era di terracotta, mentre solo i ricchi potevano permettersi quelli di metallo o di vetro. Luca parlò di due calici durante l’ultima Pasqua, uno prima e uno dopo la frazione del pane (Lc 22,17.20).

     Il «calice della benedizione» (1 Cor 10,16) era il calice su cui fu pronunciata la benedizione, ossia il ringraziamento in preghiera, come erano uso fare gli ebrei. Infatti si parla del «calice della benedizione che noi benediciamo». Si noti che Gesù «prese i sette pani, dopo aver rese grazie, li spezzò…» (Mc 8,6); poi fece la benedizione su alcuni pochi pescetti (v. 7). Le due espressioni si corrispondono. Anche a Pasqua «Gesù prese del pane e, fatta la benedizione, lo ruppe…» (Mt 26,26). In tal senso si poteva anche parlare del «pane della benedizione», sebbene il NT non riporti tale espressione.

     È difficile pensare che in una chiesa di 1.000 o 2.000 persone ci sia un solo «calice della benedizione» (1 Cor 10,16) e un «unico pane» (v. 17), e che il culto debba durare tutta una giornata perché tutti partecipino. Si tratta invece solo di simbolismi ideali. A volte pensiamo con orizzonti abbastanza piccoli. Inoltre diamo ai contenitori più significato che ai contenuti.

     Qui di seguito riprendiamo una discussione già affrontata [ Calice o bicchierini?] e che Tonino Mele ha riportato alla luce con un'analisi biblica attenta e particolareggiata. [► Calice o bicchierini?] Che ci sia necessità di tale discussione su calice e calicini, è mostrato dal primo contributo.

 

     Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre esperienze, idee e opinioni?

Partecipate alla discussione inviando i vostri contributi al Webmaster (E-mail)

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I contributi sul tema

(I contributi rispecchiano le opinioni personali degli autori.

I contributi attivi hanno uno sfondo bianco)

 

1. Tabita Murgo

2. Vincenzo Russillo

3. Luciano Leoni

4. Antonello Are

5. Vincenzo Russillo

6. Nicola Martella

7. Gianni Siena

8. Nicola Martella

9. Tonino Mele

10. Antonio Capasso

11. Nicola Martella

12. Gigliola Biella, ps.

 

Clicca sul lemma desiderato per raggiungere la rubrica sottostante

 

 

1. {Tabita Murgo}

 

Contributo: Carissimo professore, ho bisogno del tuo aiuto! Nella nostra chiesa si sta «discutendo» sull’uso durante il culto del calice o dei modernissimi bicchierini! Come maggioranza pensiamo che il modo, con cui si faccia, riguardi la forma, e ciò non tolga niente al significato di quello che stiamo facendo, ossia ricordare!

     Tu che ne pensi? È possibile (come afferma qualcuno) che nell’uso dell’unico bicchiere si nasconda qualche dottrina? Puoi darmi qualche chiarimento in proposito? Grazie! {05 ottobre 2009}

 

Osservazioni: Vedo che ho messo l'articolo di Tonino Mele in rete nel momento giusto per poter aiutare questa mia ex-studentessa e la sua chiesa in una discussione, che si spera pacifica e serena. L'autore affronta anche le obiezioni fatte da tale «qualcuno». {Nicola Martella}

 

 

2. {Vincenzo Russillo}

 

Contributo: L’articolo redatto da Tonino Mele, mi ha fatto riflettere sulle consuetudini che si possono instaurare in molte realtà ecclesiali, arrivando a creare un mero formalismo, svuotato da ogni vero significato cristiano.

     Ho pensato per esempio all’altro simbolo della Santa Cena, il pane: pensando alla realtà ebraica, questo era azzimo. Quindi ai giorni nostri dovremmo usare anche lo stesso tipo di pane?

     Credo che l’aspetto del calice sia stato attentamente esaminato. Partendo da considerazioni che procedono per paradosso, si potrebbe dire che un credente possa bere dal calice senza capire il significato del sacrificio di Cristo.

     Il mio pensiero è che, se ci sofferma troppo su regole vincolate dalla prassi, s’arriva a espletare una fede solo devozionale e troppo esteriore; non è importante come si fa, ma perché si fa. S’arriva a essere un po’ troppo farisaici. La Santa Cena deve divenire il monumento della morte di nostro Signore per noi, ovvero come ci dice Paolo: «Purificatevi del vecchio lievito, per essere una nuova pasta, come già siete senza lievito. Poiché anche la nostra Pasqua, cioè Cristo, è stata immolata» (1 Corinzi 5,7). {06-10-2009}

 

Osservazioni: Ricordo che il «pane azzimo» è quello della Pasqua, una festa annuale specifica nell’AT e nel giudaismo; nell’ultima cena del Signore c’era solo quello, essendo essa una Pasqua, la sua ultima e la prima del nuovo patto. Non a caso Paolo ci ritornò sopra, facendo riferimento alla «nuova pasta» senza lievito e al fatto che Cristo è la «nostra Pasqua», ossia il nostro agnello pasquale già immolato. Per i dettagli rimando all’articolo «Rompere il pane: la cena del Signore?». {Nicola Martella}

 

 

3. {Luciano Leoni}

 

Ho apprezzato molto l'analisi sul calice e i bicchierini. Come sempre siete riusciti ad argomentare con semplicità senza scadere nella banalità, evidenziando come a volte si riesce a far diventare elefanti dei semplici moscerini. {06-10-2009}

 

 

4. {Antonello Are}

 

Contributo: Nooo, ancora queste problematiche? Ma dai... andiamo avanti... io voglio là intingermi il pane e faccio tutto in un boccone… :-) Quanti discorsi oziosi... e poi ci si chiede come mai il mondo non si apre a Cristo. {07-10-2009}

 

Osservazioni: È probabile che Antonello faccia qui solo delle battute e chi le fa così, è in genere uno che probabilmente è passato per una situazione simile che lo ha, per così dire, «devastato». Gli darò perciò pan per focaccia, tra il serio e il faceto, visto che di generi letterari umoristici qui in «Fede controcorrente» ne abbiamo da vendere.

     Di là dal fatto che ognuno può pensarla come vuole (ma se cristiano biblico, dovrebbe esercitarsi a pensare biblicamente), se questo tema non rappresentasse in molte chiese locali un serio problema, non lo affronteremmo. Se il problema c’è e cerchiamo di dare soluzioni, non possono essere «discorsi oziosi».

     Quanto al boccone intinto, è bene fare attenzione, visto che nell’ultima Pasqua di Gesù si parla dell’unico boccone menzionato in questi termini: «Intinto un boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. E allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Per cui Gesù gli disse: “Quel che fai, fallo presto”» (Gv 13,26s). Bocconi intinti possono essere quindi pericolosi!

     La saggezza non sta nel negare i problemi reali, ma nell’affrontarli con equilibrio, con sagacia, in modo salutare e con capacità di riuscire. Inoltre ricordo ciò che Paolo disse a proposito dei giorni e dei cibi in riferimento ai deboli, parlando ai forti: «Tu, la convinzione che hai, tienila per te stesso dinanzi a Dio. Beato colui che non condanna se stesso in quello che approva. Ma colui che sta in dubbio, se mangia è condannato, perché non mangia con convinzione; e tutto quello che non vien da convinzione è peccato. Ora noi che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei deboli e non compiacere a noi stessi. Ciascuno di noi compiaccia al prossimo nel bene, a scopo di edificazione» (Rm 14,22s; 15,1s).

     Che il mondo non si apra a Cristo, non dipende certo da queste questioni, ma dal fatto che in esso si ama più le tenebre che la luce (Gv 3,19; cfr. Is 5,20). D’altra parte però il mondo non si converte non tanto per i problemi che vede tra i credenti, ma per il modo che li affrontano, ossia per la grettezza d’animo dei «forti» e per la loro insensibilità.

     L’appello ricorrente nel NT al pari consentimento mostra che anche allora bisognava trovare soluzioni che rispettassero le convinzioni personali e la pace nella chiesa locale. Inoltre il Concilio di Gerusalemme (At 15) mostra che alcune problematiche rischiavano di spaccare la chiesa, e i fratelli cercarono la faccia di Dio, parlarono insieme delle cose (anche accesamente), confrontarono le opinioni e alla fine poterono dire: «…è parso bene allo Spirito Santo e a noi…» (v. 28). {Nicola Martella}

 

Replica 1: Grazie Nicola, sono felice che tu abbia colto il mio senso ironico più che la nota polemica... Ci vuole una forte intelligenza per carpire il vero senso di certe affermazioni... Dio ti benedica. {07-10-2009; Antonello Are}

 

Replica 2 (sunto): Carissimo Nicola, grazie per la tua risposta. Io la risposta la intendevo come un veloce e ironico commento sull’argomento che per anni ha funestato una chiesa che ho frequentato per anni... non ho gradito tanto l’appunto su Giuda, che fai riguardo al boccone che ho menzionato solo per provocare... di certo non è mio modo di partecipare alla Cena... la tua puntualizzazioni mi è sembrata eccessiva. {07-10-2009; Antonello Are}

 

Risposta: Pensavo che con la prima replica fosse tutto a posto e che il lettore avesse capito il senso faceto della mia seria risposta. Per dirla con un'immagine, avevo intuito il commento ironico di chi è già passato dal dentista tempo fa verso chi dal dentista deve ancora andarci. L’appunto su Giuda era una nota si spirito con cui ripagare la foga di chi, per sdrammatizzare (?), affermava di intingere il «boccone» nel vino pur di risolvere il problema fra calici e bicchierini. Non è che la proposta sia fuori luogo, ma il lettore, che voleva brillare così di particolare arguzia, prestava proprio in ciò il fianco per essere ripagato con la stessa moneta... diciamo 30 denari. Come recita un proverbio: «Chi la fa, l'aspetti». In ogni modo, ho aggiunto una nota iniziale alle mie osservazioni, così per evitare ogni «boccone amaro».

 

 

5. {Vincenzo Russillo}

 

Potremmo considerare un elemento linguistico che porta a considerare l’effimera importanza del calice come unico recipiente per il vino. Facendo un’analisi testuale di Luca 22,17 ritroviamo: «E avendo preso un calice, rese grazie e disse: “Prendete questo e distribuitelo [gr. diamersate da diamerizô] fra di voi”».

     Tale verbo lo possiamo ritrovare in Matteo 27,35: «Poi, dopo averlo crocifisso, spartirono [diemersanto da diamerizô] i suoi vestimenti, tirando a sorte».

     Diamerizô vuol dire letteralmente: 1) distribuire; 2) dividere in parti.

 

Potremmo ben dedurre che i discepoli divisero non il calice ma il contenuto (il vino), ossia lo distribuirono versandolo in diversi recipienti. {11 ottobre 2009}

 

 

6. {Nicola Martella}

 

È un’osservazione opportuna e perspicace. In effetti il verbo greco diamerízein significa «dividere in parti, spartire, separare, distribuire». Da questo termine deriva diamerismós «divisione, spartizione» (Lc 12,51). La particella dià (it. dis-), se unita a un verbo come affisso, ha in genere il senso di «attraverso qualcosa, via da qualcosa, diviso da qualcosa o in due». Il verbo diamerízein accentua in pratica l’azione del verbo merízein «spartire, scompartire, dividere, distribuire; medio: spartirsi qualcosa, prendere la propria parte».

     Il termine méros è la «parte», ossia il «totale» che può essere frazionato in altre, o la parte spettante di qualcosa (globalità), quindi anche il proprio turno, destino, sorte, autorità o incombenza. Si veda anche merís «parte, pezzo, porzione, fazione» e merismós «divisione, scompartimento, distribuzione, partizione».

     Per diamerízein si vedano i seguenti brani del NT (sarebbe interessante un’analisi della Settanta, la traduzione greca dell’AT):

     ■ Spartire gli indumenti di una persona fra diversi pretendenti: Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34; Gv 19,24.

     ■ Lc 11,17s (regno diviso in parti, Satana è diviso contro se stesso); 12,52s (persone divise tre contro due); 22,17 (calice: distribuitelo o fatene parte); At 2,3 (lingue come di fuoco che si dividevano); v. 45 (possessioni e beni: li distribuivano o ne facevano parte a tutti).

 

Il senso del verbo diamerízein è, quindi, negli aspetti che qui ci interessano, quello di fare parti diverse di qualcosa per farne parte a tutti coloro che ne hanno diritto. Nel caso del calice, non è importante il contenitore, ma che tutti ne abbiano la loro parte del contenuto; così anche per il pane che viene frazionato.

 

 

7. {Gianni Siena}

 

Sono per la Rammemorazione con il calice: così fece Gesù e così facciamo anche noi. Ricordo da bambino, nella chiesa di San Giovanni Rotondo (oggi: in Via Ariosto [N.d.R: Assemblea dei Fratelli]), quando gli anziani passavano con il vassoio e il calice tra le file di sedie a distribuire la «Cena». Naturalmente, ho pure accettato il costume vigente nelle ADI, di chiamare davanti al pulpito i presenti per partecipare alla Rammemorazione: il pane si spezza davanti al credente o è già tale... ma il calice è l’oggetto irrinunciabile dal quale si beve tutti, senza considerazioni di carattere igienico o scrupoli personali.

     Al riguardo ricordo che in casa mia mangiavamo nello stesso piattone di ferro smaltato di porcellana ed eravamo tutti fratelli o familiari. La stessa cosa avviene nella famiglia cristiana e se siamo «nati di nuovo», avendo lo stesso Padre divino, nessuno deve avere ripulsa del fratello per il quale Cristo è morto. Il rito (odio generalmente i riti) della Cena del Signore deve rimanere così com’è (possibilmente). Esso conserva il sapore delle cose che Dio ci ha tramandate e che benedicono il cuore: i discepoli sulla via di Emmaus riconobbero il Risorto dal gesto di benedire e spezzare il pane... erano discepoli attenti all’esempio del Maestro. Per questo non apprezzo l’uso dei bicchierini, passi pure che, causa i numeri, si distribuiscano il vino e il pane in vassoi e calici differenti: ma si mantengano i gesti e l’uso che la chiesa osserva fin dalla «notte in cui Gesù fu tradito». {21 ottobre 2009}

 

 

8. {Nicola Martella}

 

Gianni Siena può avere le sue convinzioni al riguardo. È però singolare che scriva come se Tonino Mele non avesse argomentato esegeticamente nel suo articolo. Strano che in Italia si risponda non a ciò che scrive un autore, ma su ciò che piace e si preferisce; così è anche lo scritto di Michele Papagna sullo stesso soggetto. [► Confronto su calici o bicchierini] Facendo ciò, si mischiano spesso indebitamente pure mele con pere (nulla di personale con Tonino). Così ci si parla fra sordi. In tal modo si costringe l’autore o la redazione a ripetere cose già dette per rispondere. In un certo modo, così si ruba tempo a fratelli.

     In tali cose non possiamo partire dai nostri bisogni o dalle nostre preferenze, dalla nostra convenzione o dalla reazione a una convenzione esistente. Così alimentiamo un cristianesimo viscerale, animico, interiorista, psichico, arbitrario, romantico e debole.

     Per dialogare, bisogna sempre partire da ciò che ha affermato l’altro (qui l’autore dell’articolo) e bisogna mostrare con un ragionamento chiaro e lineare dove gli argomenti biblici, esegetici e razionali dell’altro non siano abbastanza convincenti e perché. Così si alimenta un cristianesimo maturo e sano.

     L’altro rischio è che si proietti il modo di fare della propria chiesa attuale o quella d’origine sugli eventi biblici, pretendendo che così facessero Gesù e gli apostoli. Addirittura i propri ricordi dell’infanzia giocano un ruolo per dare un colpo di spugna a tutte «le considerazioni di carattere igienico o scrupoli personali»! Anch’io ho mangiato in famiglia da un solo piatto, quand’ero ragazzo, ma tale esperienza non diventa motivo di romanticismo o base dell’azione oggi in un modo culturalmente mutato. Infatti mi chiedo se il figlio di Gianni mangerebbe abitualmente dallo stesso piatto o berrebbe solitamente dallo stesso bicchiere del padre durante i pasti o se lo farebbero i figli di Michele Papagna.

     Per sapere com’era «il sapore delle cose che Dio ci ha tramandate», bisognerebbe che fossero descritte per filo e per segno e che le facessimo proprio così come furono fatte allora (Gesù festeggiò un pasqua con i suoi; Luca parla di due calici, ecc.). Quand’ero ragazzo in famiglia e al tempo di Gesù fra famigliari e amici uno poteva prendere un boccone di pane, intingerlo in un liquido (p.es. sugo, salsa, intingolo) e darlo a un altro (cfr. Gv 13,26). Tanto si mangiava tutti dallo stesso piatto, si intingeva il pane nello stesso liquido (Rt 2,14 aceto). Per essere «biblici», dovremmo fare come loro? Visto che gli autori del NT si concentrarono più sul significato che sulla forma, rischieremmo anche qui di nettare ipocritamente solo «il di fuori del calice», trascurando magari il di dentro (Mt 23,25s).

     È singolare la menzione dei discepoli di Emmaus. Si vuole forse suggerire che, spezzando il pane con tale forestiero, essi abbiano «celebrato la cena del Signore»? (Lc 24,29ss). Riporto alla mente che l’articolo di Tonino Mele si è occupato specialmente del calice, non del pane; dove sta qui? Se tali discepoli erano «attenti all’esempio del Maestro», dovremmo fare come allora facevano in famiglia e faceva Gesù con i suoi discepoli, ossia che chi benediceva il pane, faceva dei pezzi e li dava lui agli altri partecipanti a tavola? In fatti è scritto che egli «il pane… spezzatolo lo dette loro» (Lc 24,30.35). Così accadde anche nell’ultima Pasqua del Messia (Mt 26,26). Il conduttore della chiesa dovrebbe spezzare lui boccone per boccone e darlo ai membri della comunità sul modello del prete che distribuisce ostie ai fedeli?

     Se non si va alla sostanza delle cose e non si accetta che quel mondo d’allora non è il nostro e che il nostro modo di gestire la «cena del Signore» non coincide in tutto e per tutto con la cultura devozionale e religiosa d’allora (la prima chiesa era tutta giudaica! At 21,20 «tutti sono zelanti per la legge»; la vita dei credenti si svolgeva nelle «chiese in casa» non in locali di culto) — allora veramente scadremo in romanticismi, in legalismi, in latenti sacramentalismi di ritorno che nettano ipocritamente solo «il di fuori del calice».

 

 

9. {Tonino Mele}

 

L’affermazione iniziale di Gianni non fa una piega. Essa fa parte delle opzioni legittime presenti in questa questione. Che Gesù abbia usato un solo calice è indiscutibile, così come non è oggetto di discussione che Gianni e presumo la sua chiesa, a cui il suo «noi» si riferisce, continuino a perpetuare tale consuetudine.

     Il problema si pone, e talvolta viene posto anche con eccessiva durezza, quando qualcuno vuol andare oltre questa consuetudine e sostituire il calice con altri contenitori. Questa pratica non viene considerata come opzione legittima della questione e spesso si fanno affermazioni che rasentano il giudizio contro chi la pone in essere.

     Eppure, come detto nel mio articolo, credo che sia più che legittimo chiedersi dinanzi alla Parola di Dio se ci siano ragioni sufficienti per considerare il calice «oggetto irrinunciabile» della Cena, come dice Gianni.

     Qui non si tratta di far valere le nostre convinzioni, le nostre opinioni e magari i nostri pregiudizi, ma di riflettere in modo ordinato sui testi biblici inerenti alla questione e vedere bene dove cade l’enfasi dell’insegnamento biblico, come vengono impiegati i termini, ecc.

     Una delle prime cose che noi evangelici, o meglio, evangelici come noi, abbiamo imparato a vedere in questi dati biblici è che la Cena è un simbolismo intorno alla «morte del Signore» (1 Cor 11,26). Non è dunque un sacramento nel quale sia implicito, qualche benedizione automatica, sia nel celebrare la Cena in sé, sia nel modo di celebrarla. Anzi Paolo poté dire chiaramente ai Corinzi: «Quando poi vi riunite insieme, quello che fate, non è mangiare la cena del Signore» (1 Cor 11,20), senza neppure porre la questione della forma. Più della forma è importante l’atteggiamento interiore del celebrante, sia verso il Signore che verso la sua chiesa, tant’è che l’unico testo che lega un «giudizio» alla Cena, non riguarda la forma della sua celebrazione, ma il fare questo «indegnamente», senza «discernere il corpo del Signore» (vv. 27-29). Questo rilievo è importante farlo, non per dire che la forma della Cena non ha importanza, ma per evitare l’altro estremo di sacralizzare troppo la sua forma.

     Certamente, trattandosi d’un simbolismo, anche la forma della Cena ha la sua importanza, ed è proprio perché sono fortemente convinto di questo che ho dedicato la gran parte del mio articolo precedente a indagare l’esatta forma di questo simbolismo. E altresì credo e lo ribadisco a chiare lettere, che tra tutte le ragioni che si possono addurre per sostenere l’uso del calice, la più pertinente e forse, l’unica che meriti una vera risposta sia quella di sostenere che, eliminando il calice si smarrisce un dato importante del simbolismo della Cena. Se non altro una tale tesi ha il merito, per nulla scontato, di riportare la questione e la sua discussione sul terreno biblico, cioè dove tutta la questione nasce e dove deve trovare la sua soluzione.

     Questo è il punto! Qui bisogna arrivare e da qui si deve ripartire! La questione è molto semplice: chi dimostra che la Scrittura dà al calice un valore simbolico come lo dà al pane e al vino, e quindi che i simboli della Cena non sono due, ma tre, allora ha pienamente ragione nel sostenere «l’irrinunciabilità» del calice. Finché non si dimostra questo, dissentire è più che lecito e ogni altra considerazione rischia non solo d’essere fuorviante, ma anche di creare malanimo e irritazione.

     Cosicché, valutando da questa prospettiva il contributo di Gianni, anche se rispetto la sua posizione perché come ho già detto «fa parte delle opzioni legittime presenti in questa questione», lo ritengo assolutamente insufficiente, perché non aggiunge niente di sostanziale al punto centrale della questione, e quindi non dà, a chi vuol cambiare, una ragione veramente valida per non poterlo né doverlo fare. Per intenderci, che in casa sua, tutti i suoi familiari mangiassero nello «stesso piattone di ferro smaltato di porcellana» non è una ragione sufficiente per pretendere che anche la chiesa faccia così in ogni luogo, anzi può essere rischioso applicare una pratica familiare, locale e quindi culturalmente condizionata, alla chiesa, il cui carattere è universale e sovra-culturale.

     Il fatto poi dei due discepoli di Emmaus, non aggiunge molto alla questione, anzitutto perché non è chiaro se Gesù sta celebrando la Cena con questi due discepoli. Lui stesso aveva lasciato intendere che non avrebbe più celebrato la Cena se non «nel regno del Padre mio» (Mt 26,29; Mc 24,25). Si deve poi tener presente che nel momento, in cui Gesù istituì la Cena, c’erano solo i «dodici» (Mt 26,20; Mc 14,17; Lc 22,14) e quindi, i due di Emmaus non erano presenti, non facendo parte del novero dei dodici. Probabilmente sta semplicemente facendo ciò che egli era solito fare prima di mangiare (cfr. Mc 6,41; Lc 9,16). Permane certo l’idea in tale esempio che la forma di certe cose ha la sua importanza, perché rimane più impressa, ma questo può valere sia per il calice che senza il calice, semplicemente per pane e il vino. E visto che non siamo sicuri che qui si trattasse d’una celebrazione della Cena, è più coerente non prendere questo testo come prova a favore della «irrinunciabilità» del calice. [N.d.R. Il brano non parla di calice (!), ma del modo caratteristico come Gesù spezzasse il pane durante il desinare quotidiano.]

     Per contro e a rischio di ripetermi, ribadisco quanto detto nel mio articolo precedente, dove credo d’aver dimostrato sufficientemente che la Scrittura non dà al calice un chiaro valore di simbolo in sé e che il simbolismo della cena s’esaurisce pienamente nel pane e nel vino, come del resto la chiesa ha sempre ritenuto nei secoli. Risolto questo enigma, io credo che passare dal calice ai calicini diventa opzione legittima quanto quella di continuare con «l’unico calice»; e chi lo fa, non deve sentirsi giudicato né dalla propria coscienza, né dagli altri, come se avesse smarrito qualche pezzo importante e imprescindibile di questa celebrazione.

     Da qualche settimana, la mia chiesa locale, nell’ambito della autonomia che la Scrittura le riconosce, ha optato per i calicini, e personalmente faccio questo con la stessa gioia e intensità di sempre, consapevole del fatto di continuare a ubbidire pienamente al comandamento del mio Signore e maestro Gesù Cristo. {21 ottobre 2009}

 

Nota redazionale: Questa risposta a Gianni Siena su calice e calicini riguarda, per certi aspetti, anche le cose scritte da Michele Papagna. [► Confronto su calici o bicchierini] Al riguardo puntualizza: Credo che hai risposto ottimamente. Spero che Michele entri nel merito delle cose, altrimenti si rischia, come al solito di toccare solo elementi secondari della questione. Il punto è capire quello che la Scrittura dice, tenendo presente le evidenze che le sono proprie; e credo che un confronto serio debba essere di stimolo gli uni agli altri proprio in questa direzione. {21 ottobre 2009}

 

 

10. {Antonio Capasso}

 

Pace, fratello Nicola. Ho letto con molta attenzione, i vari contributi sulla questione posta da Tonino Mele, con riferimento alla cena del Signore. Anch’io sono stato sempre favorevole alla celebrazione con il calice, sia dal punto di vista biblico, sia per consuetudine, perché in chiesa mia si è sempre fatto così. Quanti erano favorevoli per i bicchierini, biblicamente non sono mai riusciti a convincermi che ciò fosse legittimo.

     Devo dire però, che Tonino Mele è riuscito con le sue argomentazioni bibliche a incrinare questa mia convinzione. Ha ragione Nicola, quando dice che coloro, che si sono opposti alla tesi di Mele, non rispondono nel merito. Poche sono le risposte argomentate sul terreno biblico.

     Aggiungo che là, dove ho visto celebrare la cena con i bicchierini, il tutto mi è sembrato un po’ freddo. Credo che rivivere le gesta che Gesù fece in quella notte sia importante. Che almeno ci sia il «rito» dello spezzare il pane e il riempire il calice. Dio vi benedica. {24-10-2009}

 

 

11. {Nicola Martella}

 

Come afferma giustamente il lettore precedente, gli argomenti dei cristiani biblici devono essere di natura esegetica per valere veramente in un confronto serio. Gli «a me piace» e i «per esempio» non sono argomenti validi.

     La freddezza o il trasporto emotivi dipendono in gran parte dal «clima» della comunità, comunque celebri la Cena del Signore, oltre che dall’atteggiamento del proprio cuore. Sul piano delle esperienze si potranno sempre portare esempi pro e contro qualcosa di rituale. Io stesso potrei fare tanti esempi riguardo a comunità locali che celebrano, mediante calice e pagnotta, la Cena del Signore con imbalsamata solennità, come se fossero a un funerale e non alla festa del Risorto in attesa della sua parusia. Subito dopo tale rito di rammemorazione, come se avessero oramai seppellito il morto, ritornano a essere più «normali» e rilassati.

     In tali comunità sento una grande nostalgia verso la comunità in crescita, in cui ho attualmente il privilegio di servire e con cui posso riportarmi idealmente con tali credenti sia sul Golgata, sia alla tomba vuota, sia al luogo dell’ascensione, sia al trono di Dio, dove c’è il nostro Garante e Mediatore in procinto di tornare. Allora celebrare la Cena del Signore con calice o calicini, con pagnotta, fette di pane, fette biscottate, pancarré (ne ho viste di tutti i colori nelle comunità, anche con i cracker in mancanza di pane per la smemoratezza degli addetti), e ciò in formato intero o a pezzettini, lievitato o azzimo, salato o sciapo... — in fondo, se si guarda al Signore e si ama i fratelli, può essere tutto secondario rispetto al significato dei simboli e alla presenza del Signore in quei momenti... sebbene ognuno possa avere le sue predilezioni. Per non menzionare le preferenze riguardo al frutto della vite (vino o succo d'uva), dov'esso certamente esiste; poi in alcune comunità qui in Italia, dove sono stato, esso era così acetoso (avendo lasciato il vino in sala per una o due settimane!) che tale addetto smemorato ci ha fatto sentire tutti i «brividi» della Passione all'assaggio!

     Noi preferiamo i calicini, altri lo facciano con i «calicioni» o altri contenitori: per noi la libertà altrui non impedisce la nostra. Dissentiamo soltanto da coloro che pretendono che il loro costume liturgico sia quello originale e l’unico possibile. Non avendo il Signore prescritto in modo chiaro e incontrovertibile né la forma precisa né i tempi per celebrare la Cena, possono esserci differenti convinzioni legittime. Gli altri usino la loro libertà di coscienza, noi useremo la nostra nel rispetto di quella altrui, sia nella forma, sia nei tempi.

 

 

12. {Gigliola Biella, ps.}

 

«Non tenterai il Signore Dio tuo»

 

Un tempo l’unione tra i vari membri d’una famiglia s’esprimeva col mangiare nello stesso piatto; ora direi che s’esprime ancora nel mangiare assieme (ciascuno, per fortuna, nel suo piatto), ma soprattutto nell’aver cura l’uno dell’altro, anche dal punto di vista igienico.

     Quand’ero bambina abitavo in campagna e i miei genitori attingevano l’acqua dal pozzo con un secchio. Questo, una volta riempito, veniva portato in cucina e posto sul lavandino, dove restava finché doveva essere riempito di nuovo. Nel secchio stava sempre immerso una specie di mestolo. Chi aveva sete, andava al secchio e lo portava alla bocca.

     Un po’ d’anni fa, ho capito perché a quei tempi, quando uno della nostra famiglia prendeva il raffreddore, immancabilmente lo prendevamo tutti quanti, e quella che aveva l’onore di dare inizio all’epidemia ero sempre io; seguiva mio fratello, e poi non so più quale dei nostri genitori, ma l’ordine era sempre quello.

     Gesù non è venuto per insegnarci l’igiene, ma per renderci con lui figli del Padre e fratelli tra di noi. Non so se Gesù sapeva che esistevano i microbi. Certi dicono di no, perché, quando venne ad abitare in mezzo a noi (Giovanni 1,14) «svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini» (Filippesi 2,7). Se costoro hanno ragione, certamente fu il Padre stesso a prendersi cura degli apostoli che avevano bevuto allo stesso calice, preservandoli, se era necessario, da una possibile malattia.

     Adesso però noi sappiamo come si trasmette il raffreddore, e tante altre malattie epidemiche. Sappiamo anche che esistono portatori sani d’infezioni come il tifo o il colera, cioè persone che, pur non presentando alcun sintomo di malattia, sono contaminati da un agente patogeno (microbi) e possono far ammalare altri individui. Per questo le norme sanitarie impongono a chi, per esempio, svolge la funzione di cuoco o d’aiuto cuoco in una comunità o in un ristorante, d’attestare mediante esami clinici la propria immunità da certi agenti patogeni e di tenere presso di sé, in vista d’eventuali ispezioni, la relativa documentazione.

     Gesù non si buttò dal pinnacolo del tempio, quando il diavolo lo esortò a farlo, dicendogli che tanto Dio avrebbe dato ordine agli angeli di «portarlo sulle loro mani» (Matteo 4,5s), e gli rispose: «È altresì scritto: “Non tenterai il Signore Dio tuo”».

     Non è il caso d’essere imprudenti, pretendendo poi che Dio faccia un miracolo. Noi dobbiamo cercare d’evitare i guai a noi stessi e agli altri, sempre nel rispetto della legge di Dio; se poi i guai arrivano lo stesso, possiamo sempre chiedere a Dio un miracolo, e sarà lui a decidere se farlo o no. {4 dicembre 2009}

 

Confronto su calici o bicchierini 1 {Michele Papagna - Nicola Martella} (T/A)

Confronto su calici o bicchierini 2 {Papagna - Mele - Martella} (T/A)

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Calice_bicchier_parla_EdF.htm

06-10-2009; Aggiornamento: 06-12-2009

 

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