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Le diversità possono essere una risorsa oppure diventano un problema.
 Ecco le parti principali:
■ Entriamo in tema (il problema)
■ Uniti nella verità
■ Le diversità quale risorsa
■ Le diversità e le divisioni
■ Aspetti connessi.
 
Il libro è adatto primariamente per conduttori di chiesa, per diaconi e per collaboratori attivi; si presta pure per il confronto fra leader e per la formazione dei collaboratori. È un libro utile per le «menti pensanti» che vogliano rinnovare la propria chiesa, mettendo a fuoco le cose essenziali dichiarate dal NT.

 

Vedi al riguardo la recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CALICE O BICCHIERINI?

 

 di Tonino Mele

 

 

1.  ENTRIAMO IN TEMA: Quali elementi della Cena del Signore sono insostituibili ai fini del suo simbolismo?

     Questa è una domanda che non ha più bisogno di molte presentazioni, vista la forza con cui si ripresenta ogni volta che c’è in giro qualche epidemia o influenza contagiosa. C’è però un’altra domanda che è estremamente risolutiva per poter rispondere al dilemma del «calice o i bicchierini»: il calice che Gesù usò nel momento in cui istituì «la cena» aveva un valore simbolico suo proprio, oppure lo usò come elemento accessorio in quanto contenitore del vino? Gesù attribuì anche al calice un valore simbolico come lo attribuì al pane e al vino? Se sì, questo deve risultare chiaramente dalle parole che usò. Se no, allora è legittimo chiedersi se il fatto che usò il calice sia motivo sufficiente per usare il calice in modo inderogabile e senza eccezioni. Quella sera Gesù usò altre cose, a cui però non ha dato un chiaro significato, come per il pane e il vino. Una di queste cose potrebbe essere il contenitore del pane, il quale poteva essere preso per indicare forse (parlo per assurdo) la provenienza divina dello stesso Gesù, ma non l’ha fatto. Questo esempio banale suggerisce quanto sia rilevante la domanda se Gesù abbia attribuito al calice un valore simbolico come lo ha attribuito al pane e al vino. Di seguito cercheremo d’esaminare tutti i testi biblici dove si parla del calice della «Cena» e cercheremo di scoprire le evidenze, se ve ne sono, che rispondono al nostro dilemma.

 

 

2.  ANALISI DEI BRANI

 

2.1.  MATTEO 26,26-29: «Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo ruppe e lo diede ai suoi discepoli dicendo: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo”. 27Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, 28perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati. 29Vi dico che da ora in poi non berrò più di questo frutto della vigna, fino al giorno che lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio».

     In questo brano è evidente che il calice viene adoperato come sinonimo del suo contenuto, cioè il vino. «Questo è il mio sangue» (v. 28) è riferito al vino e non al «calice», altrimenti sarebbe una forzatura proprio di quel simbolismo che spesso s’invoca per difendere a spada tratta l’uso del calice. È il vino e il sangue che, essendo entrambi liquidi e rossastri, si corrispondono in modo simbolico, non un elemento liquido e rossastro come il sangue e un elemento solido e argentato quale poteva essere il calice (se era di metallo, ma poteva anche essere di terracotta). Teniamo presente che quando Gesù, «preso un calice,… lo diede loro», non prese e diede solo un calice, ma ha prese e diede anche il vino che v’era già dentro, secondo le preparazioni della Pasqua. Per cui, quando disse: «Questo è il mio sangue» non stava dando un significato al calice, ma al vino che era dentro il calice. E che Gesù, con queste parole, avesse in mente il vino e non il calice, lo dimostrano le parole che dice subito dopo: «Vi dico che da ora in poi non berrò più di questo frutto della vigna, fino al giorno che lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (v. 29). Ora, a meno che non riteniamo che il calice sia un «frutto della vigna» e che dobbiamo aspettarci di trovare vigne con viti che producono calici, dobbiamo seguire Gesù nel dare importanza simbolica al vino e non al calice, considerando solo il primo come elemento insostituibile della Cena.

 

2.2.  MARCO 14,22-25: «Mentre mangiavano, Gesù prese del pane; detta la benedizione, lo spezzò, lo diede loro e disse: “Prendete, questo è il mio corpo”. 23Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero. 24Poi Gesù disse: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti. 25In verità vi dico che non berrò più del frutto della vigna fino al giorno che lo berrò nuovo nel regno di Dio».

     Essendo questo brano essenzialmente simile a quello di Matteo, vale anche qui vale quanto già detto.

 

2.3.  LUCA 22,19-20: «Poi prese del pane, rese grazie e lo ruppe, e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». 20Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi”».

     Questo brano sembrerebbe attribuire un significato al calice come simbolo del Nuovo Patto, e il simbolismo sarebbe: «come il calice contiene il vino così il Nuovo Patto contiene il sangue di Cristo». Questo sembrerebbe essere la prova del fatto che, nell’istituzione della Cena ci sono stati tre oggetti materiali, a cui è stato dato il valore di simbolo: il pane, il vino e il calice. Il pane come simbolo del corpo di Cristo, il vino come simbolo del sangue di Cristo, e il calice come simbolo del Nuovo Patto. Ma questa interpretazione implica che Gesù abbia detto due frasi distinte in merito al calice, la prima riportata nelle versioni di Matteo e di Marco e la seconda nella versione di Luca, il che non regge a un esame attento dei testi e del resto si può trovare una spiegazione più verosimile per questa apparente discrepanza tra Matteo e Marco da una parte e Luca dall’altra.

     Nelle versioni di Matteo e Marco, queste parole di Gesù sono rese nel seguente modo: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti» (Mt 26,28; Mc 14,24). Ora, a meno che non pensiamo che questa sia una seconda frase che Gesù ha detto in merito al calice, dobbiamo ritenere le versioni di Matteo e Marco da una parte e di Luca dall’altra, equivalenti, seppur leggermente diverse. La diversità può essere data dal fatto che Luca abbia voluto evidenziare la totale «novità» del patto inaugurato da Gesù col suo sangue. E questa cosa è molto plausibile, essendo Luca un collaboratore di Paolo e quindi avendo visto le sue lotte contro coloro che, «zelanti della legge» (Gal 4,17; At 21,20), difendevano a spada tratta una continuità totale tra Cristo e la legge, rifiutando in modo categorico un «nuovo» e diverso patto da quello della legge (cfr. 2 Cor 3,6.14). Questo spiegherebbe perché Luca, che secondo gli studiosi ha scritto dopo Marco e Matteo, abbia preso la stessa frase presente nei primi due vangeli e prima di «patto», v’abbia aggiunto il termine «nuovo», scambiando di conseguenza l’ordine delle parole d’una frase che per il resto è rimasta sostanzialmente la stessa. Nelle tre versioni infatti, la frase s’apre («Questo è il» o «Questo calice è») e si chiude («che è sparso per molti» o «versato per voi») allo stesso modo. Nessuna meraviglia comunque per queste apparenti «manipolazioni», perché ci aiutano a capire che gli evangelisti non erano solo dei cronisti, ma anche applicavano ciò che raccontavano ai loro destinatari, senza per questo snaturare gli eventi e il messaggio che raccontavano. Nei vangeli quest’avviene spesso e spiega bene le differenze che spesso incontriamo fra brani paralleli.

     Quindi, l’apparente diversità della frase di Luca sul «nuovo patto» non deve indurre a pensare che Gesù stia dicendo qualcosa di diverso da quanto dicono Matteo e Marco, ma si tratta della stessa frase, dello stesso insegnamento e dello stesso simbolismo, di cui però Luca evidenzia un aspetto in esso implicito. Non c’è dunque nessun terzo simbolo nelle parole: «Questo calice è il nuovo patto». Del resto, anche nel linguaggio di Luca il termine «calice» è usato per intendere il suo contenuto, il vino. Basta leggere i versi precedenti a questo, dove Luca racconta la celebrazione della Pasqua, nel cui ambito poi è stata istituita «la cena».

     Riportiamo il testo: «E, preso un calice, rese grazie e disse: «Prendete questo e distribuitelo fra di voi; 18perché io vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il regno di Dio» (Luca 22,17s). In questi versi, Luca riporta le stesse parole di Matteo e Marco, dove Gesù adopera il calice come sinonimo del suo contenuto, il vino. Vedi quanto detto più su.

 

2.4.  1 CORINZI 10,14-22: «Perciò, miei cari, fuggite l’idolatria. 15Io parlo come a persone intelligenti; giudicate voi su quel che dico. 16Il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse la comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi rompiamo, non è forse la comunione con il corpo di Cristo? 17Siccome vi è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane. 18Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano i sacrifici non hanno forse comunione con l’altare? 19Che cosa sto dicendo? Che la carne sacrificata agli idoli sia qualcosa? Che un idolo sia qualcosa? 20Tutt’altro; io dico che le carni che i pagani sacrificano, le sacrificano ai demòni e non a Dio; ora io non voglio che abbiate comunione con i demòni. 21Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. 22O vogliamo forse provocare il Signore a gelosia? Siamo noi più forti di lui?».

     Il tema di questo brano è l’idolatria e non «la cena». Il parallelo con «la cena» viene fatto per dimostrare che, come tale celebrazione crea un legame spirituale (comunione) col sangue di Cristo, così le celebrazioni pagane creano un legame con i demoni. A Paolo qui non interessava tanto se la Cena dovesse avere una forma o un’altra, come non gli interessava stabilire che forma dovessero avere i sacrifici che facevano gli Israeliti (v. 18) e i sacrifici che facevano i pagani (v. 20). Voleva dimostrare invece una tesi, un principio: che tutte queste celebrazioni creavano un legame di «comunione» con una realtà spirituale sovrastante, che nel caso della cena era «il sangue di Cristo» e «il corpo di Cristo» (v. 16), nel caso degli israeliti era «l’altare» (v. 18), nel caso dei sacrifici pagani erano «i demoni» (v. 20). Gli interessa evidenziare soprattutto un aspetto della cena, quello che più è pertinente con ciò che vuol dire sulle carni sacrificate agli idoli. L’enfasi infatti non cade sul fatto che il calice rappresenta o simbolizza il sangue di Cristo, ma sul legame di «comunione» che c’è tra chi benedice e beve il calice della Cena e il sangue di Cristo. Anche qui bisogna capire, come per gli altri brani, che il vero valore simbolico non è dato dal calice, ma dal vino, che meglio rappresenta, per le sue caratteristiche materiali (liquido e rossastro), il sangue di Cristo (anch’esso liquido e rossastro).

     L’espressione «calice della benedizione» talvolta trae in inganno perché la si ritiene un prova della sua insostituibilità. Si dimentica però che qui Paolo sta facendo un ragionamento (cfr. v. 15), dove la cosa che vuol mettere in evidenza non è «il calice della benedizione», ma, oltre la realtà che esso rappresenta, anche l’azione che noi compiamo con questo rituale, definita con le parole «il calice… che noi benediciamo». È interessante notare che in tutti e tre gli esempi (Cena, sacrifici ebraici e sacrifici pagani) Paolo distingua un’azione precisa che l’uomo fa. Per la Cena parla del «calice… che noi benediciamo» e del «pane che noi rompiamo» (v. 16); degli Israeliti dice che «mangiano i sacrifici» (v. 18); e sui sacrifici pagani afferma: «Io dico che le carni che i pagani sacrificano, le sacrificano ai demòni» (v. 20). Intanto, si noti le parole «io dico», che vogliono destare l’attenzione sul punto centrale che Paolo vuol evidenziare, che a prima vista parrebbe ovvio, ma non era ovvio per i suoi lettori. Dove vuol arrivare Paolo? Cosa vuol dire? Vuol semplicemente attirare l’attenzione sul contesto in cui venivano macellate le carni dei sacrifici che poi alcuni Corinzi ingenuamente mangiavano. Non era un contesto spiritualmente innocuo o neutrale, ma doppiamente contaminato: da un lato perché c’erano i demoni e dall’altro perché c’era probabilmente l’intenzionalità di sacrificare a loro. Tuttavia prima di dire questo, Paolo previene i Corinzi dicendo una cosa che è molto rilevante per il nostro studio. Dice: «Che cosa sto dicendo? Che la carne sacrificata agli idoli sia qualcosa? Che un idolo sia qualcosa? Tutt’altro» (v. 19-20). Cioè a dire: «È vero che — come forse affermavano in tono difensivo i Corinzi — la carne sacrificata agli idoli e l’idolo non sono nulla, però dietro queste cose materiali ci sono realtà spirituali diaboliche». Quindi, considerato che qui Paolo non sta facendo affermazioni dogmatiche e prescrittive, ma sta tirando avanti un ragionamento (cfr. v. 15), e il punto d’arrivo di questo ragionamento è dimostrare che dietro certi rituali (Cena, sacrifici degli ebrei e sacrifici pagani) c’erano delle realtà spirituali più o meno buone, perché dare così tanto valore all’espressione «calice della benedizione» fino a considerarla prova della sua insostituibilità? Anzi, se per l’oggetto rituale dei pagani, cioè «la carne sacrificata agli idoli», Paolo dice che «non è nulla» (cfr. 1 Cor 8,4,8), non si dovrebbe applicare la stessa verità anche all’oggetto rituale degli ebrei (v. 18) e all’oggetto rituale dei cristiani, cioè il «calice della benedizione» (v. 16)? Perché tirare fuori dal suo contesto un’espressione che Paolo usa come esempio tra altri esempi per farne prova della «sacralità» e della insostituibilità del calice della Cena? Ribadiamo perciò che in questo brano non era intenzione di Paolo stabilire se il calice fosse «qualcosa», anche se lo chiama «calice della benedizione», ma indicare la realtà spirituale che sta dietro certi rituali che noi compiamo.

     L’insegnamento, che Paolo vuol dare, è l’imperativo espresso in forma negativa nel v. 21: «Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni». Il suo scopo non è dare un valore normativo al calice, ma usa questa espressione come evocativa di un tutto (la Cena), secondo il linguaggio suo e dei suoi lettori. Si noti infatti che nel verso appena citato non usa solo l’espressione «calice del Signore», ma anche l’espressione «mensa del Signore». E qui è pertinente chiedersi: dobbiamo dare un valore normativo anche all’espressione «mensa del Signore»? Ci dev’essere anche una particolare «tavola» per la Cena del Signore?

     È importante precisare infine che se qui Paolo sta dicendo che la Cena ha un importante valore di «comunione», egli distingue molto chiaramente il significato di comunione che ha il calice, o per meglio dire il vino che il calice contiene, e il valore di comunione che invece ha il pane. Il calice e il suo contenuto rappresentano la comunione col sangue di Cristo e soltanto il pane rappresenta la comunione fraterna (v. 17). Dire che anche il calice e il suo contenuto sono un simbolo della comunione fraterna e che quindi è insostituibile per questo, perché raffigura meglio l’unità contro ogni individualismo, è andare oltre l’insegnamento che Paolo sta dando qui.

 

2.5.  1 CORINZI 11,20-29: «Quando poi vi riunite insieme, quello che fate, non è mangiare la cena del Signore; 21poiché, al pasto comune, ciascuno prende prima la propria cena; e mentre uno ha fame, l’altro è ubriaco. 22Non avete forse le vostre case per mangiare e bere? O disprezzate voi la chiesa di Dio e umiliate quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo. 23Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, 24e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. 25Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. 26Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”. 27Perciò, chiunque mangerà il pane o berrà dal calice del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. 28Ora ciascuno esamini sé stesso, e così mangi del pane e beva dal calice; 29poiché chi mangia e beve, mangia e beve un giudizio contro sé stesso, se non discerne il corpo del Signore».

     Qui Paolo riporta le parole di Gesù secondo la versione di Luca, per cui, anche qui vale quanto detto per Luca. Ai fini del nostro studio però è utile chiederci se Paolo apporti qualche particolare che possa confermare o smentire quanto abbiamo considerato in Luca. Con questo brano il nostro raggio d’indagine s’allarga e questo può fornirci ulteriori dati. Ed il primo dato che emerge è che, subito dopo l’espressione lucana «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue», Paolo aggiunge «fate questo ogni volta che ne berrete» (v. 25). Questo non è un particolare irrilevante, se si considera che per tutto il resto del brano Paolo insiste sull’atto del «bere»:

     ■ v. 25 «…fate questo, ogni volta che ne berrete»;

     ■ v. 26 «…ogni volta che… bevete da questo calice»;

     ■ v. 27 «…chiunque… berrà dal calice del Signore»;

     ■ v. 28 «Ora ciascuno esamini sé stesso… e beva dal calice».

 

Intanto, è interessante chiedersi perché Paolo sottolinea il «bere» e non il «prendere» il calice? Perché dice «bevete da questo calice» (v. 26) e non «prendete questo calice»? O «berrà dal calice» (v. 27) e non «prenderà il calice»? E ancora «beva dal calice» (v. 28) e non «prenda il calice»? Non è perché l’enfasi cade sul contenuto del calice e sull’atto del bere anziché sul calice stesso e l’atto del prendere?

     C’è poi l’espressione «ogni volta», anch’essa ripetuta (v. 25-26) che è molto significativa. Essa parla d’un simbolismo che si rinnova «ogni volta» che il calice viene riempito di vino e viene bevuto.

     Queste evidenze stanno a indicare che il calice della Cena non aveva un valore intrinseco di simbolo, non era usato per un simbolismo proprio, ma in quanto contenitore del simbolo vero e proprio che era il vino. Il simbolismo della «Cena» s’esauriva, oltre che nel pane spezzato e nel mangiarlo, nel contenuto del calice, cioè il vino e nell’atto del bere, a prescindere dal calice stesso.

     Anche contro la presunta idea, che ci sia una corrispondenza simbolica tra calice e nuovo patto, militano le seguenti evidenze testuali:

     ■ v. 26 «…ogni volta che…bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore» (non dice che «annunciamo il Nuovo Patto»).

     ■ v. 27 «…chiunque…berrà dal calice del Signore indegnamente, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore» (non dice «colpevole verso il Nuovo Patto»).

 

Questi ultimi versi sono molto importanti per capire il significato teologico della cena, perché chiariscono, una volta per tutte, quale sia la realtà spirituale che il simbolismo della Cena rappresenta e che può essere lesa da un comportamento indegno. Questa realtà non è null’altro che «il corpo e il sangue del Signore» (v. 27). Quindi, due elementi da rappresentare e due elementi che li rappresentano: il corpo e il sangue di Cristo e rispettivamente il pane e il vino. Questi sono gli elementi simbolici insostituibili della Cena secondo l’insegnamento del Nuovo Testamento. È arbitrario dire che l’assenza del calice compromette il valore, seppure simbolico, di questa celebrazione.

 

 

3.  ASPETTI CONCLUSIVI

 

3.1.  ALCUNE CONCLUSIONI: È evidente dall’esame fatto che non c’è una corrispondenza tale tra «calice» e «nuovo patto» da portarci a concludere che il primo sia simbolo del secondo e che quindi ci sia nell’istituzione della Cena un terzo simbolo oltre il pane e il vino. Per cui, se non si può stabilire con sicurezza, un terzo simbolo, oltre il pane e il vino, si deve ribadire ciò che in fondo la cristianità ha sempre creduto nei secoli che il simbolismo della Cena è dato dal pane, che rappresenta il corpo di Cristo, e dal vino, che rappresenta il sangue di Cristo, e in questi soltanto s’esaurisce tutto il simbolismo eucaristico. Se dunque il calice non è un simbolo a sé, ma è solo un elemento accessorio che Gesù ha usato quella sera, solo perché faceva parte delle celebrazioni della Pasqua, allora diventa evidente che la sua presenza non è determinante ai fini della celebrazione della «Cena». Se così fosse, Gesù lo avrebbe indicato chiaramente come ha fatto col pane e col vino. Se Gesù avesse voluto dare un valore simbolico al calice, avrebbe potuto dire, riferendosi a esso: «Questo è il mio corpo», lasciando intendere che, come dal calice si versa il vino, così dal suo corpo è stato versato il suo sangue. Questo simbolismo non fa una grinza, eppure non l’ha usato per il calice, ma per il pane spezzato, dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi» (Lc 22,19). Verosimilmente, con l’istituzione della Cena Gesù voleva rappresentare sopratutto le sue sofferenze e la nostra comunione vitale con esse, ed è per questo che ha usato qualcosa che richiamasse alla mente il suo sangue versato, cioè il vino e qualcosa che richiamasse alla mente il suo corpo martoriato, cioè il pane spezzato.

     Chi si meraviglia dinanzi a questa trasposizione di significato, cioè dire «calice» per intendere il suo contenuto, deve sapere che non è così inusuale, così come non lo è dire «tavola» per intendere il cibo messo su di essa. Del resto, proprio nel linguaggio biblico, il termine «calice» ha spesso un significato traslato e metaforico. Gesù stesso ha usato l’espressione «bere il calice che io sto per bere» per indicare le sue sofferenze e la sua morte sulla croce (Mt 20,22-23). In Apocalisse si parla del «calice della sua ira» (14,10; cfr. 16,19), per intendere il giudizio di Dio. Il Salmista dice: «Il Signore è… il mio calice» (Sal 16,19); e ancora: «Io alzerò il calice della salvezza» (Sal 116,13).

     Chi vuol poi evidenziare la continuità con la Pasqua ebraica, suggerendo che Gesù ha scelto proprio «il calice della benedizione» che usavano gli Ebrei e che meglio evoca tutto il simbolismo pasquale, dovrebbe tener conto che non c’è nessuna prescrizione biblica che ha reso normativo l’uso del calice e del vino, in seno alla Pasqua ebraica, ma era solo una delle aggiunte che essi avevano fatto «per tradizione» (cfr. Mc 7,4). Anzi, si deve dire che c’è un grande elemento di discontinuità tra la Pasqua e la Cena del Signore, e questo è dato dall’agnello pasquale. È interessante che proprio l’agnello pasquale, che era prescritto dalla legge, e meglio poteva rappresentare il sacrificio cruento della croce, Gesù non l’ha preso in considerazione, ma ha optato per il pane e il vino. Comunque, chi vuol vedere questa continuità tra la Pasqua ebraica e i suoi calici e la Cena del Signore e il calice che Gesù usò, allora dovrebbe essere coerente fino in fondo, e non usare un calice qualsiasi, ma quel calice specifico, circondarlo d’una certa sacralità, ripulirlo e conservarlo con cura, non usarlo per altri scopi e usarlo una volta l’anno. Invece spesso vengono usati semplici bicchieri, che vengono ripuliti frettolosamente dopo l’uso con una passata d’acqua e magari usati per altri scopi.

 

3.2.  PREMESSE E CONCLUSIONI: Partiamo, dunque, da queste premesse:

     ■ Non c’è nessun serio motivo per considerare il calice della Cena insostituibile, a parte il fatto che Gesù ne ha fatto uso quando la istituì.

     ■ Non c’è nell’insegnamento di Gesù un ordine preciso a fare uso del calice nella Cena e nessuna dichiarazione inequivocabile che faccia ritenere il calice quale terzo simbolo della Cena.

     ■ Non c’è nessun testo biblico che identifichi il calice con la comunione fraterna, come invece c’è per il pane.

 

Arriviamo alla conclusione: Il calice della Cena può anche essere sostituito con altro o altri contenitori, consapevoli del fatto che questa sostituzione non è qualcosa di riprovevole, perché non implica un venir meno del simbolismo della Cena né la disubbidienza a un preciso comandamento di Gesù.

     Giungere a questa conclusione è già un buon traguardo che ridimensiona alquanto una questione che ha il potere di dividere le coscienze e le chiese. E tale traguardo era l’intento del presente studio.

     Ora, ammesso che si condivida quanto detto fin qui, c’è una domanda che s’impone nella vita di una chiesa che deve scegliere tra il calice ed i bicchierini: «Perché cambiare? Per quale motivo? C’è una motivazione sufficiente per sostituire qualcosa, che abbiamo sempre usato, che la chiesa ha usato per duemila anni, che Gesù stesso ha usato quando istituì la Cena? Non è un gesto più solenne passare un calice anziché i bicchierini? Anzitutto si deve ribadire che porre la questione in questi termini, ne ridimensiona la portata, perché sgombra il campo da infondate insinuazioni gli uni contro gli altri. Si riconosce che il calice non è insostituibile, in pari tempo si adducono motivi legati alla consuetudine per non sostituirlo e ci si chiede se ci siano ragioni sufficienti per rompere questa consuetudine. Avendo partecipato a qualche discussione in merito posso anche dire che a questo punto emerge un certo legame soggettivo col calice dovuto alla forza dell’abitudine, per cui pare «strano» sostituirlo con qualcos’altro.

     Comunque, dal momento che esistono motivazioni puerili per sostituire il calice — tipo: «Cambiamo perché lo hanno fatto anche altre chiese» —, vogliamo dare una risposta più plausibile alla domanda: «Perché cambiare?». Facciamo un esempio realmente successo. Una comunità di recupero della Germania viene ad anni alterni nella nostra chiesa e ci aiuta nell’evangelizzazione. Fra questi ci sono degli ex-alcolisti. Per amor loro, solitamente sostituiamo il vino con succo d’uva, per evitare ogni tentazione di tornare a bere, vista la loro debolezza in merito. Se vogliamo, questa è una sostituzione peggiore del sostituire il calice, perché si sostituisce il vino, uno dei due elementi del memoriale prescritti dal Signor Gesù. E non è neppure certo che un ex-alcolista che beve un po’ di vino durante la Cena torni ad ubriacarsi. Inoltre, anche qui si potrebbe dire che Dio è potente di preservarli. Si potrebbero anche passare due calici distinti: con vino per gli uni e con succo d’uva per gli altri. Ma in tutte queste considerazioni, non viene meno una delle «motivazioni di ordine superiore», che dovrebbe guidare il comportamento cristiano, cioè l’amore? Passare due calici distinti non creerebbe di più un «muro di separazione»? L’amore che bisogna manifestare in questi casi verso questi fratelli più deboli, ci pare una «causa di forza maggiore» rispetto ad ogni altra considerazione.

     Facciamo qualche altro esempio. Una chiesa che sorge vicino ad una comunità di recupero per tossicodipendenti, annovera tra i membri partecipanti alla Cena anche un certo numero di essi. Si è posto il quesito se continuare col calice o scegliere i bicchierini. La maggioranza ha deciso per i bicchierini.

     In un’altra chiesa qualche membro prende solo il pane, ma non il calice perché ha un forte senso di repulsione verso il bere dallo stesso bicchiere. Nella stessa chiesa, qualche altro membro, fortemente preoccupato della pericolosità dell’influenza «A», essendo accertato che si trasmette anche bevendo dallo stesso bicchiere, ha deciso di astenersi anche lui dal calice. In un primo momento l’anziano, convinto della perentorietà del calice, voleva fare muro contro muro. Poi invece ha capito che il vero simbolismo della Cena è dato dal pane e dal vino e ha assunto un atteggiamento più distensivo e conciliante.

     Questi esempi illustrano che esistono veramente «motivazioni di ordine superiore» rispetto alla consuetudine e «cause di forza maggiore» che possono rendere plausibile questo tipo di cambiamento, laddove la maggioranza di una chiesa è d’accordo.

     È bene chiarire che per «cause di forza maggiore» non intendiamo solo i rischi legati alla trasmissione di malattie vere o presunte, la paura che si può provare dinanzi a questa eventualità, il senso di repulsione che può provare qualcuno per il bere dallo stesso calice o altre motivazioni di carattere pratico, personale e soggettivo, che comunque non vanno prese sottogamba, ma l’atteggiamento e il comportamento che la Scrittura stessa prescrive davanti a tali realtà e a tali persone. «Non perdere, con il tuo cibo, colui per il quale Cristo è morto!» (Rm 14,15), è un monito che ci responsabilizza davanti a chi ha più paura di noi, è più schizzinoso di noi o è semplicemente più debole di noi. L’amore deve prevalere sempre, ma in questo caso ancora di più.

 

3.3.  QUALCHE CONSIDERAZIONE D’ORDINE PRATICO: Se in una chiesa c’è l’accordo sufficiente per cambiare dal calice ai bicchierini, questo è un bene, perché s’evitano i «mormorii e le dispute» (Fil 2,14). E credo che questo non sia impossibile, se si riporta la questione alle dimensioni reali senza infondate insinuazioni gli uni contro gli altri.

     Se in una chiesa non c’è l’accordo sufficiente per cambiare dal calice ai bicchierini, allora si deve optare per una soluzione di compromesso, passando il calice e i bicchierini, altrimenti si fa discapito agli uni o agli altri.

     Se invece s’opta esclusivamente per il calice, allora si deve essere coerenti fino in fondo. Cioè, il calice della Cena è un calice speciale, tenuto con una scrupolosa pulizia come facevano gli ebrei e adoperato solo per la Cena. Inoltre, l’amore fraterno richiede un certo rispetto per gli altri fratelli che berranno da tale calice. Diamo qualche consiglio:

     ■ Far sapere al diacono addetto che si ha qualche influenza, malattia o patologia contagiosa.

     ■ Pulirsi bene le labbra dalle briciole del pane appena passato, perché è antipatico poi trovarsele galleggiare nel calice; rischierebbe di non essere più un «calice che benediciamo».

     ■ Pulirsi bene le labbra anche dal rossetto, perché sarebbe antipatico trovare nel «calice che benediciamo» una patina di rosso che ha ben poco a che fare con il rosso del vino.

     ■ Vivere una vita morigerata in tutti i sensi. In proposito è stato scritto: «Se nell’Assemblea viene praticata e vissuta la realtà della “comunione” fraterna, nel senso di condividere le problematiche gli uni degli altri, allora non sorgeranno problemi». E qui rientra anche il discorso di chi fuma e partecipa alla Cena. È accertato che chi fuma è un maggior portatore di malattie parassitarie, perché il fumo da tabacco è un agente irritante che inibisce le mucose delle vie aeree dell’uomo, le quali sono normalmente delle barriere difensive contro i bacilli.

 

Calice o bicchierini? {Nicola Martella} (T)

Calice o bicchierini? Parliamone {Nicola Martella} (T)

Confronto su calici o bicchierini {M. Papagna - T. Mele - N. Martella} (T/A)

Rompere il pane: la cena del Signore? {Nicola Martella} (T)

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A2-Calice_bicchierini_UnV.htm

29-09-2009; Aggiornamento: 02-11-2009

 

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