Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

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Prassi di chiesa

 

 

 

 

Oltre alle parti introduttive (Bibbia, AT) e al Giochimpara finale, il libro contiene due parti distinte dell’AT: l’Epoca Babilonese e l’Epoca Persiana. In appendice ci sono tre excursus:
■ I nomi ebraici di Dio
■ Il patto, i patti e i testamenti
■ La Bibbia fra criticismo e modernismo.

 

◘ Ecco le parti principali dell’Epoca babilonese («Libri storici e profetici III»):
■ L’epoca babilonese in generale
■ Sofonia
■ Habacuc
■ Geremia
■ Lamentazioni
■ Daniele
■ Ezechiele
■ Il tempo dell’esilio. 

 

◘ Ecco le parti principali dell’Epoca persiana («Libri storici e profetici IV»):
■ L’epoca persiana in generale
■ Esdra-Nehemia
■ Ester
■ Aggeo
■ Zaccaria
■ Malachia
■ L’epoca intertestamentaria.

 

► Vedi al riguardo la recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CONFRONTO SU CALICI O BICCHIERINI 2

 

di Michele Papagna - Tonino Mele - Nicola Martella

 

1. Alcune osservazioni {Michele Papagna}

2. Le risposte {Tonino Mele}

3. Ulteriori osservazioni {Michele Papagna}

4. Osservazioni e obiezioni {Nicola Martella}

 

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Michele Papagna ha inviato a Tonino Mele alcune considerazioni che entrano nel merito del suo articolo su «Calice o bicchierini?». Sebbene tutto ciò poteva trovare posto nel tema «Calice o bicchierini? Parliamone», a causa della specificità e della lunghezza dei contributi e delle risposte, abbiamo preferito mettere il tutto extra.

    Michele Papagna esprime la sua posizione in merito e dà spunti esegetici a Tonino Mele, che poi risponde. Io mi limito dapprima perlopiù a fare da redattore, correggendo i loro testi, verificando e traslitterando opportunamente i termini greci usati e dando struttura e visibilità ai loro testi. Alla fine, aggiungo un mio contributo in cui affronto Giovanni 4,9 (e il verbo synchrôntai) e la questione della rammemorazione e del memoriale.

    Questo confronto segue uno precedente fra Michele Papagna e il sottoscritto: «Confronto su calici o bicchierini 1». {Nicola Martella}

 

 

1. Alcune osservazioni {Michele Papagna}

 

Entriamo in tema

     Caro Tonino, ho letto il tuo articolo e l’ho riletto. Non trovo nulla da eccepire nella tua analisi biblica, che apprezzo prima di tutto perché parte dai dati biblici a disposizione e li affronti correttamente; e in secondo luogo perché suggerisci nella parte conclusiva alcuni consigli pratici dettati da saggezza spirituale. In particolar modo al termine dell’analisi di 1 Corinzi 10,14-22, fai l’importante distinzione del significato di comunione tra il calice (vino) e il pane. Quindi concordo con le tue conclusioni.

     Infine apprezzo il tuo lavoro, perché mantiene bassi i toni del discorso preferendo aiutare a risolvere questioni di carattere contingente.

 

Alcune osservazioni

     Non aggiungendo nulla riguardo al tuo articolo, voglio fare qualche osservazione aggiuntiva che forse può essere utile per orientarsi o per affrontare o approfondire la questione.

     ■ Il termine «calice» è una figura retorica chiamata «metonimia»: l’allusione al contenitore ne indica il contenuto (come «croce» o «sangue di Cristo» allude alla morte di Gesù Cristo). Perciò è inutile accanirsi sul «calice», come molti fanno.

     ■ In Luca 22,20 è parlato d’un calice (vino) che è passato tra i discepoli presenti e a cui i presenti hanno bevuto. Questo brano è chiaramente descrittivo e non ha finalità prescrittive. Pertanto non dobbiamo usarlo come pretesto per farne né una dottrina né una prescrizione, oggi. In quella prassi traspare comunque la componente di condivisione, la compartecipazione allo stesso calice, come espressione d’appartenenza a una stessa corporazione o famiglia.

     ■ Quando molti, fra cui il sottoscritto, preferiscono il calice ai bicchierini, non lo fanno perché «la Bibbia prescrive il calice!», come suggerito nell’articolo (è chiaro che parlo delle realtà che conosco). A dire il vero, sebbene corretta la tua analisi, a mio avviso non coglie pienamente il perché oggi molte assemblee rifiutino l’uso dei bicchierini, preferendo i calici.

     Infatti nelle assemblee grandi raramente s’utilizza un solo e unico calice ma più calici (o bicchieri) per la distribuzione del vino, senza che ci si crei il problema del numero dei calici. Il calice non ha niente di sacro in sé, né è prescritto come indispensabile.

     Piuttosto il bere allo stesso calice (o a più calici, nell’occorrenza), a mio parere esprime visibilmente il senso d’appartenenza reciproca alla stessa famiglia (come il testo di Luca 22,20 innanzi citato). Ci tengo a precisare: questa è una preferenza personale che non deriva da prescrizioni bibliche.

     Come illustrazione, leggendo Giovanni 4,9, quando è detto che i Giudei non hanno relazione con i Samaritani, l’espressione greca è synchrôntai, che deriva da una espressione che significa «bere allo stesso calice». Ecco questo è il senso che io ne do: nel bere allo stesso calice alla cena del Signore io voglio esprimere esteriormente questo senso d’appartenenza reciproca alla medesima famiglia, ribadita anche nella pratica del prendere da uno stesso pane, e non da pezzettini di pane pretagliato (comunque hai fatto bene a distinguere il significato di comunione tra il calice e il pane).

     A scanso d’equivoci non intendo dire che laddove si beve ai calici, ci sia più comunione tra i credenti rispetto a dove si beve ai bicchierini.

     ■ In questo senso, non essendoci prescrizioni bibliche ma solo preferenze personali (sia per i bicchierini che per il calice), ogni chiesa deve valutare quale prassi adottare, senza scadere in motivazioni puerili e considerando «la causa di forza maggiore» nelle cose secondarie (quelle non specificate nelle Scritture) e nelle preferenze personali, che è l’amore per il fratello (Romani 14,13-23).

     Fin qui le considerazioni mie sull’ottimo articolo scritto da te sul tema in oggetto.

 

Alcuni approfondimenti

     Vorrei infine precisare una cosa: quando parlo di rammemorazione in senso d’anamnesi, mi riferisco al termine greco anámnēsis, che il Nuovo Testamento utilizza per parlare di questa commemorazione (fate questo in memoria, in ricordo, in rammemorazione…). E questo termine è diverso dal termine greco che indica il memoriale (gr. mnēmósynon, p.es. Matteo 26,13; Atti 10,4). Il termine ricordare (gr. anámimnēskein) indica un’azione soggettiva che il credente deve fare davanti al pane e al vino, mentre il termine memoriale (gr. mnēmósynon) indica un segno oggettivo che serve quale memoriale e che non coinvolge soggettivamente il credente. {22-10-2009}

 

 

2. Le risposte {Tonino Mele}

 

Caro Michele, anzitutto, grazie per aver riconosciuto il valore esegetico del mio lavoro: lo prendo come una conferma e un incoraggiamento a proseguire per la stessa strada.

     Mi son poi piaciute le tue osservazioni aggiuntive, non tanto perché confermano le mie conclusioni, ma perché portano spunti esegetici interessanti, che credo completano veramente il quadro. In particolare mi hanno «colpito» le considerazioni sulla metonimia e sull’anámnēsis, che credo dovresti approfondire ulteriormente. Permettimi solo qualche precisazione

     In merito a Lc 22,20: non credo che sia «un brano descrittivo», piuttosto, essendo che il brano (insieme ai suoi paralleli) riporta l’istituzione della Cena da parte di Gesù, credo che sia «altamente prescrittivo, ma con elementi descrittivi»; e questi ultimi non vanno sopravvalutati più di quanto l’insegnamento positivo di Gesù lo consenta. A conferma di ciò è bene rilevare che in 1 Corinzi 11, Paolo s’avvale del «regolamento» della Cena già presente nella sua istituzione, e da quello parte per correggere le storture che s’erano venute a creare a Corinto (cfr. 11,23-27 «Poiché ho ricevuto… perciò…»).

     Tu affermi che «bere allo stesso calice (o a più calici, nell’occorrenza), a mio parere esprime visibilmente il senso d’appartenenza reciproca alla stessa famiglia (come il testo di Luca 22,20 innanzi citato)». Riguardo a tale argomento fai bene a precisare che «è una preferenza personale che non deriva da prescrizioni bibliche». Io non avrei niente da eccepire verso questa preferenza, perché so che il medesimo testo può avere diverse applicazioni (a seconda delle situazioni e dei bisogni). Faccio comunque notare che Paolo attribuisce al pane e non al calice questo senso d’appartenenza al corpo di Cristo, cioè alla chiesa (1 Cor 10,16-17), mentre «il calice» rappresenta più propriamente la «comunione col sangue di Cristo», quindi l’aspetto in parte collettivo («il calice che noi benediciamo»), ma forse più propriamente soggettivo e individuale di questo simbolismo. Comunque sia, si deve ricordare che un’applicazione secondo le proprie preferenze individuali o locali, non è normativa, cioè valida per tutti allo stesso modo. E non è superfluo ricordare che Gesù, quella sera, usò il calice con «i dodici» (Mt 26,20; Mc 14,17; Lc 22,14), cioè con un gruppo ristretto e selezionato, con cui aveva vissuto a stretto contatto per tre anni, giorno e notte. Se vogliamo applicare in modo indiscriminato l’uso del calice, cioè a tutti e dovunque, credo che dobbiamo un attimino confrontarci con questo dato di fatto.

     Ciò che dici su synchrôntai, termine usato in Gv 4,9 è interessante, però ho invano cercato una fonte che confermi tale notizia. Mi puoi dire da dove l’hai attinta?

     In parte hai anche ragione nel dire che il mio articolo «non coglie pienamente il perché oggi molte assemblee rifiutino l’uso dei bicchierini, preferendo i calici». Infatti, lo scopo dell’articolo non era cogliere o «avversare» questo dato, come del resto hai riconosciuto pure tu col tuo commento sul livello dei «toni» da me usati. L’articolo è nato perché la mia chiesa locale si è posto il problema, e mi è parso più consono alla mia identità di cristiano di indagare tale problema, a partire da ciò che i testi biblici affermano, piuttosto che da ciò che altre assemblee affermano. Questo è anche più consono al principio dell’autonomia della chiesa locale, tanto caro alle Assemblee e che considero tra gli aspetti più preziosi di quest’eredità. Del resto, in merito a ciò che pensano le altre assemblee è interessante la domanda che si pone l’ex-studentessa che ha aperto la discussione in questione nel sito «Fede controcorrente»: «È possibile (come afferma qualcuno) che nell’uso dell’unico bicchiere si nasconde qualche dottrina?».

     Grazie ancora per averci dato questi ottimi spunti di riflessione. {24-10-2009}

 

 

3. Ulteriori osservazioni {Michele Papagna}

 

Caro fratello Tonino… Vengo alle tue osservazioni, su cui concordo. È vero ciò che tu dici: Gesù istituì la Cena del Signore, e pertanto quei testi che ne parlano sono «altamente prescrittivi, ma con elementi descrittivi». Mi riferivo alla descrizione di certe forme. Pensa che certe volte mi tocca «combattere», quando qualcuno afferma che la Bibbia ordina la preghiera della benedizione tra il passaggio del pane e il passaggio del calice (vino).

     Lo stesso dicasi per quanto riguarda la regolamentazione del caso di 1 Corinzi 11. Concordo pienamente!

     Riguardo al termine synchrôntai (Giovanni 4,9), è una parola apaxlegomena, cioè che si trova una sola volta nel NT, che deriva da una espressione che significa «bere allo stesso calice».

     Ecco le fonti a cui ho attinto, ossia libri in mio possesso:

     ■ M. Henry - F. Lacueva, Juan, Commentario Esegetico Devocional a toda la Biblia (ed. Clie, Spagna, 1983), Tomo 10, p. 93 (questo commentario è basato sulla versione di M. Henry, ma arricchita e aggiornata da Francisco Lacueva, uno dei migliori e prolifici studiosi evangelici di lingua ispanica, già erudito gesuita prima della sua conversione): «Infatti i Giudei non hanno relazioni con i Samaritani, - lett. non usano in comune le stesse stoviglie». Seppure il commentario devozionale, F. Lacueva è riconosciuto per il suo rigore esegetico.

     ■ W.F. Arndt - F.W. Gingrich, A Greek – English Lexicon of the NewTestament and Other Early Christian Literature (ed. The University of Chicago Press, 19792). Alla voce synchráomai, riporta l’uso nei classici che preferiscono «…use [vessels for food and drink] together» (= «…usare insieme [vasi per cibo e bevande])». È la fonte più scientifica.

     ■ A.T. Robertson, Juan y Hebreos, Imagenes Verbales en el Nuevo Testamento (ed. Clie, Spagna, 1990), Tomo 5 [trad. spagnola di Word Pictures in the New Testament]: synchrôntai, presente indicativo in voce media di synchráomai, composto in koiné letterario, solo qui nel NT… la samaritana forse fu sorpresa che Gesù fosse disposto a bere dal suo vaso, calice. Questo autore è stato uno dei maggiori studiosi di greco del NT.

     ■ E.F. Harrison, Comentario Biblico Moody (ed. Portavoz, USA 1971) [ingl. Wycliffe Bible Commentary of New Testament]: «…al detto della donna è stato attribuito un senso ridotto, — i giudei non usano stoviglie in comune con i samaritani (D. Daube, The New Testament and Rabbinic Judaism, pp. 35-382, citato anche in W.F. Arndt e F.W. Gingrich). Everett Harrison uno studioso molto serio, che tra l’altro cita la fonte del cattedratico Daube, a cui attinge anche la fonte n° 2.

     ■ D. Guthrie, Commentario Biblico (Ed. Voce della Bibbia, Modena 1976), vol. 3. Questo autore è stato studioso rinomato.

 

Sul web ho trovato altri riferimenti d’autori seri (p.es. Donald Carson), ma non ho reputato opportuno riportarli. Anche il dotto studioso Alfred Edersheim, sebbene non in modo dettagliato, ne dà lo stesso senso, facendo riferimento agli scritti rabbinici in The Life and Times of Jesus the Messiah. Colgo l’occasione per salutarti caramente. {26-10-2009}

 

 

4. Osservazioni e obiezioni {Nicola Martella}

 

1.  LE QUESTIONI DI GIOVANNI 4,9

 

Entriamo in tema

     Qui ci riferiamo a Giovanni 4,9. Michele Papagna insiste su questo brano e su uno dei verbi (synchrôntai), ivi contenuti, e fa ripetutamente leva su di loro come fossero una delle maggiori chiavi di volta nel ragionamento ritenuto probatorio. Uso, perciò, l’occasione per dare qualche elemento di ermeneutica e di esegesi, ossia di interpretazione e spiegazione biblica, usando proprio tale esempio. Infatti, come vedremo, impostare tutto un ragionamento su un verbo, che per di più ricorre una sola volta in tutto il NT, è usare un coltello a doppio taglio o un boomerang. Tale ragionamento è facile da smontare.

 

Le tesi ribadite

     Michele Papagna ha affermato: «Come illustrazione, leggendo Giovanni 4,9, quando è detto che i Giudei non hanno relazione con i Samaritani, l’espressione greca è synchrôntai, che deriva da una espressione che significa “bere allo stesso calice”».

     Tonino Mele gli ha risposto così: «Ciò che dici su synchrôntai, termine usato in Gv 4,9 è interessante, però ho invano cercato una fonte che confermi tale notizia. Mi puoi dire da dove l’hai attinta?».

     Per risposta Michele Papagna ha ribadito: «Riguardo al termine synchrôntai (Giovanni 4,9), è una parola apaxlegomena, cioè che si trova una sola volta nel NT, che deriva da una espressione che significa “bere allo stesso calice”». Poi egli riporta una serie di fonti che dovrebbero chiarire la cosa.

 

Una prima reazione

     Analizzando tali fonti nel modo come sono state riportate da Michele Papagna, devo constatare purtroppo che, di là dalle dichiarazioni, tali fonti non dimostrano un bel nulla. Ad esempio, qual è il termine in synchráomai che dovrebbe significare «vessel» (vaso, conca, recipiente, ecc.)? Sinceramente sono rimasto deluso. A me sembra che tali studiosi, nel modo come sono stati citati da Michele Papagna, si muovano in cerchio, aderendo a una convenzione, che tutti menzionano, ma che in fondo nessuno ha veramente analizzato fino in fondo.

     Anticipo che non ho trovato né nel NT né nel greco classico un sostantivo chráos o simile, derivante dal verbo synchráomai e che significhi «calice, coppa, bicchiere», ma neppure «stoviglie, vasellame» o simili. I sostantivi greci per cose simili sono in greco, dépas, éptōma, skyfos e potērion; i primi tre non ricorrono mai nel NT. Anche i termini greci per stoviglie o vasellame, ossia skeyē (At 27,19 arredi della nave) e kéramos (Lc 5,19 qui per tegola), non hanno qui nulla da aggiungere.

 

 

Approfondimenti

     ■ Gesù parlò alla Samaritana in aramaico e tale discorso fu poi tradotto in greco. Quando si traduce, si cerca di rendere il senso delle parole originarie così come sono usate abitualmente (il vocabolario di Giovanni è relativamente esiguo) e non si pensa all’etimologia.

 

     ■ Appunto voler risalire all’etimologia di un verbo, per avere argomenti da far valere, è alquanto pericoloso e può distorcere il senso delle cose dette effettivamente da parte di chi parla. Chiunque si arrampica così sugli specchi, usando l’etimologia, rischia presto di cadere. Tali argomenti, sebbene al momento mirabili e luminosi, diventano spesso boomerang che colpiscono chi li usa, mostrandone l’eventuale abuso. Non si può fare di una semplice donna samaritana un’esperta di etimologia!

     Ecco qui di seguito qualche esempio al volo. Quando qualcuno dà a suo figlio il nome «Claudio», non pensa a «claudicante», ma al ben suono. Abitualmente chi parla di prosopopea «discorso di una cosa inanimata», quale figura retorica, non sta pensando a prósōpon «faccia, maschera», da cui deriva. Il giornalista che scrive della bella coreografia di una certa commedia, non pensa al chorós «coro, danza». Lo stesso dicasi di parole latine o vetero-italiane che troviamo nella lingua corrente, ad esempio: sospirare «struggersi, lamentarsi» da spirare «soffiare (del vento o «spiro»); si veda anche quest’ultimo verbo nel senso di «esalare» (l’ultimo respiro), per non parlare di tutte le composizioni che tale verbo ha con gli affissi (inspirare, respirare, aspirare, cospirare, traspirare). Chi pensa all’etimologia quando qualcuno traspirando odio, ispirato da un’ideologia di morte, aspira a fare del male ai presunti avversari, cospirando con i suoi complici? Inoltre chi pensa al «pane», quando usiamo termini come compagno, accompagnare, scompagnare e derivati? Infine, chi pensa normalmente a «sorte», quando parla di consorte, consorzio, consortile, consorziarsi e simili? Perciò chi pensava mai ad altro (stoviglie?), quando usava il raro e singolare verbo synchráomai?

Kelch

     Pur volendo concedere che la Samaritana avesse mai parlato in greco con Gesù, quando lei usò il verbo synchráomai, non pensava certo all’etimologia! Inoltre in greco lo spettro dei significati è molto ampio: «valersi di, usare, approfittarsi; prendere in prestito, noleggiare; avere relazione con, avere a che fare con, frequentare, commerciare con». Per di più ella era in una situazione doppiamente imbarazzante: uscì di casa per prendere l’acqua in un’ora, in cui le altre persone del villaggio erano in casa (a causa della sua convivenza); si trovò a parlare con un uomo, cosa imbarazzante per una donna d’allora; per di più tale uomo era uno dei Giudei, verso cui non correva buon sangue. È difficile pensare a una Samaritana etimologa in tali circostanze.

 

     ■ Inoltre faccio notare una «cosuccia» abbastanza significativa. In Giovanni 4,9 l’espressione «Infatti i Giudei non hanno relazioni con i Samaritani», a cui si fa riferimento come argomento, non esiste in molti manoscritti antichi; essa è presumibilmente una glossa esplicativa marginale di un redattore, che poi dai copisti successivi è finita nel testo, credendo appartenesse lì. In diverse versioni greche tale espressione è messa tra parentesi quadre, proprio per segnalare tale questione; la nota dell’apparato critico spiega il resto.

 

     ■ Un’altra osservazione è la seguente. Il verbo synchráomai non ha nulla a che vedere con il termine potērion «bicchiere, calice», usato nel NT durante l’ultima Pasqua del Messia (Mt 26,27 [cfr. vv. 39.42]; Mc 14,23 [cfr. v. 36]; Lc 22,17.20 [cfr. v. 42]; 1 Cor 11,25 [cfr. vv. 26ss; 10,16.21]).

     Un termine chráos o simile non l’ho trovato nel greco del NT né in quello classico. Il verbo chráō significa nel medio chráomai (da cui deriva synchráomai) «prendere / ricevere in prestito / in uso», e anche, tra altre cose, «usare con qualcuno, trattate con qualcuno, avere familiarità / contatto con qualcuno»; ha quindi poco da contribuire col tema.

     Tutto ciò non ha neppure a che fare termini simili a potērion, ad esempio: vasaio (kerameus; Mt 27,7.10; Rm 9,21), vaso (keramikós recipiente di vasaio; Ap 2,27), brocca (kerámios; Mc 14,13 [diverso da vv. 23.36]; Lc 22,10) e tegola (kéramos; Lc 5,19); si veda in italiano ceramica). Probabilmente alcuni studiosi hanno preso fischi per fiaschi.

 

Quindi, volendo fare riferimento all’etimologia e non all’uso, come si fa a costruire tutto un ragionamento su un termine che compare solo una volta nel NT e all’interno di un’espressione che manca in molti manoscritti antichi? A ciò si aggiunga che meraviglia che si tragga da una radice verbale così astrusa (chráomai) un argomento che si ritiene così significativo!

 

 

2.  RAMMEMORAZIONE E MEMORIALE: Michele Papagna crede sia importante fare una distinzione fra rammemorazione, commemorazione, memoriale e simili. Anche questo punto è sembrato essere un aspetto importante, di cui anche Tonino Mele è rimasto affascinato, essendo un pensiero nuovo per lui. Per questo è necessario approfondire la questione.

     ■ Il termine greco mnēmósynon «ricordo» ricorre nel NT solo tre volte. Gesù disse della donna, che lo unse, che il suo gesto sarebbe stato «raccontato a ricordo [o in memoria] di lei» (Mt 26,13; Mc 14,9). L’angelo disse a Cornelio: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite come un ricordo [o in memoria] davanti a Dio». Come si vede, tale termine non è messo mai in connessione con la Cena del Signore nel NT. Il termine è usato in modo molto positivo.

     ■ Il termine greco anámnēsis «ricordo» ricorre nel NT solo in Lc 22,19 («fate questo in memoria di me»; = 1 Cor 11,24s); Eb 10,3 («è rinnovato il ricordo dei peccati»).

     ■ Il verbo greco anámimnēskein «ricordare» ricorre nel NT in Mc 11,21; 14,72; 1 Cor 4,17; 2 Cor 7,15; 2 Tm 1,6; Eb 10,32.

     ■ A ciò si aggiungano, ad esempio, termini come mnēia «ricordo, menzione» (Rm 1,9; Ef 1,16; Fil 1,3; 1 Ts 1,2; 2 Tm 1,3, Flm 1,4…), mnēmeion «sepolcro (quale monumento del ricordo)» (Mt 8,28; 23,29; 27,52s.60; 28,8…), mnēmē «ricordo» (2 Pt 1,15), mnēmoneuein «ricordare» (Mt 16,9; Lc 17,32; Gv 15,20; Ap 2,5; 3,3…).

 

Tutti questi sostantivi e verbi provengono dalla stessa radice (gr. mnē-) e rappresentano solo delle nuance e delle variazioni dello stesso leitmotiv.

     Faccio notare che tra l’espressione «fate questo in memoria di me» (anámnēsis Lc 22,19) e «sarà raccontato a ricordo [o in memoria] di lei» (mnēmósynon Mt 26,13; Mc 14,9), non c’è nessuna differenza sostanziale. I due termini sono semplicemente sinonimi, ad esempio al pari di «divenire» e «diventare»; nel nostro caso, si tratta come «ricordare», «rammentare», «commemorare», «riportare (o fare venire) alla memoria», «fare mente locale». Niente più e niente meno. Inoltre, visto che nel NT mnēmósynon non è mai usato per la Cena del Signore, fare un paragone tra ciò e anámnēsis, non ha senso. Dire che l’uno (anámnēsis) «coinvolge soggettivamente il credente» e l’altro (mnēmósynon) no, rientra nella sfera delle cose soggettive, senza alcun riscontro oggettivo. {27-10-2009}

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Calici_bicchier_cfr2_R56.htm

27-10-2009; Aggiornamento: 05-11-2009

 

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