Il
tema in discussione è molto delicato e può certamente provocare varie reazioni,
alcune delle quali imprevedibili. Non vogliamo ferire nessuno. Ma crediamo che
gli evangelici italiani debbano imparare a confrontarsi con passione, pacatezza
e sangue freddo su tutto ciò che riguarda il loro pensiero dottrinale e la loro
prassi ecclesiale. Al riguardo si parta dalla discussione sulle tradizioni e
convenzioni. |
Si afferma che l’espressione «rompere il
pane» significhi che nella chiesa di Gerusalemme tutti i giorni i credenti
festeggiassero il ricordo della nuova pasqua (At 2,42.46). La preparazione della
pasqua era molto laboriosa e durava diversi giorni e sarebbe strano che i
credenti vivessero in tale affanno quotidiano. Il mutamento di tale prassi (come
di altre) avrebbe provocato grandi discussioni nella chiesa di Gerusalemme, ma
di ciò non vi è traccia; al concilio di Gerusalemme (At 15) non fu oggetto di
discussione. Si dimentica anche di accertare che «rompere il pane» nel giudaismo
significava semplicemente l’atto con cui il capofamiglia o l’ospite rompeva il
pane, facendone la benedizione, all’inizio del pasto. Ciò accadde ad esempio in
Emmaus (Lc 24,30). «Rompere il pane» significava semplicemente mangiare o
«prendere un boccone» (cfr. Gr 16,7). È proprio strano sentire fratelli
predicare proprio su Lc 24, dicendo che i discepoli (nella completa sconfitta)
avessero festeggiato con Gesù (qui un forestiero!) proprio la «cena del
Signore»!
Spesso si fa riferimento ad At
20,7 per evidenziare il connubio fra «primo giorno della settimana»
(interpretato come domenica) e «rompere il pane» (interpretato come cena del
Signore). Si dimentica però di dire che in effetti era sabato sera (per gli
antichi il giorno cominciava la sera dopo il tramonto) e Paolo si mise in
viaggio di «domenica» (termine introdotto solo nei secoli successivi). Si
trattava semplicemente di un’agape speciale delle varie «chiese in casa»,
avvenuta in occasione della visita di Paolo (cfr. At 16,23), durante la quale
Paolo insegnò lungamente i credenti (che mangiavano). Ora, quando una credenza
diventa ideologia, ciò può portare addirittura a mutare la traduzione della
Bibbia. Quando, dopo che Eutico era caduto, costrinse l’apostolo a fare una
pausa, prese l’occasione per prendere anche lui un boccone: «Ed essendo
risalito, egli ruppe il pane e prese cibo; e dopo aver ragionato
lungamente sino all’alba, senz’altro si partì» (At 20,11). Chi vuole vedere
qui assolutamente la celebrazione della cena del Signore (a mezzanotte!), non
desiste a modificare addirittura il testo originale in: «Quindi risalì, spezzò
il pane
con loro e mangiò» (p.es. la Nuova Diodati). Ma in nessuna variante del
testo greco si trova ciò. È pericoloso aggiungere qualcosa al testo biblico, pur
di avere ragione! (cfr. Dt 4,2; 32,12; Ap 22,10). Non è ciò che noi evangelici
contestiamo ai fedeli delle altre denominazioni?
Che cosa significava veramente
l’espressione «rompere il pane» nel giudaismo, nell’ambiente del NT e nella
chiesa apostolica? Come ricorre essa nel linguaggio rabbinico e nei libri del
giudaismo (Talmud)? Il NT ha tramandato veramente una prassi chiara e
incontrovertibile per festeggiare la pasqua (cfr. 1 Cor 5,7s) o per la cena del
Signore? Come mai le varie chiese evangeliche hanno pratiche differenti al
riguardo?
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Argentino Quintavalle} ▲
ROMPERE IL
PANE = LA CENA DEL SIGNORE?
1. ENTRIAMO IN TEMA: Prospettato in questa maniera è certamente un argomento
delicato. Ma il dibattito deve essere sempre il benvenuto perché la verità non
ha mai avuto paura di confrontarsi.
Voglio affrontare l’argomento
partendo da Atti 2,42 (versione Diodati): «Or erano perseveranti nella
dottrina degli apostoli, e nella comunione, e
nel rompere il pane, e nelle
orazioni».
Spesso parliamo della chiesa
delle origini, interessandoci di essa e della sua storia. Alla fine di questo
capitolo di Atti abbiamo la storia di quella che è veramente stata la chiesa
antica, nei giorni della sua massima semplicità di cuore.
2. I QUATTRO ASPETTI DELLA
PERSEVERANZA: «Or erano
perseveranti» (de proskarterountes
«persistere, continuare»). Dopo il battesimo, essi dovevano ricevere
l’insegnamento, ed essi desideravano questo.
●
Luca riportò quale fu il nuovo modo di vita dei convertiti. Egli
elencò quattro loro attività, che possono essere viste come i quattro elementi
caratterizzanti le riunioni cristiane
della chiesa primitiva. Esse però non facevano parte del culto (per il culto
andavano ancora al tempio), e infatti Luca non le designò così, ma
costituivano il modo di vita dei primi cristiani.
■
Primo, vi era l’insegnamento (didachē
«dottrina») dato dagli apostoli, qualificati per questo compito dal fatto di
essere stati con Gesù, ed i primi cristiani ascoltavano attentamente il loro
insegnamento.
■
Secondo,c’era comunione (tē koinōnia «condividere
un interesse comune»), cioè una vita per quanto possibile comunitaria. La
presenza dell’articolo indica che questa era una comunione caratteristica. La
natura di questa comunione fraterna viene descritta nei vv. 44-47. Molti
rinunciarono ai loro beni, preferendo venderli per poter distribuire equamente
il valore ricavato, fra tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
■
Terzo, nel
rompere il pane
(tē klasei tou artou) che è l’espressione adoperata da Luca per ciò che
Paolo indicò come «cena del Signore» (1 Cor 11,20). La parola klàsei
è usata solo da Luca nel Nuovo Testamento. I cristiani si riunivano spesso per
osservare l’ordinamento della Cena del Signore. Erano assidui nello spezzare il
pane, ricordando così la morte del loro Maestro, non vergognandosi di confessare
la loro relazione con il Cristo crocifisso e la loro dipendenza da lui. Non
potevano dimenticare la morte di Cristo e
perseveravano nel ricordarla,
facendo di ciò una pratica costante, poiché era stata istituita da Cristo e
doveva essere trasmessa alla chiesa del futuro.
■
Infine si menzionano le orazioni (tais proseuchais)
e anche in queste erano perseveranti, sia negli orari stabiliti per la preghiera
nel tempio, sia in modo più spontaneo, in famiglia e nelle riunioni fraterne.
3. APPROFONDIMENTO DI «ROMPERE
IL PANE»: Secondo alcuni, qui si vuole intendere
semplicemente un pasto preso in comune per stare insieme (vedi Luca 24,30.35), e
non vi sarebbe perciò nessuna relazione specifica con la cena del Signore che
celebrava la sua morte. Ma la stessa parola è usata in Luca 22,19 in occasione
della cena del Signore. Il rompere il pane comprendeva sia la cena del Signore
che i normali pasti (cfr. At 2,46; 20,7; 1 Cor 10,16; 11,20.23ss) e Luca stava
semplicemente usando il nome dato alla cena del Signore, poiché il rompere il
pane è nel Nuovo Testamento il modo più antico per significare la Cena del
Signore. Si trattava, quindi, del pasto preso in comune e terminante con la
celebrazione della Cena.
È ovvio che questa espressione
indicava una attività speciale e non un semplice pasto perché nel testo greco,
sia «rompere» che «pane»
hanno l’articolo, come per designare un’attività specifica.
Che questa sia la giusta interpretazione è confermato da 1 Cor 10,16s: «Il
calice della benedizione, il quale noi benediciamo, non è esso la comunione del
sangue di Cristo? il pane, che noi rompiamo, non esso la comunione del corpo di
Cristo?....».
Luca non disse nulla sulla
frequenza con cui si partecipava alla Cena del Signore, ma certamente sarà stata
osservata con la stessa assiduità e intensità delle altre attività menzionate
nello stesso contesto: «Erano perseveranti…».
È meraviglioso constatare come la
chiesa primitiva considerasse Gesù Cristo il Capo e il centro della loro vita,
sebbene Egli fosse tornato in cielo; e la Cena che il Signore istituì per i
discepoli poche ore prima del suo arresto, durante la tradizionale celebrazione
della Pasqua ebraica (Lc 22,7-20), ha avuto la sua parte nel mantenere
cristocentrica la mentalità della Chiesa.
Gesù aveva detto: «Fate questo
in rammemorazione di me»
(Lc 22,19). Non disse quante volte lo dovevano fare. Il riferimento nel
nostro verso al rompere il pane, lascia intendere che ciò avveniva molto spesso.
Del resto, sebbene non abbiamo notizia di decisioni prese riguardo alla
frequenza con cui il comandamento del Signore «Fate questo in rammemorazione
di me» dovesse essere espletato, sembra che dopo i primi tempi venisse fatto
più di rado.
Il verso ci lascia l’impressione
che la commemorazione della morte di Gesù si celebrava nella chiesa primitiva
ogni volta che i fratelli si radunavano insieme per offrire a Dio il loro culto.
Essa era parte integrale degli incontri di chiesa. Era l’Evangelo in simboli;
l’Evangelo, cioè, che dopo essere stato annunciato nell’adunanza in parole,
veniva annunciato per mezzo dei simboli del pane e del vino. Era un atto
semplice, che non richiedeva forme particolari, né persone ecclesiasticamente
qualificate per amministrarlo. Era un atto cosi semplice, che poteva essere
santamente celebrato nel luogo domestico. La cena del Signore è una predicazione
che colpisce l’occhio.
4. ASPETTI FINALI: Questi sono i quattro elementi essenziali della vita della
chiesa cristiana, e in tutto questo i credenti
erano perseveranti.
Noi abbiamo il chiaro
comandamento di celebrare la Cena del Signore, ma non ci viene detto con quale
frequenza. Di fronte a questo «vuoto», è mia opinione cercare di capire come la
chiesa delle origini aveva interpretato l’ordine del Signore. Si può fare bene,
ma si può fare anche «meglio», e pur non essendo vincolante, l’interpretazione
della chiesa primitiva è il «meglio». {2007}
2.
{Nicola Martella} ▲
Sono grato a Argentino Quintavalle per il suo contributo, avendo cercato di
confrontarsi seriamente con una parte del tema.
Positivo è, ad esempio, il fatto che egli affermi
che non è comandato nel NT un tempo specifico per la celebrazione. Il senso dei
temi da discutere non è che si dica ciò che voglia chi li propone, ma che ci si
confronti fraternamente: ognuno può stimolare l'altro ed essergli di aiuto e,
perché no, aiutarlo a «correggere il tiro». Certo
Argentino affrontato solo alcuni aspetti delle tesi, che per stimolare,
sono state formulate in modo provocatorio. Ad esempio, Gesù festeggiò un'ultima
«pasqua» (Lc 22,15) e istituì quella del nuovo patto (Lc 22,20): come ha fatto
un complesso rituale pasquale ebraico (i discepoli erano ebrei! andavano al
tempio!) a diventare qualcosa di quotidiano? Il suo ragionamento si muove forse
in modo sillogistico? Parte da «rompere il pane» applicato alla nuova pasqua (o
Cena del Signore) per spiegarne tutte le ricorrenze (cfr. però Gesù e i
discepoli di Emmaus; Paolo in At 20)? Chi affronta questo tema, può confondere
lo sviluppo dei fatti reali nella chiesa apostolica con quelli della chiesa
costantiniana, o addirittura con l'interpretazione che se ne dà oggigiorno?
Oppure si proiettano anche le pratiche vigenti (e i propri desideri)
nell'interpretazione testuale? È possibile che quando è scritto «ogni volta che
mangiate di questo pane» (1 Cor 11,26; cfr. 5,7s), Paolo intendesse il
pane azzimo della pasqua? E similmente «questo calice» intendesse il «calice»
prescritto per i riti pasquali? Eccetera.
Ci tengo a ribadire che ogni chiesa locale può agire secondo coscienza, sapendo
che ognuno renderà conto al Signore. Il senso di questo tema è di stimolare il
confronto e non di mutare la prassi di alcuno o di una chiesa locale. In ogni
modo, è bene che facciamo le cose con convinzione, senza per questo squalificare
chi avesse una convinzione differente (cfr. Rm 14) o una ricorrenza rituale
differente per la Cena del Signore (p.es. quindicinale, mensile, trimestrale o
altro). Mi sta a cuore che capiamo che non dobbiamo avere l'arroganza di credere
che la nostra pratica cultuale sia l'unica biblicamente valida e «originale». Al
riguardo, ogni chiesa locale ha il diritto di stabilire le sue regole
amministrative sulla base della Bibbia e nel rispetto degli altri.
Questi pensieri vogliono solo stimolare all'ulteriore riflessione, perché altri
si pronuncino con un'analisi attenta. {2007}
3.
{Giuseppe Frasca} ▲
Giuseppe Frasca risponde qui alle obiezioni fatte
da Nicola Martella al contributo precedente.
1. LA QUESTIONE: «Come ha fatto un complesso rituale pasquale
ebraico (i discepoli erano ebrei! andavano al tempio!) a diventare qualcosa di
quotidiano?». ● La risposta: Penso che il brano chiave di questo discorso
si trova in Luca 22,7-22. Da un’attenta analisi di questo brano, infatti, si
possono distinguere due calici che il Signore Gesù presentò ai suoi discepoli;
ognuno di quali rappresentava due celebrazioni diverse.
Il
primo calice (vv. 15-18) è collegato alla Pasqua, festa che il popolo d’Israele
stabilì con Dio nell’esodo dal paese d’Egitto e che viene festeggiata il primo
mese dell’anno ebraico (Es 12 - quindi una volta l’anno). Interessante è il
fatto che il Signore Gesù non dice ai discepoli (ebrei) di smettere di celebrare
la pasqua, ma che Lui l’avrebbe poi festeggiata con loro nel regno di Dio, al
suo compimento, cioè quando Israele sarà stato liberato di nuovo, al
termine della tribolazione, e sarebbe entrato nel regno milleniale di Dio!
Il
secondo calice (vv. 19-20), invece, è collegato al «nuovo patto» che il Signore
stava per stabilire con i suoi discepoli e che sarebbe stato poi la «Cena del
Signore», così come fu chiamata dall’apostolo Paolo in 1 Corinzi 11. Esso
riguarda il ricordare la morte del Signore Gesù fino al rapimento della
chiesa. Infatti, il Signore Gesù fece riferimento al pane come al suo «corpo
dato...», e al calice come al suo «sangue sparso...».
Il risultato che possiamo osservare da questo brano è la chiara distinzione che
stava facendo il Signore Gesù, soprattutto in relazione al futuro di entrambi
questi progetti: Israele e la chiesa. Ecco perché è importante non confondere le
due celebrazioni, soprattutto in relazione ai riferimenti successivi durante la
storia apostolica.
2. LA QUESTIONE: «Il suo ragionamento si muove forse in modo
sillogistico?». ● La risposta: Come ho dimostrato, Egli stava parlando ai
discepoli di due celebrazioni diverse: La Pasqua ebraica (primo calice) e il
ricordo della sua morte (secondo calice).
3. LA QUESTIONE: «Parte da “rompere il pane” applicato alla
nuova pasqua (o Cena del Signore) per spiegarne tutte le ricorrenze (cfr. però
Gesù e i discepoli di Emmaus; Paolo in At 20)?». ● La risposta: Dal brano
di Luca 22 e da quello di 1 Corinzi 11, posso dedurre una riflessione (non sono
esperto di costumi ebraici, quindi non mi pronuncerò su questi, ma solo sulle
osservazioni che mettono in risalto I brani). Sembra che la rottura del pane
rappresentava l’inizio della cena o del pasto comune. Sembra che quando i
discepoli volevano ricordare la morte del Signore Gesù, essi facevano precedere
il pasto con la «rottura del pane» (rappresentante il corpo del Signore Gesù) e
lo terminavano con il bere «il calice» (rappresentante il sangue del Signore
Gesù). Ciò è evidente sia da come Gesù ha celebrato la sua morte con i discepoli
in Luca 22 (il v. 20 fa dedurre che tra la rottura del pane e il bere il calice
c’era stata la cena) e sia dal riferimento che Paolo fa in 1 Corinzi 11,25.
A tutto questo, inoltre,
Paolo aggiunge al v. 26: «Poiché ogni volta che voi mangiate questo pane e
bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore, finché egli
venga», come per dire che questi dovevano essere due elementi che dovevano
distinguere la cena comune dei fratelli appartenenti alle chiese primitive. Cioè
essi distinguevano il pasto comune, proprio perché lo precedevano e lo
terminavano, e con essi si poteva ricordare il Signore Gesù. La chiesa di
Corinto, infatti, ci conferma il fatto che nelle loro agapi i credenti bevevano
e mangiavano in maniera esagerata e furono ripresi da Paolo, proprio perché nel
momento che essi ricordavano la morte del Signore Gesù, arrivavano a non farlo
con l’attitudine giusta (1 Cor 11,20ss).
Quindi il pane a cui viene fatto riferimento in Atti 20 e in Luca 24, poteva
essere benissimo un pasto comune e non una ricorrenza della morte del Signore
Gesù; in questi brani, infatti, viene messo in evidenza solo la rottura del pane
e non il bere il calice. Ma come abbiamo già visto dal brano di 1 Cor 11,
entrambi dovevano essere elementi caratterizzanti il ricordo della morte del
Signore.
4. LA QUESTIONE: «Chi affronta questo tema, può confondere lo
sviluppo dei fatti reali nella chiesa apostolica con quelli della chiesa
costantiniana, o addirittura con l’interpretazione che se ne dà oggigiorno?». ●
La risposta: Certo, che può avvenire la confusione, soprattutto se non c’è
un’attenta analisi biblica e di tutti i brani in questione.
5. LA QUESTIONE: «Oppure si proiettano anche le pratiche
vigenti (e i propri desideri) nell’interpretazione testuale?». ● La risposta:
Quando si diventa pigri nello studio della parola di Dio, anche brani come «Io
posso ogni cosa in Colui che mi fortifica» possono essere usati per sostenere
argomenti che non c’entrano per niente con il brano in questione.
6. LA QUESTIONE: «È possibile che quando è scritto “ogni volta
che mangiate di questo pane” (1 Cor 11,26; cfr. 5,7s), Paolo intendesse
il pane azzimo della pasqua? E similmente “questo calice” intendesse il “calice”
prescritto per i riti pasquali?». ● La risposta: Penso che abbia risposto
a questa domanda già di sopra.
{2007}
4.
{Nicola Martella} ▲
Sono grato che Giuseppe abbia accettato la sfida
di questo tema e cercato di argomentare biblicamente e razionalmente. Egli ha
tentato di dare una risposta molto brillante e ricca di spunti di riflessione.
Nonostante ciò non credo che essa renda giustizia al testo e ai cambiamenti
storico-culturali che si suggerisce siano avvenuti in così poco tempo (alcuni
mesi dopo l’ultima pasqua di Gesù), senza che ciò abbia lasciato una traccia di
un profondo dibattito nella chiesa, visto l’attaccamento della chiesa giudaica
per la legge (At 21,20.23ss). Si veda la questione della circoncisione e temi
affini affrontati nel concilio di Gerusalemme (At 15).
Trarre dai due calici la
rappresentazione di due celebrazioni diverse, non trova nessuna corroborazione
nel testo (se così fosse stato ci si sarebbe aspettato ciò più da Matteo, che
scriveva per i credenti ebrei, che da Luca, che scriveva per i credenti greci, a
cui queste cose poco interessavano). La distinzione dei due calici (in effetti
gli ultimi due di una serie più lunga: forse sette) da parte di Luca era proprio
quella di mostrare la continuità fra il vecchio e il nuovo patto (pasqua,
istituzione del patto sinaitico) e la discontinuità: nuova pasqua,
nuovo
patto. Trarre da ciò una distinzione così radicale (il primo calice la «pasqua»,
il secondo calice la «Cena del Signore»), mi sembra più una eisegesi
(proiezione dottrinale) che una esegesi (spiegazione testuale all’interno del
suo contesto letterale, culturale, storico eccetera). Nel testo manca alcuna
evidenza chiara e certa di questo brillante tentativo di spiegazione. Così
facendo, si attribuisce a esso più di quanto esso voglia effettivamente
asserire.
Si noti che Gesù definì
tutto il rito come «questa pasqua» che Egli desiderava mangiare con i suoi
discepoli (Lc 22,15), senza distinguere da essa una cerimonia particolare
diversamente chiamata. La narrazione è continua, senza una divisione
particolare. Paolo che si rifece a Luca, suo compagno di missione, non menzionò
i due calici.
Quanto a Paolo in 1 Cor,
c’è da notare che proprio lui non ebbe difficoltà a parlare della «nostra
pasqua, ossia Cristo» e a esortare a festeggiare la festa (1 Cor 5,7s).
L’insistenza di Paolo su «questo pane» e su «questo
calice» (1 Cor 11,26, chiamato anche «calice del Signore» v. 27), in connessione
con «nella notte che fu tradito» (v. 23) — senza distinguere vari calici —
suggerisce che intendesse il pane azzimo della pasqua (a cui fece riferimento in
1 Cor 5,7s) e il calice pasquale (chiamato anche «calice della benedizione» 1
Cor 10,15).
La distinzione di due
progetti (uno per Israele e uno per la chiesa) nell’ultima cena pasquale, viene
ritrovata solo proiettandola nel testo, che forma invece un unico nesso
narrativo, senza alcuna cesura evidente.
Rompere il pane, dopo
aver reso grazie, era il modo normale come gli ebrei (cristiani o non)
iniziavano il pranzo, senza alcun riferimento a un rito particolare (Lc 24,30;
Mt 14,19) o anche all’inizio di un rito che prevedeva un pasto comune, come era
la pasqua (1 Cor 11,24).
È difficile trarre da 1
Cor 11,26 l’affermazione categorica come se Paolo volesse «dire che questi
dovevano essere due elementi che dovevano distinguere la cena comune dei
fratelli appartenenti alle chiese primitive». Infatti, come abbiamo visto, «questo
pane» e «questo
calice» potevano riferirsi proprio alla pasqua annuale, senza scomodare una
prassi quotidiana molto discutibile per una cultura ebraica molto conservatrice
(cfr. At 21,20ss).
Le chiese del primo
secolo non si radunavano in locali, ma nelle varie case del luogo (per le
«chiese in casa» cfr. Rm 16). In occasioni particolari si radunavano in luoghi
appartati (per non dare nell’occhio alle autorità) come ad esempio un podere o
la casa di un credente possidente (Rm 16,23). È probabile che Paolo parlasse in
1 Cor 11 di rari raduni comuni e particolari delle varie «chiese in casa»
presenti in Corinto (cfr. l’espressione «vi adunate in assemblea» [v. 18] per il
raduno solenne di tutti i credenti del luogo, e «adunate insieme», v. 20). È
probabile che una tale «agape» comune delle varie «chiese in casa», presenti in
Corinto, venisse chiamata «Cena del Signore», che era il termine coniato nel
primo secolo per identificare ciò che indica oggi «l’agape», ossia il termine
evangelico moderno (non presente nel NT). Visto che Paolo insisté in 1 Cor 13
sull’ultima cena pasquale come modello di tali «agapi» e che in 1 Cor 5 insisté
sulla «nostra pasqua, ossia Cristo» e sugli azzimi, è probabile che almeno uno
di tali rari eventi coincidesse con la pasqua.
Giuseppe ha ben
evidenziato che in Atti 20 e in Luca 24 mancasse la menzione di un calice e che
potevano essere perciò effettivamente un pasto comune che non implicasse
nient’altro.
Sarei contento se
questo fraterno e franco confronto continuasse anche con altri credenti. {2007}
5.
{Argentino Quintavalle} ▲
1) Come già detto nel mio primo contributo, i cristiani della chiesa primitiva,
cioè quella degli Atti degli Apostoli, celebravano la Santa Cena con assiduità.
Infatti At 2,42 dice: «erano perseveranti… nel rompere il pane». In greco
c’è l’articolo determinativo davanti alla frase, il che gli dà molta enfasi. 1
Cor 11,20ss conferma il fatto che i cristiani si riunivano per mangiare insieme
(agape fraterna) e durante questo pasto ricordavano con i simboli del pane e del
vino la morte del Signore. Nessuna frequenza era stata stabilita, ciò avveniva
ogni qualvolta la chiesa decideva di farlo. Potevano farlo anche tutti i giorni.
In questo caso hanno ragione i Cattolici, i quali non hanno alcun problema a
celebrare la Cena del Signore ogni giorno.
2) La Cena del Signore non è legata al calendario della pasqua ebraica. I primi
cristiani, in maggioranza ebraica, non hanno mai smesso di celebrare la loro
pasqua. Essi rispettavano anche la pentecoste (cfr. At 20,16), il sabato,
frequentavano ancora il tempio (At 2,45; 3,1; 5,42; 21,26) e le sinagoghe (At
6,9). Non avevano lasciato niente di tutto questo, ma avevano acquistato
qualcosa di nuovo: sapevano che il Messia era venuto, era morto e risuscitato e
doveva ritornare. Oltre alle ricorrenze del «vecchio patto», essi celebravano
ora anche la Cena del Signore, simbolo del «nuovo patto».
3) At 20,7 parla del «primo giorno della settimana». La chiesa era radunata dopo
il tramonto del sabato (per noi occidentali sarebbe stato ancora sabato, per
loro invece domenica). Paolo predicò fino a mezzanotte, poi mangiò e continuò a
parlare fino all’alba (At 20,11). Non dobbiamo pensare che era un chiacchierone
e che tenne attaccati sulla sedia tutti i membri della chiesa per tutta la
notte. Il fatto è che la chiesa aveva preso l’usanza di fare una veglia tra la
notte del sabato e della domenica in ricordo dell’«alba della risurrezione».
4) Cosa è successo a un certo punto della storia? Perché tutto questo è
cambiato? Quando è stata introdotta la domenica come giorno speciale di
celebrazione della Cena del Signore?
Non certo nel periodo degli Atti degli Apostoli; né in
quello delle epistole apostoliche (che poi è lo stesso), né in quello delle
lettere dell’Apocalisse scritte da Giovanni. Addirittura in questo periodo era
ancora in vigore la proibizione giudaica di mangiare le carni sacrificate agli
idoli (Ap 2,14.20).
Ad un certo punto, le chiese a maggioranza ebraica
(quelle più vicine al cristianesimo primitivo) scomparirono gradualmente, mentre
quelle a maggioranza gentile lasciarono lentamente le usanze giudaiche.
Ecco la storia qui di seguito alcuni tratti della
storia. Gerusalemme cadde nell’anno 70. In questa occasione la stragrande
maggioranza dei cristiani erano fuggiti da Gerusalemme prima del tragico evento.
Il Signore Gesù li aveva avvisati (Luca 21,20-24).
Che cosa accade successivamente? Dopo che Gerusalemme
fu distrutta e gli Ebrei furono dispersi in tutta la regione, scoppiò una grande
crisi nella vita ebraica. La sinagoga sostituì il tempio come centro della vita
ebraica, il rabbino sostituì il sacerdote come capo spirituale e il giudaismo
rabbinico sostituì il giudaismo biblico. Furono create nuove procedure e furono
promulgate nuove regole. Per gli Ebrei che credevano in Gesù, queste cose
crearono problemi. Eppure erano ancora considerati facenti parte della famiglia
d’Israele.
Nel 132 d.C. il rabbino Akiva guidò la seconda rivolta
contro Roma, che nel frattempo insistette perché si continuasse a pagare la
tassa sul tempio. Le imposte così raccolte venivano usate per sostenere il
tempio di Giove a Roma. Akiva era ben visto da tutti; sia da quelli che
credevano in Gesù sia da quelli che non ci credevano.
Il rabbino Akiva fece un errore terribile. Dichiarò che
Simon Ben Kosiba, il comandante che guidava la rivolta, fosse Bar Cochba, il
«Figlio della stella», il Messia. Mentre questo ebbe un effetto positivo su
molti Ebrei, ebbe l’effetto opposto su coloro che credevano che Gesù fosse il
Messia. Non potevano combattere sotto le insegne di uno che credevano essere un
falso messia. A migliaia l’abbandonarono. Gerusalemme fu distrutta e rasa al
suolo e dichiarata proibita a tutti gli Ebrei. Gli Ebrei supersiti non rivolsero
la loro rabbia e il loro risentimento contro il rabbino Akiva, accusandolo di
essere un falso profeta, e neanche contro Bar Cochba accusandolo si essere un
falso messia. Rivolsero la loro rabbia contro coloro che li avevano abbandonati
perché consideravano Gesù il loro Messia.
I credenti furono proclamati traditori. Non doveva
esserci contatto con loro. Dovevano essere allontanati dalla comunità ebraica.
Erano apostati. Nei mesi che seguirono, i credenti ebrei dovettero rispondere a
domande che non avrebbero mai pensato di doversi porre:
■ 1. Dovevano mantenere la loro fede in Gesù il Messia
anche a costo di lasciare la comunità ebraica?
■ 2. Se lo avessero fatto, sarebbero sopravvissuti in
un mondo di gentili?
■ 3. Dovevano rifiutare il Messia per stare con la
comunità ebraica?
■ 4. Potevano negare pubblicamente il Messia, ma
continuare a credere in privato?
■ 5. Come dovevano vivere?
Uno dei primi teologi gentili del secondo secolo, Giustino, scrisse riguardo
alla situazione che gli Ebrei credenti dovevano affrontare. Vide quattro
distinte categorie:
■ Quegli Ebrei che diventarono parte della chiesa dei
Gentili.
■ Quelli che rimasero dentro la sinagoga come credenti
segreti.
■ Quelli che divennero Ebioniti.
■ Quelli che diventarono Nazareni.
Mi soffermo soltanto sull’ultimo gruppo, i Nazareni. Essi sostenevano che:
■ Gesù era il Messia.
■ Era il Figlio di Dio.
■ I loro insegnanti erano superiori a Mosè e ai
profeti.
■ I cristiani di discendenza ebraica dovevano osservare
le pratiche ebraiche della circoncisione, dell’osservanza del sabato e le leggi
riguardanti l’alimentazione.
Mentre i Nazareni mantenevano molte delle tradizioni ebraiche, non insistevano
sulla necessità che le osservassero i non ebrei.
Nel frattempo centinaia di migliaia di Gentili
divennero credenti. C’erano più credenti gentili che ebraici. Di conseguenza,
sorsero nuove controversie. Senza una conoscenza della storia e della vita
ebraica, fu difficile per i Gentili capire perché i credenti ebrei volessero
continuare a fare le cose che avevano sempre fatto prima di accettare Gesù come
Messia.
Una delle maggiori controversie riguardava il giorno
della risurrezione. I credenti ebrei insistevano che doveva essere avvenuta il
terzo giorno di Pasqua: il 17° giorno di Nisan. Ora, però, poiché la Pasqua era
celebrata secondo il calendario ebraico e non secondo il calendario usato
nell’impero romano, il 17° giorno di Nisan non era una data significativa per i
Gentili. Volevano una data che avesse un significato sul loro calendario. Nel
196 d.C. a un incontro conciliare a Cesarea si decise che il giorno della
risurrezione sarebbe stato celebrato una domenica ogni anno durante la festa di
Eštar. Da quella decisione derivò la domenica di Pasqua e la prassi
dell’osservanza della domenica.
I credenti ebrei non erano rappresentati al concilio
che prese questa decisione. Quando seppero quello che era stato fatto, furono
annichiliti. «Dio ci ha dato la data della Pasqua e Gesù risuscitò il terzo
giorno di Pasqua! Come è possibile che sia stata cambiata questa data?».
I Gentili però non li ascoltarono. Dopo aver spostato
il giorno della risurrezione, fu facile per i Gentili fare il passo successivo,
rifiutare completamente la Pasqua del 14 di Nisan. E così fecero; essa non aveva
alcun significato per loro. E in questo modo il solco fra di loro si allargò.
Nel 325 d.C. fu fatta una proclamazione ufficiale: che
il giorno della risurrezione doveva essere osservato nella domenica di Pasqua da
tutti i credenti. Alcuni anni dopo, un altro incontro si tenne ad Antiochia.
Fu annunciato che chiunque avesse tentato di celebrare la Pasqua nel 17° giorno
di Nisan sarebbe stato scomunicato.
Ovviamente i Gentili erano decisi a sfidare tutti i
credenti ebrei. «Ora siamo la maggioranza. Avanzate con noi o tornate al
giudaismo».
Mentre i secoli trascorrevano, la chiesa andava sempre
più lontano dalle sue radici ebraiche. Presto avrebbe persino negato di avere
tali radici. {2007}
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In Atti 2 si trattava di una quotidiana «Cena del Signore»?
{Nicola Martella} (A)
Sulla problematica legata al
concetto «biblico», cfr. Nicola Martella (a cura di), «Il bianco, il nero e il
grigio»,
Uniti nella verità, come affrontare le diversità
(Punto°A°Croce, Roma 2001). Si veda qui anche l’articolo
«Quando nessuno ha ragione» (di Marvin Oxenham).
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► URL di origine:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Rompere_pane-EnB.htm
09-02-2007; Aggiornamento: 18-10-2011
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