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Il seguente contributo e la risposta di Nicola Martella dovevano trovare posto
nel tema «Calice
o bicchierini? Parliamone», in cui abbiamo discusso l’articolo
«Calice
o bicchierini?»
di Tonino Mele. A causa della specificità e della lunghezza del
contributo e della risposta, abbiamo preferito mettere il tutto extra. La formattazione nel
contributo di questo lettore è redazionale; il grassetto indica una diretta
corrispondenza nella risposta. A questo confronto fa seguito poi un
secondo articolo, che va più nel merito riguardo alle
questioni dell'articolo di
Tonino Mele.
|
1. Le tesi
{Michele Papagna}
▲
Caro Nicola, ti saluto nell’amore del Signore Gesù Cristo. Credo che tu non ti
sia dimenticato di me, come nemmeno io di te, sebbene siano passati anni dai
nostri incontri. Ho letto alcune tue osservazioni sul tema «Calici o
bicchierini?». Non voglio entrare nel merito di tutta la discussione. Perlomeno
non adesso.
Ho letto però la tua seguente frase: «È
difficile pensare che in una chiesa di 1.000 o 2.000 persone ci sia un solo
“calice della benedizione” (1 Cor 10,16) e un “unico pane” (v. 17), e che il
culto debba durare tutta una giornata perché tutti partecipino. Si tratta invece
solo di simbolismi ideali. A volte pensiamo con orizzonti abbastanza piccoli.
Inoltre diamo ai contenitori più significato che ai contenuti».
Mi dispiace che si facciano
apprezzamenti del genere: «A volte pensiamo con orizzonti abbastanza piccoli» su
credenti. Non ho capito se stavi parlando d’altri o di te stesso (perdonami
l’irriverenza). Mi spiego.
In aprile scorso ho
partecipato con altri credenti a un convegno delle assemblee austriache,
presso Salisburgo. Eravamo più di mille persone. La domenica abbiamo partecipato
alla rammemorazione (ci tengo a dire rammemorazione / ricordo in senso
d’anamnesi e non memoriale) del Signore Gesù con la Cena del Signore.
Prima di giungere nel grande
salone mi sono chiesto: come si farà a distribuire il pane e il vino nell’arco
di 2 ore (la cena del Signore cominciava alle 10.30 e sarebbe dovuta finire alle
12.30, con la tipica puntualità teutonica), e allo stesso tempo realizzare una
vera rammemorazione e adorazione del Signore Gesù?
Siccome credo che la Bibbia
presenti certi simbolismi pure nel Nuovo Testamento (capo coperto della donna e
capo scoperto dell’uomo nella preghiera, cena del Signore, battesimo, unzione
dell’olio — non nel senso cattolico o d’alcuni «santoni evangelici»), e che
questi simbolismi in sé
trasmettano un messaggio anche nella forma, oltreché nella sostanza (pensa per
esempio al battesimo), ho provato disagio nel pensare che ci sarebbero stati
bicchierini e pezzettini di pane pretagliato. Stavo mostrando di pensare «con
orizzonti abbastanza piccoli», come tu dici.
Con mia grande sorpresa, non
ci sono stati né bicchierini né pezzettini di pane. Il simbolismo non è
stato ideale, ma reale, permettendo la partecipazione di tutti, ripeto più di
mille credenti, in gran parte giovani e giovanissimi, e trasmettendo l’idea,
pure nella forma esteriore, della compartecipazione allo stesso pane e allo
stesso calice.
Il culto con la Cena del
Signore, è stato fortemente cristocentrico (non come molti culti moderni che
hanno dimenticato Cristo, il Redentore, soprattutto con la nuova
innologia anonima e sciapa, provenienti dall’ambito carismatico intriso
d’esistenzialismo), con una partecipazione massiva all’adorazione, con una
attenzione e concentrazione generale elevatissima e con i simboli che venivano
distribuiti a tutti.
Da parte mia posso dire che
è stato uno dei culti più intensi dal punto di vista spirituale ed
emotivo, a cui io abbia partecipato. Una intensità emotiva non epidermica,
perché ogni preghiera e ogni canto sottolineavano qualche aspetto e gloria del
Signore Gesù Cristo verso cui tutto il culto era proteso.
E il culto d’adorazione e
rammemorazione del Signore Gesù Cristo è terminato alle ore 12.30. Puntualità
teutonica. E non è stato né un italico arrangiarsi né un miracolo!
Siccome «pensiamo con
orizzonti abbastanza piccoli», qualcuno si chiederà come avranno fatto.
Non voglio darvi la risposta subito. Quando si hanno orizzonti piccoli, è bene
riflettere un po’ di più (gli orizzonti si possono sempre allargare, senza
tradire né la sostanza né la forma dell’insegnamento e della prassi biblica).
Ciò che a noi sembra impossibile, non sempre è impossibile. Ed a Dio nulla è
impossibile! Perlomeno se desideriamo ubbidire alla Parola di Dio, Egli
ci concederà la sapienza che viene dall’alto.
Certe volte, ed è questo il
tono della tua frase, innanzi citata, mi sembra che qualcosa (in questo caso il
simbolismo) sia vera solo perché praticabile. Pertanto va a finire ch il
pragmatismo determina ciò che è possibile credere e ciò che è possibile
praticare.
Infine un’osservazione: è
vero che 1 Corinzi non parli essenzialmente della cena del Signore. Ricordo che
la Cena del Signore è istituita negli evangeli, praticata negli Atti e
regolamentata in 1 Corinzi 11.
Tuttavia voglio ricordare
che quasi sempre le verità bibliche non sono insegnate mediante delle
dissertazioni a mo’ di teologia sistematica, con dei capitoli dedicati
specificamente. Le verità bibliche si trovano disseminate in tutta la Scrittura
e concatenate con altre verità e calate nell’umana esperienza. Pertanto noi le
raccogliamo, come diceva Lutero, come raccoglieremmo la frutta dagli alberi.
Faccio un esempio: la
divinità di Gesù Cristo e la sua volontaria umiliazione. Non abbiamo a tal
riguardo nella Bibbia un capitolo specifico insegnante in modo ordinato
sistematicamente tutti gli aspetti di questa verità. Però troviamo vari testi,
inseriti in vari contesti diversi che correlati insieme ci ricordano l’identità
divina di Gesù Cristo e la sua discesa nelle parti profonde della terra.
Ad esempio Filippesi 2: in
quel testo si parla «essenzialmente» della deità di Gesù Cristo oppure
dell’atteggiamento d’umiltà che deve caratterizzare i fratelli? È chiaro che si
parla dell’umiltà che deve caratterizzare i fratelli. Però Paolo nell’inciso, a
mo’ d’esempio, ricorda chi è Gesù e cosa ha fatto.
E tutto ciò non è meno vero
riguardo a Gesù solo perché «essenzialmente» il testo abbia una finalità
parenetica e non abbia invece una finalità didattica intorno alla cristologia.
Come scrivi tu si potrebbe dire: il Signore Gesù fu usata come termine di
paragone positivo. Ma le verità su Gesù Cristo quivi enunciate continuano a
essere tutte vere, anche nei dettagli. Infatti usiamo, e i «grandi teologi»,
tutti, utilizzano Filippesi 2 per esplicare la doppia natura di Gesù Cristo e i
passi della Sua volontaria umiliazione.
Tornando a 1 Corinzi 11:
il testo regola le anomalie di Corinto. Ma non per questo ciò che dice intorno
alla prassi della chiesa di Corinto, emendata dalle deviazioni e dagli errori,
sia sbagliata o che non ci riguardi.
Caro Nicola, non proseguo.
Volevo soltanto portare una testimonianza personale e qualche
riflessione, su qualche aspetto della Cena del Signore.
P.S.: Uno dei motti dei riformatori che più mi piace
è «Ecclesia semper reformanda», la chiesa si deve del continuo riformare;
beninteso alla luce chiara della Parola di Dio scritta e non delle convenzioni o
delle pressioni sociali del tempo, in cui viviamo (di ieri o d’oggi). Con
affetto in Cristo… {Manfredonia,
17 ottobre 2009}
2. Osservazioni e obiezioni 1 {Nicola Martella}
▲
Premetto che Michele Papagna ha il diritto alle sue
opinioni. Conoscendolo, mi sarei sinceramente aspettato che lui prendesse
posizione sull’articolo di
Tonino Mele, che è stato
discusso nel tema collegato e non su una frase presente in quest'ultimo. Nel suo
scritto ho cercato inutilmente argomentazioni in merito. Mi
meraviglia che il lettore si sia concentrato su una pulce (la mia frase:
«A volte pensiamo con orizzonti abbastanza piccoli», che vale per tutti, essendo
nella prima persona plurale) e abbia del tutto trascurato l’elefante
(l’articolo). Ha preso anche l’occasione per essere sarcastico, sebbene poi
chieda che si sorvoli sulla sua «irriverenza».
Il lettore ha parlato della sua esperienza in Austria, ma non spiegato
come hanno fatto in pratica con le 1.000 persone a bere da un solo «calice
della benedizione»
e mangiare da un «unico
pane». E non si comprende neppure perché, se avessero usato
bicchierini e pezzettini di pane, il
simbolismo non avrebbe potuto essere concreto, visto
che ogni simbolo è un segno ideale che rimanda a una realtà specifica, che
dipende dal contesto particolare (cfr. i simboli biblici quali «l’Agnello»,
«chiave di Davide», «stella del mattino»; i segnali stradali; i logo; gli
acronimi come ichtys).
Mi sfugge che cosa abbia a che fare «l’anamnesi»
— un termine mutuato dalla psicologia e dalla psicanalisi — con la
«rammemorazione», e come quest’ultima contrasti col «memoriale», visto che
ambedue questi ultimi termini sono tipici della tradizione delle Assemblee.
Non mi dilungo sul fatto che
«questi simbolismi in sé trasmettano un messaggio anche nella forma,
oltreché nella sostanza» riguardo ai simboli della Cena del Signore, visto che
Tonino Mele ha risposto sufficientemente.
Il lettore converrà che si
può
dimenticare Cristo, usando sia il calice sia i bicchierini. Al contrario, si
può avere un culto fortemente cristocentrico, usando sia i bicchierini, sia il
calice. L’intensità spirituale ed emotiva, con cui viviamo delle
esperienze (p.es. un culto), dipende dal nostro atteggiamento mentale, dalla
nostra empatia verso di esse e dal nostro assenso a farci coinvolgere da esse.
Tale intensità non dipende di per sé da aspetti formali, visto che altrove altri
affermano la stessa cosa, pur usando bicchierini e pezzettini di pane. Inoltre
il nostro vissuto psicologico non può essere il metro di misura per la verità,
altrimenti dovremmo dare ragione agli entusiastici e ai mistici.
È uno strano modo quello di
agire per enigmi, negando di svelare il «mistero» su come avranno fatto a
bere da un solo «calice della benedizione»
e mangiare da un «unico
pane» lì in Austria. Michele dovrebbe sapere che io nel mondo teutonico
(= tedesco) ci sono di casa (faccio notare che gli austriaci non sono teutoni!)
e ne conosco abbastanza bene usi e costumi. Faccio notare che anche fra le
Assemblee teutoniche ci sono tante comunità che usano i bicchierini, da
soli o unitamente a calici, sia con vino sia con succo d'uva.
Mi sembra di percepire una sottile e infelice
insinuazione, secondo cui le comunità, che usano i bicchierini, non
desiderino ubbidire alla Parola di Dio; se così
fosse, non potrei certamente fare altro che dissentire.
Infatti sono i frutti che mostrano l’albero, specialmente il frutto dello
Spirito. In tali casi noi tutti dovremmo riportarci alla mente il
rimprovero di Gesù ai ciechi scribi e Farisei: «Voi colate il moscerino e
inghiottite il cammello… voi nettate il di fuori del calice e del piatto, mentre
dentro sono pieni di rapina e d’intemperanza» (Mt 23,24s; cfr. il contesto).
Quando alla praticabilità
di una cosa (fatto non trascurabile), ricordo che in molte parti del mondo non
esistono neppure la vite vinifera né il pane di frumento. Quando pretendiamo
d'essere «fiscali» su certe cose, facciamo bene a non dimenticarcene, e cioè sia
per rimanere realistici (il Signore poteva richiedere qualcosa di irrealizzabile
in certe zone della terra?), sia per pudore verso l'altrui cultura e le diverse
circostanze contingenti. A differenza del lusso, con cui ne disquisiamo noi
occidentali, i credenti poveri e spesso angariati e perseguitati in varie parti
del mondo non hanno tempo per discutere di calici e bicchierini, oggetti che
neppure si sognano, né se ci sia una differenza tra rammemorazione e memoriale,
né se dovranno celebrare la Cena del Signore solo quando avranno importato
dall’occidente il frutto della vite e il pane di frumento. Inoltre Tonino Mele
non è partito dalla praticabilità, ma la sua rappresenta un’analisi attenta ed
esegetica di brani biblici.
Un altro mistero è
questo: se è vero che 1 Corinzi 11 non parla essenzialmente della cena del
Signore, come il lettore conviene, come fa proprio questo brano a
regolamentarla? (cfr. invece 1 Cor 5,7s). In ogni modo, Tonino Mele ha spiegato
sufficientemente questo brano.
Quanto alle verità
bibliche, se da esse si intende trarre delle precise norme di comportamento,
non ci si può basare su brani che si prestano a varie interpretazioni e arbitri,
perché oscuri, ma è evidente che bisogna fare capo a quelli che sono chiari e
incontrovertibili. Prendere ad esempio la persona e l’opera di Gesù, non mi
sembra una questione troppo ardua da trovare nel NT, visto che egli è il centro
e il contenuto del nuovo patto. Se non ci fosse Filippesi 2 (grazie a Dio che
c’è!), non saremmo certo orfani né sprovveduti di cristologia. La questione non
riguarda quindi le cose chiare, ma quelle meno chiare.
Riguardo a 1 Corinzi 11
e alla citazione che Paolo fa essenzialmente del testo di Luca, non vedo dove
sta il problema. Tonino Mele ha spiegato sufficientemente anche questo.
Ringrazio Michele per la sua
testimonianza personale e per le sue riflessioni. Ammetto però che tutto il
suo scritto lascia più incertezze che risposte e più «misteri» che rivelazioni;
egli affronta questioni marginali invece di concentrarsi sull’analisi esegetica
fatta da Tonino Mele. Ammetto di non capire fino in fondo il senso del suo
scritto; comunque ho risposto per quello che ho capito o intuito.
Inoltre quando si parla e si
intende accaparrarsi di una «prassi veramente biblica della Cena del
Signore», devo ammettere che ciò mi lascia alquanto scettico. Per fare un
esempio, che Michele conosce benissimo, ecco che cosa mi è successo una volta
proprio nella sua assemblea, quando osai
predicare senza giacca. Mi trovavo con la mia famiglia per un paio di
giorni in una località non molto distante da Manfredonia; un fratello lo venne a
sapere casualmente, mi venne a cercare, insistette e mi costrinse ad
andare a predicare in tale comunità, sebbene gli avessi detto che avevo solo un
pantalone lungo e una camicia a mezze maniche, visto che ero ospitato in
località marina per un paio di giorni e non era prevista una partecipazione a un
culto. Appena salito sul pulpito, un fratello si tolse la sua giacca grondante
di sudore al punto d'essere bagnata anche fuori e venne a darmela, perché
tassativamente me la mettessi alla presenza del Signore. Mi feci una
sauna incredibile. Alla fine della predicazione, uno degli anziani, un fratello
di nostra conoscenza, mi disse in dialetto: «La predica era buona, ma la
prossima volta portati la giacca!». Come si vede, anche questa viene considerata
un’interpretazione veramente
biblica.
Sebbene questo non sia
probabilmente il caso di questo lettore, faccio notare che esistono situazioni,
in cui alcuni si vogliono accaparrare per sé «verità veramente vere
e biblicamente
scritturali» (per usare un pleonasmo sovrabbondante), sebbene in merito
ci siano varie convinzioni (cfr. Rm 14), poiché la Scrittura non chiarisce
sufficientemente tale cosa; in tali casi sono spinto a subodorare che alla base
ci sia spesso un’ideologia dottrinaria, portata avanti da chi si sente parte di
un eletto e ristretto «resto fedele», con cui si vuole magari cantare «Oh,
gioia dei puri…», trovando così quell'identificazione e quell'intensità
spirituale, che si vorrebbe negare come possibilità ad altri. Voglio credere che
questo non sia il caso qui.
Per quanto ne so, da
esperienza diretta e da conferma altrui, nella chiesa di questo lettore di
domenica passano normalmente ben 4 calici. Come si può ancora parlare di
bere da un solo «calice della
benedizione»?
Si vedano inoltre anche le
risposte date da Nicola Martella e da Tonino Mele al contributo di Gianni Siena:
►
Calice o bicchierini? Parliamone
(interventi 7-9).
3. La replica
{Michele Papagna}
▲
Caro fratello
Nicola, non volevo sollevare tutto quel polverone con il mio intervento sulla
tua «pulce». Con il fratello Tonino Mele ho affrontato «l’elefante» in altra
sede. Preciso che già prima di scriverti concordavo col fratello Mele e con le
sue conclusioni, arricchite da altre osservazioni che gli ho fatto pervenire.
Quanto al «nostro dibattito» credo di dovermi spiegare. Con la mia non
entravo nel merito dell’articolo di Mele e nemmeno pensavo di rispondere alle
sue argomentazioni bibliche con il presunto valore canonico d’una esperienza
soggettiva. Non era così. E non ero nemmeno così ingenuo da pensare di
controbilanciare una solida argomentazione biblica con una esperienza
soggettiva. D’altro canto già concordavo in genere con quanto egli affermava.
Il mio intervento era solo per evidenziare che le tue argomentazioni, in
quell’inciso, e solo in quello, che chiami «pulce» erano smentibili da una
esperienza personale. Nulla più. Non eravamo su un terreno di confronto biblico,
ma di confronto d’esperienze vissute ma non ispirate.
Premesso questo vengo a chiarire quelli che sono diventati punti di dibattito
pubblico, ma che ritengo essere frutti di fraintendimento.
■ 1. Riguardo la questione «rammemorazione (gr. anamnesi) - memoriale»
rimando all’approfondimento fatto con Tonino Mele. La psicologia e la
psicanalisi non centrano nulla nel mio caso. È vero che nelle assemblee questi
termini sono usati in modo simile e intercambiabile. Ma mi permetto di dire che
quest’uso è superficiale ed erroneo.
■ 2. Riguardo al «messaggio anche nella forma» (ripeto ciò che ho detto
sull’articolo di Mele, al quale rimando per il mio approfondimento): nel bere
allo stesso calice alla cena del Signore, io esprimo esteriormente questo senso
d’appartenenza reciproca alla medesima famiglia, ribadita anche nella pratica
del prendere da uno stesso pane (concordo con Mele nella distinzione del
significato di comunione tra il calice e il pane in 1 Corinzi 10,16-17). È
questo anche il senso dell’uso dei 4 calici nella mia assemblea. Non ho e
non abbiamo la «dottrina del calice unico». Preferiamo i calici grandi perché a
nostro avviso esprimono visibilmente il senso d’appartenenza reciproca alla
stessa famiglia.
■ 3. Quanto al dimenticare Cristo, il Redentore: è chiaro che si possa
dimenticare Cristo
sia con i bicchierini sia con il calice. Ma io non avevo fatto la connessione
bicchierini = dimenticare Cristo.
Ho lamentato soltanto che spesso, molto spesso (sia che si tratti di calici che
di bicchierini) alla cena del Signore e al culto d’adorazione Cristo è
dimenticato, mentre in quell’esperienza austriaca l’adorazione era stata
fortemente cristocentrica.
Perciò non è necessario agitarsi sulla connessione bicchierini = dimenticare
Cristo.
■ 4. Quanto all’intensità spirituale, è vero che molto dipende
dall’atteggiamento mentale. Ma io ho collegato l’intensità spirituale ed
emotiva con la centralità di Cristo nel culto. Ho visitato oltre 100 chiese
evangeliche (tra le cosiddette assemblee e non) in Italia e all’estero, chiese
con modi di fare abbastanza difformi dal mio. Per esempio circa due mesi fa ero
a Londra alla All Souls Church, dove per anni ha predicato John Stott. Anche là
tuttavia ho provato intensità spirituale ed emotiva, sebbene il mio
atteggiamento mentale non fosse d’assenso verso alcuni aspetti formali del
culto.
Alla cena del Signore, e al culto d’adorazione, come opportunamente spiego, il
mio coinvolgimento viene da una adorazione teocentrica e cristocentrica (nelle
preghiere e nei canti) e non antropocentrica o narcisista (intendo con preghiere
e canti in cui si parla più dell’uomo e dei suoi sentimenti, che di Dio).
■ 5. Non ho preso le chiese austriache o tedesche a modello; ho parlato
solo di quell’esperienza.
■ 6. Riguardo la presunta insinuazione: non ho insinuato né sindacato sulla
sincerità dell’ubbidienza alla Parola di Dio di quelle comunità che
utilizzano i bicchierini. Ho ribadito un principio generale. Credo che sempre,
e questo vale per tutti, se vogliamo ubbidire, il Signore ci mostrerà sempre i
modi, in cui farlo. Ricordo che l’ubbidienza è il miglior organo di conoscenza
spirituale (Giovanni 7,17).
■ 7. Quanto alla praticabilità, non sono stato io a istituire la Cena del
Signore con il pane e il vino. Sicuramente ci sono posti nel mondo in cui
mancano sia il pane che il vino. Il Signore dà a quei credenti la saggezza
d’onorarlo e ubbidirli nel modo migliore nel praticare comunque la cena del
Signore. Proprio su questo punto apprezzo l’intervento di Tonino Mele; è partito
dall’analisi dei passi biblici e non da considerazioni contingenti come la
presunta impraticabilità in grosse comunità.
■ 8. Quanto alla nota a piè di pagina riguardante il darbismo e la
preghiera pubblica della donna. Io non ho posto queste questioni in essere.
Sorvolo sulla questione «darbista». Ormai è diventato un luogo comune.
Parafrasando Luciano de Crescenzo, che ricordò che «siamo sempre meridionali di
qualcuno», si potrebbe dire che tutti, in qualcosa, «siamo darbisti per
qualcuno». Un esempio estremo: se non condividi l’omosessualità per alcuni
«evangelici» sei un «darbista», uno stretto che presume d’appartenere a un
rimanente fedele con la giusta interpretazione.
Quanto alla
preghiera della donna, sei proprio sicuro che chi crede che siano gli uomini
a dover condurre la preghiera pubblica e non le donne, si basi su 1 Corinzi
14,34? Non voglio essere accusato d’essere enigmatico perciò rimando a 1
Timoteo 2.
■ 9. Quanto alla questione della «giacca», so ciò di cui tu parli, visto
che quando sei venuto a Manfredonia, io c’ero. Non capisco perché io sia stato
chiamato in causa su questo, quando non rispecchia la mia posizione e pratica
personale. Detto questo chiarisco quanto io ho capito della pratica a
Manfredonia e altrove. Alcuni fratelli, non tutti e non io, nel corso del tempo
hanno ravvisato l’opportunità d’indossare la giacca quando predicano, per una
questione d’apparente decoro e dignità connessa al ruolo del predicatore. E
questa è una questione giusta. Niente di biblico (non ho mai sentito
addurre altre motivazioni se non quelle del decoro e del ruolo, anche a
Manfredonia).
È vero che alcuni fratelli (li chiamerai forse «deboli») sono stati più
veementi nel richiedere questo ad altri, oltre che a sé stessi. Ma se uno è
forte spiritualmente (Romani 14,13-23), saprà anche rinunciare a un diritto
(forse sudando) per evitare di disturbare il fratello. Ho sudato spesso, con la
giacca, per evitare di molestare qualche fratello. E questo molto più quando si
va in casa d’altri.
Infine, per conoscenza, al momento non ci sono fratelli che fanno pressione su
questa «pratica della giacca», anche se personalmente preferiscono indossarla
(non io). Pertanto è bene prima informarsi. Rimane sempre vero il fatto che ogni
credente, e chi predica in modo particolare, debba essere vestito in modo
adeguato (decoro e dignità) in relazione al posto in cui ci si trova e alla
funzione che esplica. Soprattutto d’estate, in un posto di mare quale è
Manfredonia.
■ 10. A questo punto è necessario «svelare l’enigma» della prassi austriaca. Ma
siccome sono stato accusato di lasciare incertezze, misteri ed enigmi riguardo
all’esperienza in Austria, è giusto che chiarisca tutto, se ve ne fosse
ancora bisogno.
La Cena del Signore è cominciata alle ore 10,30. Su un tavolo era posto un unico
grande pane, che qualcuno aveva provveduto a incidere / intagliare accennando
con una divisione 6 grandi parti; sul tavolo erano pure posti 6 grandi calici
contenenti il vino.
Quando è cominciato il culto con la cena del Signore, questi grandi pezzi di
pane sono stati spezzati e passavano, cosicché ciascun credente spezzava una
parte per sé. Subito dopo passavano i calici, da cui in sequenza i credenti
bevevano il vino. Mentre i simboli venivano distribuiti i credenti intervenivano
dal loro posto, ad alta voce, con preghiere, proponendo canti e con letture
bibliche centrate sulla persona e sull’opera di Dio e sulla persona e sulla
salvezza in Cristo Gesù. Tutto questo con grande partecipazione e attenzione.
Semplice no! Quindi sia nella distribuzione del vino che nella distribuzione del
calice si è trasmessa anche esteriormente quest’idea della condivisione, della
partecipazione comune agli stessi simboli (ripeto: comunque ha fatto bene Mele a
distinguere il significato di comunione tra il calice e il pane).
Fatte queste precisazioni, credo che si possa concludere qui tutta la questione,
che credo nasca da fraintendimenti. Per la questione «calici o bicchierini»
rimando al mio scambio col fratello Tonino Mele. {30 ottobre 2009}
4. Osservazioni e obiezioni 2
{Nicola Martella}
▲
Ringrazio Michele
per la sua replica, che considero un buon segno e per cui lo ringrazio. Egli ha
cercato di chiarire meglio il suo punto di vista e ciò ci ha fatto scoprire che
sullo spirito delle cose concordiamo abbastanza; su ciò che ancora ci
differenzia, possiamo avere le nostre convinzioni nel rispetto di quelle altrui.
Ogni giorno mi trovo a confrontarmi con varie richieste di chiarimento biblico,
esegetico, pastorale, ecc. Sono quindi continuamente dietro alle cose e trovare
tempo per tutto è alquanto difficile. Prendo sempre sul serio ciò che m’arriva e
do in genere una risposta esauriente, partendo da ciò che capisco del testo
ricevuto. Per non ripetermi, mi limito a poche cose.
La questione della giacca e della preghiera della donna, tratta da
1 Corinzi 14,34s, non riguardavano le convinzioni personali di Michele Papagna,
ma erano solo due esempi da noi ben conosciuti riguardo a come si possa
interpretare soggettivamente la Parola, reclamando per sé una particolare
«biblicità» e rischiando così, invece, di piegarla alle proprie
convenzioni personali o di gruppo.
Quanto alla sua esperienza in Austria, nella prima chiesa fondata a
Roma-Finocchio da me, Bernardo Oxenham e dalle nostre consorti, abbiamo
praticato da sempre la cena del Signore con l’accompagnamento di brevi e molte
preghiere, sia che usassimo il calice o i bicchierini; ciò accade anche
oggigiorno. Tale pratica la usiamo anche a Tivoli, dove io e mia moglie
collaboriamo attualmente alla formazione d’una nuova chiesa.
Quanto al brano di 1 Timoteo 2, evito di trattarlo qui, poiché questo ci
farebbe deviare dalla discussione principale; magari possiamo riprendere la
questione in un altro momento più propizio. Ho affrontato la questione già nel
libro «Generi
e ruoli» e sul sito in diversi articoli e temi di
discussione. Inoltre io ho parlato solo di 1 Corinzi 14,34s.
Incoraggio Michele a continuare a partecipare costruttivamente alle discussioni
correnti presenti sul sito. Penso che tale confronto possa servire a noi tutti.
Anche i suoi interventi, se vanno nel merito, possono essere d’aiuto a tanti.
►
Confronto su calici o bicchierini 2 {Papagna - Mele - Martella}
(T/A)
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Note
Nessun
simbolo ha forza e significato in sé, ma è sempre una costruzione ideale,
introdotta per significare qualcosa, e tale connessione fra segno e significato
si regge sulla tradizione e sulla convenzione, a cui ci si attiene (cfr. p.es. i
gesti con le mani, tanto cari agli italiani). Gli stessi simboli, segni e gesti
hanno un significato differente a seconda del contesto, in cui sono inseriti; ad
esempio, i movimenti della testa che da noi significano «sì» e «no», altrove
sono invertiti. Neanche il pane e il vino hanno lo stesso significato nelle
varie religioni, in cui vengono usati come simboli all’interno di un rito;
neppure il giudaismo (pasqua mosaica) e il cristianesimo biblico (pasqua
messianica; Cena del Signore) li usano allo stesso modo, sebbene l’ultima pasqua
messianica tragga significato dalla prima. Per la forma e il contenuto di
quest’ultimo simbolismo, rimando all’articolo di Tonino Mele.
Ecco un esempio classico, più adatto a questioni che generano differenze di
convinzioni e di comportamenti ecclesiali, e cioè tali da far dividere, a
volte, le comunità. Lo introduco soltanto come esempio per rendere l'idea, non
perché questa sia per forza la convinzione di Michele, visto che non ne ha
parlato. La parte più massimalista
(o darbista) delle Assemblee (e non solo loro), si basano sul «si tacciano le
donne nelle assemblee» (1 Cor 14,34) per non far pregare le donne.
Nell’ermeneutica vige la regola che non bisogna interpretare un brano chiaro
mediante uno oscuro. Eppure è ciò che si fa in tali Assemblee: sebbene esso sia
un brano oscuro e perciò molto controverso (si interpreta al riguardo il verbo
greco lalein p.es. come chiacchierare, parlare in lingue, interpretare le
altrui profezie, pregare), esso viene usato per
sterilizzare e vanificare un brano molto chiaro: «Ogni uomo che prega o
proclama e ha [qualcosa] sul capo, disonora il suo capo. Ogni donna però che
prega o proclama a capo scoperto, disonora il suo capo; infatti lei è la stessa
cosa come la rasata» (1 Cor 11,4s; cfr. 14,3).
Per
l’approfondimento
di «profetare» nel senso di «proclamare in modo
estemporaneo e ispirato», diverso da insegnare, si vedano i seguenti
articoli: ►
Profeti nel Nuovo Testamento;
►
Profeti del nuovo patto; ►
Profezia e profetare nel NT]
Non voglio iniziare una controversia su questo tema,
visto che è solo un esempio e visto che è un argomento, che abbiamo già
dibattuto altrove in questo sito. [►
Profetare significa insegnare?
Il ruolo della donna nel culto; ►
Il ruolo della donna nel culto? Parliamone. Per l’approfondimento
rimando in Nicola Martella,
Generi e ruoli 2
(Punto°A°Croce, Roma 1996), agli articoli: «La donna in 1 Corinzi 11», pp. 9-27;
«La donna in 1 Corinzi 14», pp. 28-41.
Per l’approfondimento dell’abuso del concetto «biblico», si veda Nicola
Martella (a cura di), «Il bianco, il nero e
il grigio»,
Uniti nella verità, come affrontare le
diversità (Punto°A°Croce, Roma 2001), pp. 82-91.
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Calici_bicchier_cfr_Avv.htm
20-10-2009; Aggiornamento: 27-11-2009 |