1. ENTRIAMO IN TEMA:
Quali elementi della Cena del Signore sono insostituibili ai fini del suo
simbolismo?
Questa è una domanda che non
ha più bisogno di molte presentazioni, vista la forza con cui si ripresenta ogni
volta che c’è in giro qualche epidemia o influenza contagiosa. C’è però un’altra
domanda che è estremamente risolutiva per poter rispondere al dilemma del
«calice o i bicchierini»: il calice che Gesù usò nel momento in cui istituì «la
cena» aveva un valore simbolico suo proprio, oppure lo usò come elemento
accessorio in quanto contenitore del vino? Gesù attribuì anche al calice un
valore simbolico come lo attribuì al pane e al vino? Se sì, questo deve
risultare chiaramente dalle parole che usò. Se no, allora è legittimo chiedersi
se il fatto che usò il calice sia motivo sufficiente per usare il calice
in modo inderogabile e senza eccezioni. Quella sera Gesù usò altre cose, a cui
però non ha dato un chiaro significato, come per il pane e il vino. Una di
queste cose potrebbe essere il contenitore del pane,
il quale poteva essere preso per indicare forse (parlo per assurdo) la
provenienza divina dello stesso Gesù, ma non l’ha fatto. Questo esempio banale
suggerisce quanto sia rilevante la domanda se Gesù abbia attribuito al calice un
valore simbolico come lo ha attribuito al pane e al vino. Di seguito cercheremo
d’esaminare tutti i testi biblici dove si parla del calice della «Cena» e
cercheremo di scoprire le evidenze, se ve ne sono, che rispondono al nostro
dilemma.
2. ANALISI DEI BRANI
2.1. MATTEO 26,26-29:
«Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo
ruppe e lo diede ai suoi discepoli dicendo: “Prendete, mangiate, questo è il mio
corpo”. 27Poi, preso un calice
e rese grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, 28perché
questo è il mio sangue, il sangue
del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati. 29Vi
dico che da ora in poi non berrò più di
questo frutto della vigna, fino al giorno che lo berrò nuovo con voi nel
regno del Padre mio».
In questo brano
è evidente che il calice viene adoperato come sinonimo del suo contenuto,
cioè il vino. «Questo è il mio sangue» (v. 28) è riferito al vino e non
al «calice», altrimenti sarebbe una forzatura proprio di quel simbolismo
che spesso s’invoca per difendere a spada tratta l’uso del calice. È il vino e
il sangue che, essendo entrambi liquidi e rossastri, si corrispondono in modo
simbolico, non un elemento liquido e rossastro come il sangue e un elemento
solido e argentato quale poteva essere il calice (se era di metallo, ma poteva
anche essere di terracotta). Teniamo presente che quando Gesù, «preso un
calice,… lo diede loro», non prese e diede solo un calice, ma ha prese e
diede anche il vino che v’era già dentro, secondo le preparazioni della Pasqua.
Per cui, quando disse: «Questo è il mio sangue» non stava dando un
significato al calice, ma al vino che era dentro il calice. E che Gesù, con
queste parole, avesse in mente il vino e non il calice, lo dimostrano le parole
che dice subito dopo: «Vi dico che da ora in poi non berrò più di
questo frutto della vigna, fino al giorno che lo berrò nuovo con voi nel
regno del Padre mio» (v. 29). Ora, a meno che non riteniamo che il calice
sia un «frutto della vigna» e che dobbiamo aspettarci di trovare vigne
con viti che producono calici, dobbiamo seguire Gesù nel dare importanza
simbolica al vino e non al calice, considerando solo il primo come elemento
insostituibile della Cena.
2.2. MARCO 14,22-25:
«Mentre mangiavano, Gesù prese del pane;
detta la benedizione, lo spezzò, lo diede loro e disse: “Prendete, questo è il
mio corpo”. 23Poi, preso un
calice e rese grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero. 24Poi
Gesù disse: «Questo è il mio sangue,
il sangue del patto, che è sparso per molti. 25In verità vi dico che
non berrò più del frutto della vigna
fino al giorno che lo berrò nuovo nel regno di Dio».
Essendo questo brano
essenzialmente simile a quello di Matteo, vale anche qui vale quanto già detto.
2.3. LUCA 22,19-20:
«Poi prese del pane, rese grazie e lo
ruppe, e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate
questo in memoria di me». 20Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede
loro il calice dicendo: “Questo
calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi”».
Questo brano sembrerebbe
attribuire un significato al calice come simbolo del Nuovo Patto, e il
simbolismo sarebbe: «come il calice contiene il vino così il Nuovo Patto
contiene il sangue di Cristo». Questo sembrerebbe essere la prova del fatto che,
nell’istituzione della Cena ci sono stati tre oggetti materiali, a cui è stato
dato il valore di simbolo: il pane, il vino e il calice. Il pane come simbolo
del corpo di Cristo, il vino come simbolo del sangue di Cristo, e il calice come
simbolo del Nuovo Patto. Ma questa interpretazione implica che Gesù abbia detto
due frasi distinte in merito al calice, la prima riportata nelle versioni di
Matteo e di Marco e la seconda nella versione di Luca, il che non regge a un
esame attento dei testi e del resto si può trovare una spiegazione più
verosimile per questa apparente discrepanza tra Matteo e Marco da una parte e
Luca dall’altra.
Nelle versioni di Matteo e
Marco, queste parole di Gesù sono rese nel seguente modo: «Questo è il mio
sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti» (Mt 26,28; Mc 14,24).
Ora, a meno che non pensiamo che questa sia una seconda frase che Gesù ha detto
in merito al calice, dobbiamo ritenere le versioni di Matteo e Marco da una
parte e di Luca dall’altra, equivalenti, seppur leggermente diverse. La
diversità può essere data dal fatto che Luca abbia voluto evidenziare la totale
«novità» del patto inaugurato da Gesù col suo sangue. E questa cosa è molto
plausibile, essendo Luca un collaboratore di Paolo e quindi avendo visto le sue
lotte contro coloro che, «zelanti della legge» (Gal 4,17; At 21,20),
difendevano a spada tratta una continuità totale tra Cristo e la legge,
rifiutando in modo categorico un «nuovo» e diverso patto da quello della legge
(cfr. 2 Cor 3,6.14). Questo spiegherebbe perché Luca, che secondo gli studiosi
ha scritto dopo Marco e Matteo, abbia preso la stessa frase presente nei primi
due vangeli e prima di «patto», v’abbia aggiunto il termine «nuovo»,
scambiando di conseguenza l’ordine delle parole d’una frase che per il resto è
rimasta sostanzialmente la stessa. Nelle tre versioni infatti, la frase s’apre
(«Questo è il» o «Questo calice è») e si chiude («che è sparso
per molti» o «versato per voi») allo stesso modo. Nessuna meraviglia
comunque per queste apparenti «manipolazioni», perché ci aiutano a capire che
gli evangelisti non erano solo dei cronisti, ma anche applicavano ciò che
raccontavano ai loro destinatari, senza per questo snaturare gli eventi e il
messaggio che raccontavano. Nei vangeli quest’avviene spesso e spiega bene le
differenze che spesso incontriamo fra brani paralleli.
Quindi, l’apparente
diversità della frase di Luca sul «nuovo patto» non deve indurre a
pensare che Gesù stia dicendo qualcosa di diverso da quanto dicono Matteo e
Marco, ma si tratta della stessa frase, dello stesso insegnamento e dello stesso
simbolismo, di cui però Luca evidenzia un aspetto in esso implicito. Non c’è
dunque nessun terzo simbolo nelle parole: «Questo calice è il nuovo patto».
Del resto, anche nel linguaggio di Luca il termine «calice» è usato per
intendere il suo contenuto, il vino. Basta leggere i versi precedenti a questo,
dove Luca racconta la celebrazione della Pasqua, nel cui ambito poi è stata
istituita «la cena».
Riportiamo il testo: «E,
preso
un calice, rese grazie e disse:
«Prendete questo e distribuitelo fra di voi; 18perché io vi dico che
ormai non berrò più del frutto della vigna,
finché sia venuto il regno di Dio» (Luca 22,17s). In questi versi, Luca
riporta le stesse parole di Matteo e Marco, dove Gesù adopera il calice come
sinonimo del suo contenuto, il vino. Vedi quanto detto più su.
2.4. 1 CORINZI 10,14-22:
«Perciò, miei cari, fuggite l’idolatria.
15Io parlo come a
persone intelligenti; giudicate voi su quel che dico. 16Il
calice della benedizione, che noi
benediciamo, non è forse la comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi
rompiamo, non è forse la comunione con il corpo di Cristo? 17Siccome
vi è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché
partecipiamo tutti a quell’unico pane. 18Guardate l’Israele secondo
la carne: quelli che mangiano i sacrifici non hanno forse comunione con
l’altare? 19Che cosa sto dicendo? Che la carne sacrificata agli idoli
sia qualcosa? Che un idolo sia qualcosa? 20Tutt’altro; io dico che le
carni che i pagani sacrificano, le sacrificano ai demòni e non a Dio; ora io non
voglio che abbiate comunione con i demòni. 21Voi non potete bere il
calice del Signore e il calice dei demòni; voi non potete partecipare
alla mensa del Signore e alla mensa
dei demòni. 22O vogliamo forse provocare il Signore a gelosia? Siamo
noi più forti di lui?». Il tema di questo brano è
l’idolatria e non «la cena». Il parallelo con «la cena» viene
fatto per dimostrare che, come tale celebrazione crea un legame spirituale (comunione)
col sangue di Cristo, così le celebrazioni pagane creano un legame con i demoni.
A Paolo qui non interessava tanto se la Cena dovesse avere una forma o un’altra,
come non gli interessava stabilire che forma dovessero avere i sacrifici che
facevano gli Israeliti (v. 18) e i sacrifici che facevano i pagani (v. 20).
Voleva dimostrare invece una tesi, un principio: che tutte queste celebrazioni
creavano un legame di «comunione» con una realtà spirituale sovrastante,
che nel caso della cena era «il sangue di Cristo» e «il corpo di
Cristo» (v. 16), nel caso degli israeliti era «l’altare» (v. 18), nel
caso dei sacrifici pagani erano «i demoni» (v. 20). Gli interessa
evidenziare soprattutto un aspetto della cena, quello che più è
pertinente con ciò che vuol dire sulle carni sacrificate agli idoli. L’enfasi
infatti non cade sul fatto che il calice rappresenta o simbolizza il sangue di
Cristo, ma sul legame di «comunione» che c’è tra chi benedice e beve il
calice della Cena e il sangue di Cristo. Anche qui bisogna capire, come per gli
altri brani, che il vero valore simbolico non è dato dal calice, ma dal vino,
che meglio rappresenta, per le sue caratteristiche materiali (liquido e
rossastro), il sangue di Cristo (anch’esso liquido e rossastro). L’espressione «calice
della benedizione» talvolta trae in inganno perché la si ritiene un prova
della sua insostituibilità. Si dimentica però che qui Paolo sta facendo un
ragionamento (cfr. v. 15), dove la cosa che vuol mettere in evidenza non è «il
calice della benedizione», ma, oltre la realtà che esso rappresenta, anche
l’azione che noi compiamo con questo rituale, definita con le parole «il
calice… che noi benediciamo». È interessante notare che in tutti e tre gli
esempi (Cena, sacrifici ebraici e sacrifici pagani) Paolo distingua un’azione
precisa che l’uomo fa. Per la Cena parla del «calice… che noi benediciamo»
e del «pane che noi rompiamo» (v. 16); degli Israeliti dice che «mangiano
i sacrifici» (v. 18); e sui sacrifici pagani afferma: «Io dico che le
carni che i pagani sacrificano, le sacrificano ai demòni» (v. 20).
Intanto, si noti le parole «io dico», che vogliono destare l’attenzione
sul punto centrale che Paolo vuol evidenziare, che a prima vista parrebbe ovvio,
ma non era ovvio per i suoi lettori. Dove vuol arrivare Paolo? Cosa vuol dire?
Vuol semplicemente attirare l’attenzione sul contesto in cui venivano
macellate le carni dei sacrifici che poi alcuni Corinzi ingenuamente mangiavano.
Non era un contesto spiritualmente innocuo o neutrale, ma doppiamente
contaminato: da un lato perché c’erano i demoni e dall’altro perché c’era
probabilmente l’intenzionalità di sacrificare a loro. Tuttavia prima di
dire questo, Paolo previene i Corinzi dicendo una cosa che è molto rilevante per
il nostro studio. Dice: «Che cosa sto dicendo? Che la carne sacrificata agli
idoli sia qualcosa? Che un idolo sia qualcosa?
Tutt’altro» (v. 19-20). Cioè a dire: «È vero che — come forse affermavano
in tono difensivo i Corinzi — la carne sacrificata agli idoli e l’idolo non sono
nulla, però dietro queste cose materiali ci sono realtà spirituali diaboliche».
Quindi, considerato che qui Paolo non sta facendo affermazioni dogmatiche e
prescrittive, ma sta tirando avanti un ragionamento (cfr. v. 15), e il punto
d’arrivo di questo ragionamento è dimostrare che dietro certi rituali (Cena,
sacrifici degli ebrei e sacrifici pagani) c’erano delle realtà spirituali più o
meno buone, perché dare così tanto valore all’espressione «calice della
benedizione» fino a considerarla prova della sua insostituibilità? Anzi, se per
l’oggetto rituale
dei pagani, cioè «la carne sacrificata agli idoli», Paolo dice che «non
è nulla» (cfr. 1 Cor 8,4,8), non si dovrebbe applicare la stessa verità
anche all’oggetto rituale degli ebrei (v. 18) e all’oggetto rituale dei
cristiani, cioè il «calice della benedizione» (v. 16)? Perché tirare
fuori dal suo contesto un’espressione che Paolo usa come esempio tra altri
esempi per farne prova della «sacralità» e della insostituibilità del calice
della Cena? Ribadiamo perciò che in questo brano non era intenzione di Paolo
stabilire se il calice fosse «qualcosa», anche se lo chiama «calice
della benedizione», ma indicare la realtà spirituale che sta dietro
certi rituali che noi compiamo.
L’insegnamento, che Paolo
vuol dare, è l’imperativo espresso in forma negativa nel v. 21: «Voi non
potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; voi non potete
partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni». Il suo scopo
non è dare un valore normativo al calice, ma usa questa espressione come
evocativa di un tutto (la Cena), secondo il linguaggio suo e dei suoi
lettori. Si noti infatti che nel verso appena citato non usa solo l’espressione
«calice del Signore», ma anche l’espressione «mensa del Signore».
E qui è pertinente chiedersi: dobbiamo dare un valore normativo anche
all’espressione «mensa del Signore»? Ci dev’essere anche una particolare
«tavola» per la Cena del Signore?
È importante precisare
infine che se qui Paolo sta dicendo che la Cena ha un importante valore di «comunione»,
egli distingue molto chiaramente il significato di comunione che ha il calice, o
per meglio dire il vino che il calice contiene, e il valore di comunione che
invece ha il pane. Il calice e il suo contenuto rappresentano la comunione col
sangue di Cristo e soltanto il pane rappresenta la comunione fraterna (v. 17).
Dire che anche il calice e il suo contenuto sono un simbolo della comunione
fraterna e che quindi è insostituibile per questo, perché raffigura meglio
l’unità contro ogni individualismo, è andare oltre l’insegnamento che Paolo sta
dando qui.
2.5. 1 CORINZI 11,20-29:
«Quando poi vi riunite insieme, quello che
fate, non è mangiare la cena del Signore;
21poiché, al pasto comune, ciascuno prende prima la propria cena; e
mentre uno ha fame, l’altro è ubriaco. 22Non avete forse le vostre
case per mangiare e bere? O disprezzate voi la chiesa di Dio e umiliate quelli
che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo. 23Poiché
ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore
Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, 24e dopo aver
reso grazie, lo ruppe e disse: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate
questo in memoria di me”. 25Nello stesso modo, dopo aver cenato,
prese anche il calice, dicendo: “Questo
calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo,
ogni volta che ne berrete, in
memoria di me. 26Poiché ogni volta che mangiate questo pane e
bevete da questo calice, voi
annunciate la morte del Signore, finché egli venga”. 27Perciò,
chiunque mangerà il pane o berrà dal
calice del Signore indegnamente, sarà
colpevole verso il corpo e il sangue del
Signore. 28Ora ciascuno esamini sé stesso, e così mangi del
pane e beva dal calice; 29poiché
chi mangia e beve, mangia e beve un giudizio contro sé stesso, se non discerne
il corpo del Signore».
Qui Paolo riporta le parole
di Gesù secondo la versione di Luca, per cui, anche qui vale quanto detto per
Luca. Ai fini del nostro studio però è utile chiederci se Paolo apporti qualche
particolare che possa confermare o smentire quanto abbiamo considerato in Luca.
Con questo brano il nostro raggio d’indagine s’allarga e questo può fornirci
ulteriori dati. Ed il primo dato che emerge è che, subito dopo l’espressione
lucana «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue», Paolo aggiunge «fate
questo ogni volta che ne berrete» (v. 25). Questo non è un particolare
irrilevante, se si considera che per tutto il resto del brano Paolo insiste
sull’atto del «bere»:
■ v. 25 «…fate
questo, ogni volta che
ne berrete»;
■ v. 26 «…ogni
volta che… bevete da questo calice»;
■ v. 27 «…chiunque…
berrà dal calice del Signore»;
■ v. 28 «Ora
ciascuno esamini sé stesso… e beva dal calice».
Intanto, è interessante chiedersi perché Paolo
sottolinea il «bere» e non il «prendere» il calice? Perché dice «bevete da
questo calice» (v. 26) e non «prendete questo calice»? O «berrà dal
calice» (v. 27) e non «prenderà il calice»? E ancora «beva dal calice»
(v. 28) e non «prenda il calice»? Non è perché l’enfasi cade sul contenuto del
calice e sull’atto del bere anziché sul calice stesso e l’atto del prendere?
C’è poi l’espressione «ogni
volta», anch’essa ripetuta (v. 25-26) che è molto significativa. Essa parla
d’un simbolismo che si rinnova «ogni volta» che il calice viene riempito
di vino e viene bevuto. Queste evidenze stanno a
indicare che il calice della Cena non aveva un valore intrinseco di simbolo, non
era usato per un simbolismo proprio, ma in quanto contenitore del simbolo vero e
proprio che era il vino. Il simbolismo della «Cena» s’esauriva, oltre che
nel pane spezzato e nel mangiarlo, nel contenuto del calice, cioè il vino e
nell’atto del bere, a prescindere dal calice stesso. Anche contro la presunta
idea, che ci sia una corrispondenza simbolica tra calice e nuovo patto, militano
le seguenti evidenze testuali:
■ v. 26
«…ogni volta che…bevete da questo calice, voi annunciate la morte del
Signore» (non dice che «annunciamo il Nuovo Patto»). ■ v. 27
«…chiunque…berrà dal calice del Signore indegnamente, sarà colpevole
verso il
corpo e il sangue del Signore» (non dice «colpevole verso il Nuovo
Patto»).
Questi ultimi versi sono molto importanti per capire
il significato teologico della cena, perché chiariscono, una volta per tutte,
quale sia la realtà spirituale che il simbolismo della Cena rappresenta e che
può essere lesa da un comportamento indegno. Questa realtà non è null’altro che
«il corpo e il sangue del Signore» (v. 27). Quindi, due elementi da
rappresentare e due elementi che li rappresentano: il corpo e il sangue di
Cristo e rispettivamente il pane e il vino. Questi sono gli elementi simbolici
insostituibili della Cena secondo l’insegnamento del Nuovo Testamento. È
arbitrario dire che l’assenza del calice compromette il valore, seppure
simbolico, di questa celebrazione.
3. ASPETTI CONCLUSIVI
3.1. ALCUNE CONCLUSIONI:
È evidente dall’esame fatto che non c’è una corrispondenza tale tra «calice»
e «nuovo patto» da portarci a concludere che il primo sia simbolo del
secondo e che quindi ci sia nell’istituzione della Cena un terzo simbolo oltre
il pane e il vino. Per cui, se non si può stabilire con sicurezza, un terzo
simbolo, oltre il pane e il vino, si deve ribadire ciò che in fondo la
cristianità ha sempre creduto nei secoli che il simbolismo della Cena è dato dal
pane, che rappresenta il corpo di Cristo, e dal vino, che rappresenta il sangue
di Cristo, e in questi soltanto s’esaurisce tutto il simbolismo eucaristico. Se
dunque il calice non è un simbolo a sé, ma è solo un elemento accessorio che
Gesù ha usato quella sera, solo perché faceva parte delle celebrazioni della
Pasqua, allora diventa evidente che la sua presenza non è determinante ai fini
della celebrazione della «Cena». Se così fosse, Gesù lo avrebbe indicato
chiaramente come ha fatto col pane e col vino. Se Gesù avesse voluto dare un
valore simbolico al calice, avrebbe potuto dire, riferendosi a esso: «Questo è
il mio corpo», lasciando intendere che, come dal calice si versa il vino, così
dal suo corpo è stato versato il suo sangue. Questo simbolismo non fa una
grinza, eppure non l’ha usato per il calice, ma per il pane spezzato, dicendo: «Questo
è il mio corpo che è dato per voi» (Lc 22,19). Verosimilmente, con
l’istituzione della Cena Gesù voleva rappresentare sopratutto le sue sofferenze
e la nostra comunione vitale con esse, ed è per questo che ha usato qualcosa che
richiamasse alla mente il suo sangue versato, cioè il vino e qualcosa che
richiamasse alla mente il suo corpo martoriato, cioè il pane spezzato.
Chi si meraviglia dinanzi a
questa trasposizione di significato, cioè dire «calice» per intendere il suo
contenuto, deve sapere che non è così inusuale, così come non lo è dire «tavola»
per intendere il cibo messo su di essa. Del resto, proprio nel linguaggio
biblico, il termine «calice» ha spesso un significato traslato e metaforico.
Gesù stesso ha usato l’espressione «bere il calice che io sto per bere»
per indicare le sue sofferenze e la sua morte sulla croce (Mt 20,22-23). In
Apocalisse si parla del «calice della sua ira» (14,10; cfr. 16,19), per
intendere il giudizio di Dio. Il Salmista dice: «Il Signore è… il mio calice»
(Sal 16,19); e ancora: «Io alzerò il calice della salvezza» (Sal 116,13). Chi vuol poi evidenziare la
continuità con la Pasqua ebraica, suggerendo che Gesù ha scelto proprio «il
calice della benedizione» che usavano gli Ebrei e che meglio evoca tutto il
simbolismo pasquale, dovrebbe tener conto che non c’è nessuna prescrizione
biblica che ha reso normativo l’uso del calice e del vino, in seno alla Pasqua
ebraica, ma era solo una delle aggiunte che essi avevano fatto «per
tradizione» (cfr. Mc 7,4). Anzi, si deve dire che c’è un grande elemento di
discontinuità tra la Pasqua e la Cena del Signore, e questo è dato dall’agnello
pasquale. È interessante che proprio l’agnello pasquale, che era prescritto
dalla legge, e meglio poteva rappresentare il sacrificio cruento della croce,
Gesù non l’ha preso in considerazione, ma ha optato per il pane e il vino.
Comunque, chi vuol vedere questa continuità tra la Pasqua ebraica e i suoi
calici e la Cena del Signore e il calice che Gesù usò, allora dovrebbe essere
coerente fino in fondo, e non usare un calice qualsiasi, ma quel calice
specifico, circondarlo d’una certa sacralità, ripulirlo e conservarlo con cura,
non usarlo per altri scopi e usarlo una volta l’anno. Invece spesso vengono
usati semplici bicchieri, che vengono ripuliti frettolosamente dopo l’uso con
una passata d’acqua e magari usati per altri scopi.
3.2. PREMESSE E CONCLUSIONI:
Partiamo, dunque, da queste premesse:
■ Non c’è nessun serio
motivo per considerare il calice della Cena insostituibile, a parte il fatto che
Gesù ne ha fatto uso
quando la istituì. ■ Non c’è nell’insegnamento
di Gesù un ordine preciso a fare uso del calice nella Cena e nessuna
dichiarazione inequivocabile che faccia ritenere il calice quale terzo simbolo
della Cena. ■ Non c’è nessun testo
biblico che identifichi il calice con la comunione fraterna, come invece c’è per
il pane.
Arriviamo alla conclusione: Il calice della
Cena può anche essere sostituito con altro o altri contenitori, consapevoli del
fatto che questa sostituzione non è qualcosa di riprovevole, perché non implica
un venir meno del simbolismo della Cena né la disubbidienza a un preciso
comandamento di Gesù.
Giungere a questa
conclusione è già un buon traguardo che ridimensiona alquanto una
questione che ha il potere di dividere le coscienze e le chiese. E tale
traguardo era l’intento del presente studio. Ora, ammesso che si
condivida quanto detto fin qui, c’è una domanda che s’impone nella vita di una
chiesa che deve scegliere tra il calice ed i bicchierini: «Perché
cambiare? Per quale motivo? C’è una motivazione sufficiente per sostituire
qualcosa, che abbiamo sempre usato, che la chiesa ha usato per duemila anni, che
Gesù stesso ha usato quando istituì la Cena? Non è un gesto più solenne passare
un calice anziché i bicchierini? Anzitutto si deve ribadire che porre la
questione in questi termini, ne ridimensiona la portata, perché sgombra il campo
da infondate insinuazioni gli uni contro gli altri. Si riconosce che il calice
non è insostituibile, in pari tempo si adducono motivi legati alla consuetudine
per non sostituirlo e ci si chiede se ci siano ragioni sufficienti per rompere
questa consuetudine. Avendo partecipato a qualche discussione in merito posso
anche dire che a questo punto emerge un certo legame soggettivo col calice
dovuto alla forza dell’abitudine, per cui pare «strano» sostituirlo con
qualcos’altro.
Comunque, dal momento che
esistono motivazioni puerili per sostituire il calice — tipo: «Cambiamo perché
lo hanno fatto anche altre chiese» —, vogliamo dare una risposta più plausibile
alla domanda: «Perché cambiare?». Facciamo un esempio realmente successo.
Una comunità di recupero della Germania viene ad anni alterni nella nostra
chiesa e ci aiuta nell’evangelizzazione. Fra questi ci sono degli ex-alcolisti.
Per amor loro, solitamente sostituiamo il vino con succo d’uva, per evitare ogni
tentazione di tornare a bere, vista la loro debolezza in merito. Se vogliamo,
questa è una sostituzione peggiore del sostituire il calice, perché si
sostituisce il vino, uno dei due elementi del memoriale prescritti dal Signor
Gesù. E non è neppure certo che un ex-alcolista che beve un po’ di vino durante
la Cena torni ad ubriacarsi. Inoltre, anche qui si potrebbe dire che Dio
è potente di preservarli. Si potrebbero anche passare due calici distinti: con
vino per gli uni e con succo d’uva per gli altri. Ma in tutte queste
considerazioni, non viene meno una delle «motivazioni di ordine superiore», che
dovrebbe guidare il comportamento cristiano, cioè l’amore? Passare due calici
distinti non creerebbe di più un «muro di separazione»? L’amore che bisogna
manifestare in questi casi verso questi fratelli più deboli, ci pare una «causa
di forza maggiore» rispetto ad ogni altra considerazione.
Facciamo qualche altro
esempio. Una chiesa che sorge vicino ad una comunità di recupero per
tossicodipendenti, annovera tra i membri partecipanti alla Cena anche un
certo numero di essi. Si è posto il quesito se continuare col calice o scegliere
i bicchierini. La maggioranza ha deciso per i bicchierini. In un’altra chiesa qualche
membro prende solo il pane, ma non il calice perché ha un forte senso di
repulsione verso il bere dallo stesso bicchiere. Nella stessa chiesa, qualche
altro membro, fortemente preoccupato della pericolosità dell’influenza «A»,
essendo accertato che si trasmette anche bevendo dallo stesso bicchiere, ha
deciso di astenersi anche lui dal calice. In un primo momento l’anziano,
convinto della
perentorietà
del calice, voleva fare muro contro muro. Poi invece ha capito che il vero
simbolismo della Cena è dato dal pane e dal vino e ha assunto un atteggiamento
più distensivo e conciliante. Questi esempi illustrano che
esistono veramente «motivazioni di ordine superiore» rispetto alla consuetudine
e «cause di forza maggiore» che possono rendere plausibile questo tipo di
cambiamento, laddove la maggioranza di una chiesa è d’accordo.
È bene chiarire che per
«cause di forza maggiore» non intendiamo solo i rischi legati alla trasmissione
di malattie vere o presunte, la paura che si può provare dinanzi a questa
eventualità, il senso di repulsione che può provare qualcuno per il bere dallo
stesso calice o altre motivazioni di carattere pratico, personale e soggettivo,
che comunque non vanno prese sottogamba, ma l’atteggiamento e il comportamento
che la Scrittura stessa prescrive davanti a tali realtà e a tali persone. «Non
perdere, con il tuo cibo, colui per il quale Cristo è morto!» (Rm 14,15), è
un monito che ci responsabilizza davanti a chi ha più paura di noi, è più
schizzinoso di noi o è semplicemente più debole di noi. L’amore deve prevalere
sempre, ma in questo caso ancora di più.
3.3. QUALCHE CONSIDERAZIONE D’ORDINE PRATICO:
Se in una chiesa c’è l’accordo sufficiente per cambiare dal calice ai
bicchierini, questo è un bene, perché s’evitano i «mormorii e le dispute»
(Fil 2,14). E credo che questo non sia impossibile, se si riporta la questione
alle dimensioni reali senza infondate insinuazioni gli uni contro gli altri.
Se in una chiesa non c’è
l’accordo sufficiente per cambiare dal calice ai bicchierini, allora si deve
optare per una soluzione di compromesso, passando il calice e i bicchierini,
altrimenti si fa discapito agli uni o agli altri.
Se invece s’opta
esclusivamente per il calice, allora si deve essere coerenti fino in fondo.
Cioè, il calice della Cena è un calice speciale, tenuto con una scrupolosa
pulizia come facevano gli ebrei e adoperato solo per la Cena. Inoltre, l’amore
fraterno richiede un certo rispetto per gli altri fratelli che berranno da tale
calice. Diamo qualche consiglio:
■ Far sapere al diacono
addetto che si ha qualche influenza, malattia o patologia contagiosa. ■ Pulirsi bene le labbra
dalle briciole del pane appena passato, perché è antipatico poi trovarsele
galleggiare nel calice; rischierebbe di non essere più un «calice che
benediciamo». ■ Pulirsi bene le labbra
anche dal rossetto, perché sarebbe antipatico trovare nel «calice che
benediciamo» una patina di rosso che ha ben poco a che fare con il rosso del
vino.
■ Vivere una vita morigerata
in tutti i sensi. In proposito è stato scritto: «Se nell’Assemblea viene
praticata e vissuta la realtà della “comunione” fraterna, nel senso di
condividere le problematiche gli uni degli altri, allora non sorgeranno
problemi». E qui rientra anche il discorso di chi fuma e partecipa alla Cena. È
accertato che chi fuma è un maggior portatore di malattie parassitarie, perché
il fumo da tabacco è un agente irritante che inibisce le mucose delle vie aeree
dell’uomo, le quali sono normalmente delle barriere difensive contro i bacilli.
►
Calice o bicchierini? {Nicola Martella} (T)
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Calice o bicchierini? Parliamone {Nicola Martella} (T)
►
Confronto su calici o bicchierini {M. Papagna - T. Mele - N. Martella} (T/A)
►
Rompere il pane: la cena del Signore? {Nicola Martella} (T)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A2-Calice_bicchierini_UnV.htm
29-09-2009; Aggiornamento: 02-11-2009
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