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1.
2 Tessalonicesi 2,3
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2.
Matteo 12,32
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3.
1 Giovanni 5,16 |
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lemma desiderato per raggiungere la voce corrispondente
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1. 2
TESSALONICESI 2,3:«Nessuno
vi inganni in alcun modo; poiché quel giorno non verrà se prima non sia venuta
l’apostasia».
■ Tesi pro perdita della salvezza: L’apostasia non è
l’abbandono della fede di chi non la ha mai avuta, ma di chi è stato
precedentemente un credente. {Stefano Ferrero}
■ Osservazioni e obiezioni: L’apostasia è un concetto
troppo generale per limitarlo ai soli credenti e per tirarlo in ballo per la
salvezza. Qualunque dizionario di greco mostra che apostasía
significa genericamente «distanza, defezione, ribellione, rivolta», dal
verbo
afístēmi «allontano, disgiungo, separo, spingo alla dissensione,
rimuovo, respingo, rinuncio». Ciò che nel verso in esame sarà l’apostasia,
sarà connesso con «l’uomo del peccato», che facendosi avversario di Dio,
dichiarerà se stesso Dio e dissacrerà il tempio. Chiaramente chi pensa così
e chi lo seguirà, non sentirà il bisogno di riconoscere Dio e di cercare la
sua salvezza, anzi saranno marchiati col «marchio della bestia» (Ap 13,17;
14,9.11; 19,20) e guerreggeranno contro i santi (cfr. Ap 17,14), che non
avevano preso tale marchio (Ap 20,4). Sarà tale «empio» a portare
l’apostasia, poiché agirà in lui Satana, che lo potenzierà a compiere «ogni
specie di opere potenti, di segni e di prodigi bugiardi e con ogni sorta
d’inganno d’iniquità a danno di quelli
che periscono perché non hanno aperto il cuore all’amore della verità per
esser salvati» (vv. 9s). È chiaro che tali non-convertiti ed
empi, credendo alla menzogna, non crederanno alla verità ma si compiaceranno
nell’iniquità (vv. 11s). L’apostasia è quindi genericamente l’allontanamento
degli uomini dalla verità.
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2. MATTEO
12,32
■ Tesi pro perdita della salvezza: Gesù chiama questo
peccato la «bestemmia contro lo Spirito Santo»
(Mt 12,32) l’opporsi tenacemente all’azione dello Spirito (At 7,51)
oltraggiando in questo modo lo «Spirito della
Grazia» (Eb 10,29) che convince di peccato i non-credenti oppure i
credenti che abbandonano la fede (cfr. Gv 16,8; Gn 6,3). {Stefano Ferrero}
■ Osservazioni e obiezioni: La «versettologia» tende a
isolare i singoli testi dal loro contesto letterario naturale, mettendoli
poi in una lunga lista e pensando così di poter convincere. Inoltre, li
separa dal loro contesto storico e culturale, mettendoli in un periodo senza
tempo e senza mutamenti e ignorando (e dando da intendere) che esiste una
rivelazione progressiva. Qui troviamo un caso tipico. A differenza di ogni
altro peccato, Gesù valutò la «bestemmia dello Spirito» (così in greco) come
imperdonabile. Qui la chiesa ancora non c’era, ma solo il giudaismo. I
Giudei attribuivano i segni e i prodigi messianici, specialmente la cacciata
dei demoni, non «per l’aiuto dello Spirito di Dio» (v. 28), ma «per
l’aiuto di Beelzebub» (vv. 24.27). Rifiutando essi la testimonianza che
lo Spirito di Dio dava della messianicità di Gesù e perciò del fatto che «il
regno di Dio è pervenuto fino a voi» (v. 28), essi peccavano contro lo
Spirito testimoniante e si mettevano praticamente fuori della salvezza. Non
accettando Gesù come il Messia-Re promesso, rifiutavano così il regno di Dio
(Mt 21,43). Così Gesù mostrò la natura empia dell’albero e dell’uomo
malvagio, ossia dei Farisei che egli chiamò «razza di vipere» (vv. 33ss).
Come si vede, tutto ciò non ha nulla a che fare con la
presunta perdita della salvezza dei credenti del nuovo patto, poiché esso non
era stato ancora inaugurato. Per tale peccato d’incredulità non c’è «remissione
in eterno», poiché si è «reo d’un peccato eterno» (Mc 3,29), avendo rifiutato
Gesù come Messia, quindi come Salvatore e Signore. Era il peccato di
rinnegamento di Gesù quale Messia da parte dei Giudei, a cui lo Spirito dava
testimonianza (Lc 12,8ss), probabilmente per evitare di essere osteggiati dagli
altri Giudei (At 18,17), di essere espulsi dalla sinagoga d’appartenenza (Gv
16,2) e di essere condannati, puniti pesantemente e anche uccisi dai tribunali
giudaici e dal Sinedrio (vv. 11s; Mt 10,17; Mc 23,34; At 9,2; 22,19; 26,11). Con
l’inizio della chiesa, questo peccato imperdonabile continuò a essere
l’incredulità dei Giudei verso la messianicità di Gesù. In At 7,51 Stefano
rinfacciò ai suoi compatrioti e correligionari proprio tale resistenza alla
testimonianza dello Spirito di Dio, poiché i loro cuori erano incirconcisi,
ossia irredenti. Di Eb 10,29 abbiamo già parlato e rappresenta lo stesso
atteggiamento di oltraggio degli Ebrei in senso lato verso lo «Spirito
della grazia»: è l’incredulità quale peccato volontario (v. 26). Il giorno
in cui i Giudei guarderanno in massa a Colui che essi hanno trafitto, è ancora
futuro (Zc 12,10; Ap 1,7). In Gv 16,8 Gesù parlò del ministero di convincimento
da parte dello Spirito verso il «mondo», non verso i credenti, poiché si tratta
del peccato di incredulità riguardo a Gesù quale Messia (v. 9). Gn 6,3 qui non
c’entra proprio nulla col tema della presunta perdita della salvezza.
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3. 1
GIOVANNI 5,16
■ Tesi pro perdita della salvezza: Giovanni lo chiama il «peccato
che
conduce alla morte» (1 Gv 5,16) perché a differenza di
tutti gli altri non può essere perdonato perché chi apostata dalla fede nel
sacrificio di Gesù, non beneficia più del perdono che c’è nella Croce. Ma se
costoro si ravvedono e rimettono fede e fiducia nel Salvatore possono venire
anch’essi nuovamente perdonati: «Tutto quello
che il Padre mi dà verrà a me; e
colui che viene a me, io non lo caccerò fuori»(Gv 6,37).
{Stefano Ferrero}
■ Osservazioni e obiezioni: Ecco un altro brano che i
seguaci della «versettologia» tolgono dal contesto per riempirlo a loro
piacimento. Sono stati scritti fiumi d’inchiostro per chiarire questo brano
oscuro e controverso, ma qui viene semplificato a proprio consumo! Una
regole dell’ermeneutica recita: «Non si deve usare un brano oscuro per
spiegare un brano chiaro o per esemplificare una dottrina». Ma per i seguaci
della «versettologia» tutto fa brodo.
Per prima cosa traduciamo letteralmente questo brano: «Se
uno vede il suo fratello peccare, un peccato non a morte, pregherà, ed Egli gli
darà la vita: a coloro che non peccano a morte. C’è un peccato a morte; non è in
riferimento a quello che dico di supplicare». Il v. 17 recita: «Ogni
iniquità è peccato; e c’è un peccato non a morte» (alcuni antichi
manoscritti hanno qui: «e c’è un peccato a morte»).
Perciò prendiamo un brano chiaro per illuminare quello
oscuro. L’unico luogo dove questa espressione compare ancora è Rm 6,16, dove
sono contrapposte due scelte di vita e di fede agli antipodi: il «peccato che
porta alla morte» e «l’ubbidienza che porta alla giustizia». La prima opzione è
il rifiuto della grazia, cosa che lascia nello stato di servi del peccato (v.
17a). Ciò che contrasta visibilmente con la via che porta alla giustizia della
fede, ubbidendo all’insegnamento apostolico relativo all’Evangelo (v. 17b).
Infatti coloro che sono stati «liberati dal peccato», sono divenuti «servi della
giustizia» (v. 18), cosa che precedentemente non era così (v. 20); ma fatti ora
«servi a Dio, voi avete per frutto la vostra santificazione, e per fine la
vita eterna» (v. 22). Al salario di morte del peccato sta in contrasto il
dono di vita eterna che Dio dà in Cristo Gesù (v. 23), proprio come al «peccato
che porta alla morte» è contrapposta «l’ubbidienza che porta alla giustizia».
Per il connubio peccato/morte in contrasto con grazia/giustizia (o vita
[eterna]) cfr. Rm 5,21; 6,23 (dono = charisma da charis «grazia»);
8,2.
Andando a 1 Gv 5,16s, qui ci sono molti problemi da
risolvere. Per prima cosa bisogna chiarire chi è «suo fratello». Col
nostro «evangelichese» penseremmo subito a credenti. Ma nell’antichità poteva
indicare generalmente il prossimo, il connazionale o il correligionario (p.es.
un altro Giudeo). «Fratello» poteva essere sinonimo di «prossimo» (Lv 19,17;
25,14; Gr 34,17) o apposizione (Dt 15,2). L’osmosi fra giudaismo storico e
giudaismo messianico faceva sì che i dignitari giudaici del cristianesimo si
rivolgessero al resto dei Giudei con l’appellativo: «Fratelli!» (At 7,2 e padri;
23,1.5; 28,17).
Quanto al «peccato [non] a morte», questa
espressione era usata concretamente per la morte fisica. Per evitare che gli
Israeliti si accostassero in stato d’impurità alla tenda dell’incontro,
caricandosi così d’un «peccato che li trarrebbe a morte», Dio istituì i
Leviti (Nu 18,22). Anche altrove si intendeva un peccato che era degno di morte
capitale per chi lo commetteva, non per i membri di tale famiglia (Dt 24,16; 2
Re 14,6).
Giovanni distinse letteralmente fra un «peccato a
morte» (v. 16) e un «peccato non a morte» (v. 17). Per il primo tipo
di peccato l’apostolo non previde l’intercessione, per il secondo sì. Per il
secondo tipo, Giovanni affermò che uno supplicherà in tal caso per il suo
prossimo, ed «Egli gli darà la vita» (v. 16a nel testo originario non c’è
«Dio», sebbene lo intenda), ma solo a coloro che «non peccano a morte».
Le possibilità sono varie riguardo al «peccato a morte». 1) Un’infrazione
che portava alla pena capitale. 2) Una trasgressione durante la quale il reo
rimaneva ucciso. 3) Eventualmente il suicidio. 4) Forse una malattia mortale
(magari quale giudizio di Dio).
Un «peccato non a morte» rendeva ancora
possibile l’intercessione. Probabilmente si trattava di una malattia non
mortale, per la quale era possibile ancora supplicare.
Può anche darsi che il «peccato non a morte» era
quello che non ancora aveva indurito il cuore, mentre il «peccato a morte»
era la decisione di rifiutare la grazia. Ma ciò è inverosimile; infatti, perché
ci sarebbe bisogno della preghiera e della supplica di un altro?
Comunque sia, qui non si parla espressamente né
di perdono, né di salvezza (o di perdita di essa), né di apostasia. Non si deve
usare un brano oscuro come «discarica abusiva» per le proprie convinzioni!
Una nota al margine. È proprio curioso che venga
citato Gv 6,37 per la propria tesi sulla perdita della salvezza e sul suo
riottenimento. Prima cosa contrasta proprio con 1 Gv 5,16s, dove viene detto che
in caso di «peccato a morte» non bisogna pregare. Seconda cosa, è un
argomento a favore della sicurezza della salvezza. Gesù rinfacciava ai Giudei di
non credere, sebbene lo avessero visto (come Messia), avendo fatto miracoli
messianici (Gv 6,36). Poi affermò che non avrebbe cacciato fuori tutto ciò che
il Padre gli avrebbe dato (v. 37). Poi ricordò la volontà di Dio: «che io
non perda nulla di tutto quel che
Egli m’ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (v. 39),
puntualizzando che si trattava di chiunque che, credendo in lui quale Figlio,
otteneva la vita eterna; verso costui Gesù prese questo impegno solenne: «Io lo
risusciterò nell’ultimo giorno» (v. 40). Questo spartiacque riguardo alla
messianicità di Gesù fra Giudei increduli e discepoli di Gesù è chiaramente
evidenziato in questo Evangelo, pieno anche di note pungenti e polemiche (cfr.
Gv 1,11ss; 8,39.44).
Infine, ricalco l’ultima frase della tesi ed, essendo
la salvezza solo per grazia mediante la fede, la riformulo così: «Non
abbandoniamo mai la fede nel Salvatore e Signore Gesù Cristo e non perderemo mai
il nostro premio» (Col 2,18s; Ap 22,12). «Se l’opera che uno ha
edificata sul fondamento sussiste,
egli ne riceverà ricompensa; se l’opera sua sarà arsa, egli ne avrà il danno; ma
egli stesso sarà salvo, però come
attraverso il fuoco» (1 Cor 3,14s).
►
Il credente può perdere la sua salvezza?
{Argentino Quintavalle} (A)
►
Credente ma non rigenerato: esperienza e dottrina {Roberta Sbodio} (A)
►
Perdita della salvezza 1
{S. Ferrero - N. Martella} (T/A)
►
Perdita della salvezza 2
{S. Ferrero - N. Martella} (T/A)
►
Perdita della salvezza 4
{AA.VV. - Nicola Martella} (T/A)
►
Si può perdere la salvezza?
{Nicola Martella} (T)
►
Sicurezza e perdita della salvezza
{Tonino Mele} (A)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/A1-Perdita_salvezza3_GeR.htm
11-2006; Aggiornamento: 30-01-2010 |