Questo articolo si trova all'apice di un cammino, iniziato già nel passato,
allorché specialmente Tonino Mele e Nicola Martella si sono confrontati con rispetto e
pacatezza con esponenti del movimento pentecostale classico, in particolar modo
con Gianni Siena e con Antonio Capasso. Ultimamente una di queste tappe è stato
l’articolo «Pentecostali
nella versione 1.0, 2.0, 3.0 e oltre? Affinità e distinzioni fra pentecostali e carismaticisti». Ad esso ha fatto
seguito il tema di discussione «Pentecostali
nella versione 1.0, 2.0, 3.0 e oltre? Parliamone», in cui
Tonino Mele aveva anticipato in sunto quanto segue nell'attuale scritto.
Facciamo notare che il grassetto
nelle citazioni è redazionale. Le note redazionali — indicate con «N.d.R.» —
sono a cura di Nicola Martella. |
1. PREMESSA: Quando qualche anno fa i media di tutto il mondo hanno sottolineato il
notevole tasso di crescita delle chiese pentecostali-carismatiche, esibendo
cifre tra i 500 e i 700 milioni di pentecostali nel mondo, paradossalmente non
hanno incontrato il favore di molti stessi pentecostali. All’immancabile
«ottimismo d’alcuni personaggi del mondo pentecostale, molto favorevoli al mondo
carismatico», hanno fatto da contrappeso quelle più pessimistiche d’esponenti
pentecostali, i quali hanno affermato che «ragioni d’ordine statistico non
possono avere la priorità su quelle teologiche» e non ci stanno all’idea, che
vuol «considerare il movimento pentecostale-carismatico un unico movimento».
Francesco Toppi, presidente delle ADI italiane per molti anni e autore di questa
presa di posizione, ha anche aggiunto che bisogna fare dei «distinguo»
d’ordine «teologico» tra gli uni e gli altri.[1]
In sintonia con questo
tentativo dei «pentecostali classici» di prendere le distanze dai carismatici di
seconda e terza generazione, c’è anche il disconoscimento dell’espressione
«ondate dello Spirito», che ormai è entrata nel gergo comune degli storici,
dei sociologi e degli studiosi in genere, per definire e descrivere tutto il
fenomeno pentecostale del 20° secolo.
Un esempio di critica di tale espressione la esprime lo stesso Toppi, in questo
modo: «Questa definizione delle “ondate”, seppur molto suggestiva, ci sembra
però poco corrispondente alla realtà delle chiese cristiane fondate
sull’attualità dell’Evangelo. Non si tratta d’una manifestazione intensa e
inaspettata di fervore emotivo, proprio come “un’ondata” che passa, ma
dell’esaudimento divino alle incessanti preghiere dei credenti che desiderano
vedere la potenza di Dio manifestata...». In realtà, dietro il disconoscimento
di quest’espressione c’è il legame di causalità, che essa sottintende, tra le
cosiddette «tre ondate dello Spirito» e che, in certo qual modo, indebolisce,
secondo Toppi, «la nostra definita difesa dell’eredità di fede e d’esperienza
dell’originale risveglio pentecostale degli inizi del secolo».[3]
E non si può negare il fatto
che la «seconda» e la «terza ondata» hanno messo in campo una serie di
deviazioni teologiche e dottrinali, rispetto al pentecostalismo iniziale e
classico, da considerare più che giustificata questa reazione di chi non ci sta
a essere posto nello stesso calderone. Riprendendo le parole d’un altro pastore
pentecostale, Toppi definisce giustamente questo movimento come segue: «È questo
neopentecostalismo delle “ondate successive”, compreso il movimento carismatico,
per usare una terminologia comune a molti sociologi e teologi moderni, che non è
interessato alla “definizione”, alla “tesi”, alla
“dottrina”, al “libro”, al “concetto”, in quanto attribuisce
primaria importanza alla “descrizione”, alla
“danza”, al “canto”, alla “parabola” e al
“banchetto”».[4]
Tuttavia, pur simpatizzando
con questa strenua difesa della propria identità, a cui va tutta la nostra stima
e la nostra ammirazione, dobbiamo in pari tempo affermare che non ci convince
del tutto il tentativo di disconoscere quel legame di causalità che esiste
tra i pentecostali classici e i neopentecostali. Ammesso
che una chiara distinzione esiste tra «pentecostali classici» e carismatici
della «seconda» e «terza ondata», non è pacifico dire che non ci siano
analogie, anche con valore di causalità, tra gli uni e gli altri. Qui di
seguito tenteremo d’indagare se le evidenti differenze e analogie tra
pentecostali classici e carismatici siano tali da annullare o giustificare un
nesso, oltre che cronologico, anche causale. Noi sosteniamo che le analogie ci
siano!
2. SOPPESANDO LE DIFFERENZE:
Il pastore valdese Eugenio Stretti, studioso
«esterno» del movimento pentecostale e autore d’un pregevole libro sulla loro
storia italiana[5],
s’interroga a un certo punto (pp. 76-78) sulle differenze tra pentecostali e
carismatici. Intanto è utile osservare che, in questo libro, lo Stretti fa la
storia delle ADI italiane, che sono solo una componente di tutto il
pentecostalismo classico. Comunque, egli parla di «differenza di fondo» tra i
due movimenti, critica «la tendenza ad associare i due movimenti», che «è tipica
della riflessione sociologica e teologica nordamericana», ed esprime in modo
lapidario, ma chiaro la sua tesi, secondo cui: «I linguaggi, paiono simili, ma
la sostanza è diversa». E per sostenere questa tesi fa i seguenti due esempi.
■
1. «Con la formula:
“Gesù salva, battezza e guarisce”, i pentecostali radicano la loro testimonianza
nelle Scritture e non al di fuori d’esse. Il movimento carismatico pone
l’accento sull’esperienza del soggetto, meno sul testo biblico, fondamentale per
ogni evangelico».
■
2. «Un’altra
differenza fondamentale è costituita dalla partecipazione, da parte dei
carismatici, a iniziative di tipo interconfessionale».
Insomma, ciò che per Stretti costituisce la «diversa
sostanza» dei due movimenti è la «teologia dell’esperienza» e il carattere
ecumenico del movimento carismatico. A questo egli aggiunge anche un’altra
differenza, riprendendo in verità le tesi del pastore pentecostale Francesco
Toppi[6],
ossia se il pentecostalismo classico debba essere collocato nel terzo
protestantesimo, chiamato anche protestantesimo del Risveglio,
insieme al movimento di santità e al fondamentalismo evangelico, oppure nel
quarto protestantesimo, insieme al movimento carismatico. Questa differenza
però è ancora oggetto di discussione tra gli storici e i sociologi e
probabilmente non ha tanta rilevanza ai fini del nostro discorso.
Restano, dunque, le altre
due differenze proposte dallo Stretti. Sulla seconda, cioè sulla natura
ecumenica del movimento carismatico, non c’è molto da ridire. In effetti, anche
i «detrattori» del pentecostalismo classico, o per meglio dire, coloro che non
tacciono i paralleli tra esso e il movimento carismatico, riconoscono che
quest’ultimo ha come suo grande obiettivo: «“Unità a ogni costo»;
per raggiungerlo il movimento carismatico ha creato il seguente slogan, tipico
per loro: “I dogmi separano, l’amore unisce!”», laddove, i primi, cioè i
pentecostali, «confessano l’infallibilità delle Sacre Scritture e hanno
rifiutato, per molti decenni, la chiesa cattolica romana e l’ecumenismo».[7]
Del resto, il modo trasversale in cui il movimento carismatico è nato, prima con
«l’esperienza pentecostale» dell’anglicano Dennis Bennet, poi con
«l’esperienza pentecostale» del luterano Larry Christenson, passando
insomma di denominazione in denominazione fino a pervenire al cattolico
«Rinnovamento dello Spirito», ha favorito grandemente la natura ecumenica di
questo movimento.
Tuttavia è giusto parlare di
«diversità di fondo» e non di «identità di fondo», cioè l’esperienza
pentecostale e il suo presunto valore teologico ed escatologico, che si è
implementata in contesti diversi, subendo così le aggiunte dottrinali che
conosciamo? Se il novum del pentecostalismo è stato proprio
quest’esperienza, che li ha contraddistinti fin dall’inizio, facendo persino
passare in secondo piano, in modi più o meno marcati, la comune identità
evangelica, perché ora far leva su questa e non sulla prima, per stabilire chi
condivida con loro una «identità di fondo» e chi no? È sufficiente far leva su
queste «mutazioni» per negare che esiste un’identità di fondo che attraversa
trasversalmente tutti questi movimenti, data appunto dalla comune «esperienza
pentecostale»? È sufficiente far leva su questa natura trasversale del movimento
carismatico, con le sue tante, strane e strambe dottrine, per dire che
«l’esperienza pentecostale» da esso fatta, salvo le differenze dottrinali
susseguitesi, non sia della stessa sostanza di quella fatta dal pentecostalismo
classico? Più che parlare di «diversa sostanza» non si deve parlare invece della
«stessa sostanza», trapiantatasi su un ceppo diverso?
Quando poi lo Stretti
addebita ai carismatici e non ai pentecostali una «teologia dell’esperienza» ci
suona oltremodo strano. La «teologia dell’esperienza» nasce da una diversa
concezione del «rapporto Spirito-Parola» propria di Lutero e Calvino,
perché attribuisce alla «guida dello Spirito» e quindi all’esperienza diretta
dello Spirito, ciò che essi attribuivano all’esperienza mediata dello
Spirito, attraverso la «guida della Parola». E, guarda caso, è lo stesso Stretti
che fa una considerazione al riguardo, quando pone in relazione il
pentecostalismo con una teologia del «rapporto Spirito-Parola» contrapposta a
quella di Lutero e Calvino. Stretti dice: «Se per Lutero e Calvino la Parola è
lo strumento mediante il quale lo Spirito viene dispensato ai fedeli, tenuto —
potremmo dire — al guinzaglio dalla Parola, per il Riformatore di Zurigo Ulrico
Zwingli, è lo Spirito che suscita la fede, la Parola non la crea, la nutre
soltanto e, soprattutto le dà le parole per dire se stessa, le fornisce il
linguaggio per esprimersi».[8]
Chiaramente, il pastore
pentecostale Toppi, che presenta il libro dello Stretti, accusa il colpo e
glielo contesta, come «forse l’unica obiezione che si può muovere al presente
lavoro», ossia, secondo le parole di Toppi, il «luogo comune che attribuisce al
Movimento pentecostale italiano la volontà di prediligere la priorità dello
Spirito sulla Parola».[9]
Il Toppi però non è convincente, quando cerca di smontare questa tesi. Afferma:
«Dio Spirito non agisce in contrasto o al di sopra della sua Parola, ma permette
che emergano le verità in essa contenute».[10]
Cosa vuol dire che «permette che emergano le verità in essa contenute»?
Vuol dire che il pentecostalismo è il frutto d’un intervento speciale dello
Spirito, il quale ha fatto «emergere» nel 20° secolo delle verità «contenute»
nella Parola? Se così fosse, questo pone ulteriori e imbarazzanti interrogativi.
Perché lo Spirito ha nascosto per 20 secoli, anche alla sua chiesa fedele, delle
verità importanti per la sua vita spirituale? Che senso ha parlare ancora di
«rivelazione» scritta, se poi la Bibbia è un libro misterioso, che abbisogna
d’interventi speciali ed escatologici dello Spirito per essere svelato? Se la
Bibbia non detiene, in ogni tempo, un’evidenza facilmente verificabile,
da parte di chi ha i giusti requisiti spirituali, morali e intellettuali, chi
può più porre un freno all’arbitrio di chi declama l’ultimo e più recente
intervento dello Spirito?
Su che base possiamo verificarlo se è lo Spirito che fa «emergere» quelle verità
altrimenti nascoste? Chi può più contestare che la seconda, la terza e la quarta
ondata non siano interventi dello Spirito, che hanno fatto «emergere» nuove
verità «contenute nella Parola»? Non è questo il cuore d’una teologia
dell’esperienza e d’un approccio soggettivo alla Scrittura?
Questa è una teologia, per
la quale il canone e il criterio della fede non sono più la Scrittura con le
evidenze che le sono proprie, ma la presunta esperienza dello Spirito che fa
«emergere» verità non meglio precisate. E questo poi si riflette nel momento in
cui bisogna «discernere l’esperienza» stessa dello Spirito. Una «teologia
dell’esperienza» ci proietta in una «esperienza senza teologia», cioè
un’esperienza dello Spirito non verificata né verificabile. Persino un
pentecostale «collaudato» come Carmine Napolitano, che ha «alle spalle una
“tradizione” pentecostale, familiare ed ecclesiale, plurigenerazionale», ha
riconosciuto che «la valenza pneumo-carismatica della concezione pentecostale
conduce direttamente al
problema ermeneutico non solo come questione relativa all’interpretazione
dei testi biblici, ma anche come questione relativa al discernimento
dell’attività carismatica in quanto funzione dello Spirito Santo. In sostanza il
problema ermeneutico che pone il vissuto pentecostale non è solo a livello
teorico e formale, ma fenomenologico ed esistenziale... ponendo il problema del
rapporto Spirito-Scrittura, Spirito-Parola, Spirito-Individuo, Spirito-Chiesa, e
così via. In questa prospettiva viene meno quasi del tutto il caposaldo del
fondamentalismo basato su un’oggettività della conoscenza di fede... il vissuto
pentecostale manca di quella necessaria verifica storica e teologica».[12]
Ed è per questo che nel documento «Valdesi, Metodisti e Pentecostali in
dialogo», non si è avuta nessuna remora ad affermare: «Lo Spirito trasforma
la lettera biblica in Parola di Dio».[13]
Anche questa «differenza» è
in realtà la «stessa sostanza» che si è storicamente affermata con il
pentecostalismo e si è poi innestata in un ceppo diverso e tuttavia compatibile,
un ceppo che, per sua natura presentava in sé sostanze diverse e che ha
dato luogo ai «pentecostalismi» di seconda, terza e forse quarta generazione. Ed
è proprio quell’approccio soggettivo ed esperienziale alla Scrittura, inaugurato
dal pentecostalismo classico, che non ha saputo limitare l’inarrestabile
avanzata delle altre «ondate».
Avendo così esaurito la
scorta delle «differenze sostanziali» proposte dallo Stretti, tra pentecostali e
carismatici, e avendo notato una certa loro inconsistenza, ci si chiede: quanto
possono valere queste differenze a smontare la tesi, secondo cui esiste un nesso
causale fra questi due movimenti, suffragato com’è da forti paralleli? Abbiamo
già rilevato che tali differenze possono essere spiegate con la natura
trasversale del movimento carismatico, il che fa pensare a una degenerazione
dovuta ai diversi apporti, con cui è nato. Queste differenze dunque non sono
tali da poter dimostrare che tale nesso causale non esista, tanto più se si
prova che la stessa esperienza pentecostale ha poi fecondato l’esperienza
carismatica. Per intenderci, ciò che qui fa la differenza, non è l’esperienza
pentecostale o carismatica in sé, ma il diverso contesto in cui questa è
attecchita. È plausibile dire dunque che il pentecostalismo originario ha
generato il movimento carismatico, di cui fanno fede le stesse analoghe
manifestazioni, con una sola vera differenza che spiega tutte le altre: il
grembo, ossia il contesto in cui il movimento carismatico è nato era molto più
diversificato, tanto da annoverare persino influssi di tipo esoterico. Questo
ragionamento in certo qual modo deresponsabilizza il pentecostalismo classico,
ma allo stesso tempo dà anche da pensare sulla genuinità dello stesso, perché
s’impone il seguente interrogativo: com’è possibile che le stesse
«manifestazioni» possano avvenire in contesi così diversi e opposti tra
loro?
3. SOPPESANDO LE ANALOGIE:
In una breve ricerca da me condotta su autori, che hanno già studiato il
fenomeno pentecostale e carismatico, è stato interessante rilevare come tutti,
di principio, riconoscono la differenza tra questi due movimenti, ribadendo
soprattutto la natura trasversale del secondo. Tuttavia, poi, nell’atto di
trattare le varie dottrine del movimento carismatico o della «terza
ondata», non ne parlano come di dottrine «piovute dal cielo», ma le pongono in
relazione con i «precedenti» dottrinali del pentecostalismo classico.
In via generale, si possono
citare i seguenti studiosi. C’è chi dice che «il movimento carismatico» è «dottrinalmente
e storicamente legato al Pentecostalismo classico», anche se «è rimasto in
gran parte all’interno degli organi della chiesa storica».[14]
C’è chi dice addirittura: «Non c’è quasi nessuna differenza
riguardante le dottrine fra questo movimento [carismatico] e quello
pentecostale. Tuttavia sono sopraggiunti alcuni nuovi insegnamenti e pratiche
che fino a poco tempo fa non si evidenziavano nel movimento pentecostale... le “tre
ondate” non possono essere delimitate in modo netto. Molti uomini, noti come
esponenti della “terza ondata”, sono contemporaneamente pentecostali e
carismatici. Inoltre i tre movimenti collaborano generalmente o
s’assorbono a vicenda».[15]
C’è chi usa un linguaggio abbastanza interessante per descrive il parallelo che
esiste tra pentecostali e carismatici: «I nuovi fenomeni “entusiastici” si sono
associati a quelli più classici del pentecostalismo... Ecco alcune
caratteristiche di questo movimento, in qualche modo neopentecostale... La
reciproca compenetrazione fra movimento pentecostale tradizionale e
movimento carismatico può far parlare quasi indifferentemente di movimento
neopentecostale o
neocarismatico... Nel pentecostalismo, prima, e nel carismaticismo,
poi, è stato solitamente insegnato…».[16]
Cito infine chi dice che «cristianesimo carismatico o pentecostale... i due
termini non coincidono ma sono sinonimi e descrivono fenomeni affini».[17]
È evidente che in tutto
questo c’è materia per scrivere un libro e non è certo questa la sede per
poterlo fare, per cui, mi limito a indicare due elementi fondanti che
hanno avuto inizio col pentecostalismo classico e tendono a ripetersi negli
altri movimenti:
■
1. L’elemento escatologico, ossia l’idea
d’essere il prodotto d’un intervento speciale di Dio, previsto per gli ultimi
tempi.
■
2. L’elemento dottrinale, ossia quel nucleo di
«verità» che stanno alla base del movimento pentecostale-carismatico.
Questi due elementi sono strettamente connessi, perché
l’uno inquadra il fatto escatologico, su cui si fonda il movimento
pentecostale-carismatico, cioè «l’esperienza pentecostale» di Azusa Street e i
suoi sviluppi, considerati una nuova «effusione dello Spirito»; l’altro tenta
invece di fornire la base biblica e teologica di questo fenomeno. Mentre
l’elemento escatologico tenta di mostrare come sia possibile e plausibile
l’esperienza pentecostale del 20° secolo, l’elemento dottrinale si configura
come un tentativo di renderla normativa e necessaria. Malgrado le differenze che
si possono riscontrare in quello, che Toppi ha definito «l’arcipelago
pentecostale», le quali si possono spiegare con i diversi contesti, in cui il
movimento pentecostale-carismatico si è sviluppato, esiste un nucleo
esperienziale e teologico, che sta alla base di tutta «l’esperienza
pentecostale» del tempo attuale e paradossalmente è persino usato dagli
apologeti pentecostali-carismatici, come vedremo tra breve.
In merito all’elemento
escatologico
è risaputo che tutti questi movimenti si riallacciano alla profezia di Gioele
riportata poi negli Atti degli Apostoli. Qualcuno ha parlato dei «gruppi
carismatici e pentecostali, i quali affermano che il cristianesimo moderno può
riscoprire e riappropriarsi della potenza dello Spirito Santo, descritta nel
Nuovo Testamento e in particolare nel libro degli Atti degli Apostoli».[18]
Non è un mistero che il movimento pentecostale-carismatico si consideri un
«adempimento» della profezia di Gioele, una «seconda pioggia» del 20°
secolo, che corrisponde alla «prima pioggia» del 1° secolo. Ed una volta che è
passato questo discorso, non si capisce perché non debba esserci anche una
«terza pioggia» e una «quarta pioggia», come sostengono i carismatici, e come
negano loro i pentecostali, in verità con un po’ di presunzione. Ma non è questo
il punto. Il punto è che tutti si ritengono il prodotto di precise profezie
fatte sul proprio conto e che considerano la «propria» effusione dello Spirito
Santo. In merito, Seibel ha potuto dire: «Tutti i movimenti di questo tipo, sia
il movimento pentecostale di Los Angeles del 1906, che il movimento carismatico
iniziato intorno al 1960, o il movimento carismatico cattolico iniziato nel
1967, i primi gruppi sono sorti sulla base di profezie che iniziavano con
le parole: “Così dice il Signore”».[19]
È l’idea d’essere i protagonisti d’una nuova effusione dello Spirito, prevista
dalle Scritture, che li ha differenziati da tutti gli altri sporadici fenomeni
delle lingue occorsi nella storia della chiesa. Questa «intuizione» ha
consentito loro di compattarsi anche fuori del cristianesimo storico e diventare
movimento a sé. Ed è proprio questa convinzione, che con maggior forza viene
evidenziata dagli esponenti della «terza ondata».
Questo elemento è così
importante che nessuno vi vuol rinunziare e per questo si ripete come una
«costante» e con sempre maggior forza in ogni nuova «ondata». Il motivo è presto
detto. Questi movimenti rappresentano un elemento di forte discontinuità
storica, in seno alla chiesa. Forse non a caso il primo capitolo del libro di
John Sherril «Essi parlano in altre lingue», sulla storia del movimento
pentecostale e carismatico, si intitola «Il salto». Il movimento
pentecostale-carismatico rappresenta «un salto» nella storia della chiesa
di ben 20 secoli, dalla «prima» alla «seconda pioggia». E gli esponenti stessi
del movimento pentecostale hanno insistito spesso nel dire che le loro radici
storiche sono nella Pentecoste e non nel cristianesimo storico. In più occasioni
hanno preso volutamente le distanze dalla Riforma protestante,
considerandosi a loro volta dei riformatori e dei rivoluzionari. Nel libro di
Sherrill si può leggere: «Il movimento pentecostale, con la sua enfasi sullo
Spirito Santo, è più che un solo altro risveglio. È una rivoluzione dei nostri
giorni... paragonabile in importanza, al sorgere dell’originale Chiesa
Apostolica e alla Riforma Protestante».[20]
In uno scritto del pastore pentecostale Roberto Bracco dal titolo significativo
«Non siamo Protestanti» s’afferma quanto segue: «Il “Risveglio Pentecostale” non
trae la propria origine dalla Riforma promossa da Martin Lutero... ma da
quel soffio misterioso del vento di Dio che ha dato vita attraverso i secoli a
una lunga catena di movimenti evangelici che nella semplicità apostolica hanno
saputo far rivivere nel proprio seno... i carismi dello Spirito». Meraviglia
dunque che Toppi ne faccia una questione, se collocare il movimento pentecostale
nel «terzo» o nel «quarto protestantesimo» e che si voglia fare fronte comune
col cristianesimo storico, contro i carismatici, disconoscendo che anch’essi,
come già hanno fatto i pentecostali della prima ora, hanno diritto a rivendicare
la loro propria «pioggia».
Comunque sia, questo «salto»
di 20 secoli nella storia della chiesa andava non solo affermato, ma anche
spiegato e, in certo qual modo, «giustificato». Cosa che gli apologeti del
movimento hanno cercato di fare, sia in ambito pentecostale, che carismatico.
Bisognava cioè spiegare come mai lo Spirito Santo abbia saltato 20 secoli
di storia della chiesa, per rivelarsi nel modo, in cui si ritiene faccia oggi in
questi movimenti. E qui bisogna dar conto dei due principali modi con cui questo
movimento ha risposto a questa legittima questione. Il primo, forse quello più
immediato, è stato d’addebitare alla «disubbidienza» o alla semplice «non
ricerca» delle manifestazioni dello Spirito, da parte del cristianesimo storico,
per 2000 anni, il che, come c’era da aspettarsi, ha creato un muro-contro muro,
frutto non solo della reazione delle denominazioni storiche, ma anche d’un
atteggiamento un tantino «settario», mostrato da certe frange del
pentecostalismo storico. Il secondo, forse frutto d’una riflessione teologica
più matura, è stato quello di non additare più in modo presuntuoso e pretestuoso
la presunta «infedeltà» della chiesa nei suoi precedenti 20 secoli di storia, ma
di considerare la nuova effusione dello Spirito, come l’adempiersi d’un
preciso disegno escatologico di Dio. L’elemento escatologico è diventato
così fondante di tutta l’esperienza pentecostale del 20° secolo e la risposta
più coerente che i teologi del movimento hanno potuto produrre contro il rilievo
più forte fatto loro dal cristianesimo storico, secondo cui, certe
manifestazioni erano «cessate» per sempre. Sta di fatto che questo elemento
fondante ha permesso alla «seconda ondata» d’implementare «l’esperienza
pentecostale» in ambienti diversi, senza doverne uscire fuori. Ma è soprattutto
la «terza ondata» che fa leva su questo elemento, come anche afferma il
Martella: «Alla base di questo movimento c’è il bisogno che le predizioni di
Gioele s’adempiano di nuovo, di continuo».[21]
In merito all’elemento
dottrinale, sarebbe utile esaminare le dottrine una per una ed
evidenziarne l’evoluzione da un movimento all’altro. Ma rimando a quanto scritto
da altri autori. C’è però un ceppo dottrinale che si ripete puntualmente in
queste «diverse ondate» e che è strettamente collegato all’elemento escatologico
già considerato. Questo ceppo dottrinale lo esprime molto bene John MacArthur:
«Alla base della dottrina pentecostale/carismatica, perciò troviamo tre
elementi che la riassumono tutta: un battesimo dello Spirito successivo
alla nuova nascita, reso
evidente di solito, perché si parla in lingue, e ottenuto con il
requisito d’una ricerca sincera».[22]
Queste tre dottrine, battesimo dello Spirito Santo successivo alla nuova
nascita, il segno del parlare in lingue e la ricerca di queste manifestazioni
sono in una tale logica concatenazione e successione, che a buon diritto hanno
assunto il valore d’elemento fondante di tutta l’esperienza
pentecostale-carismatica.
Altre volte, nella storia
della chiesa si sono avute manifestazioni come il parlare in lingue, ma mai
hanno avuto un retroterra dottrinale e teologico come lo hanno avuto col
movimento pentecostale. Anche lo Stretti lega «il novum nella storia del
protestantesimo», che questo movimento ha rappresentato, con la «logica
successione» delle sue dottrine, giungendo a dire che «caratterizzarono il
pentecostalismo nascente e lo differenziarono da movimenti analoghi sorti nel
corso della storia millenaria del cristianesimo».[23]
E se talvolta abbiamo sottovalutato l’elemento dottrinale e teologico, che ha
dato origine al movimento pentecostale, faremo bene a tener presente le parole
che dice Toppi: «Il risveglio pentecostale, pur sottolineando l’importanza
dell’esperienza con Dio, nasce, però, dalla ricerca biblica, quindi sorge prima
teologicamente, e poi sperimentalmente, riaffermando l’attualità del battesimo
dello Spirito Santo, come era stato ricevuto il giorno della Pentecoste».[24]
Anche questo dunque è un
elemento irrinunciabile per ognuno di quei movimenti, che a differenza del
cristianesimo storico, asseriscono il valore attuale delle particolari
manifestazioni dello Spirito, presenti nel libro degli Atti. Senza
l’affermazione vigorosa di questo punto da parte del movimento pentecostale
storico, le «ondate» successive avrebbero rischiato d’essere soltanto delle
«comparse» nel panorama cristiano, come la storia del cristianesimo ci ha
insegnato.
Ecco perché si può affermare
che il pentecostalismo classico è «premessa» delle altre «ondate», senza per
questo «voler rappresentare il movimento
pentecostale come il “padre” di tutte le eresie dei movimenti derivati»:
esso ha fornito ai posteri di propria «somiglianza» la base escatologica e
dottrinale per affermare, in modo stabile, la loro esperienza pentecostale.
Senza questa «eredità», probabilmente, sarebbero
rimasti dei fatti isolati e temporanei, come solitamente è successo nella storia
di questi fenomeni (Montanisti, profeti delle Cevenne, ecc.).
Che poi abbiano incamerato una serie di deviazioni dal pentecostalismo
originario, questa è un’altra storia. Le
eresie sopraggiunte andrebbero meglio spiegate con i diversi contesti, in
cui l’esperienza pentecostale si è implementata nelle «ondate» successive, e con
i diversi apporti a cui hanno attinto, tipo l’esoterismo, la spiritualità
orientale (P. Yonggi Cho), la spiritualità cattolica (Rinnovamento dello
Spirito), ecc. Questo, come già accennato, in parte deresponsabilizza il
pentecostalismo iniziale, ma dei dubbi li fa venire, in merito a un’esperienza,
quella «pentecostale», che così facilmente s’implementa e convive con realtà
diametralmente opposte, senza poi contare gli «strani fenomeni» che si sono
riscontrati sin dall’inizio, con lo sconcerto persino di C.F. Parham, uno dei
padri del pentecostalismo. L’unico rilievo che
facciamo in proposito è dunque il seguente: com’è possibile che queste
«manifestazioni dello Spirito» possono convivere su così larga scala con tali
deviazioni dalla verità?
4. CONCLUSIONE:
Ci fa piacere che nel pentecostalismo storico
ci siano «coscienze critiche» come le ADI, che vogliono prendere le distanze
dagli «abusi» dei «nuovi pentecostalismi». Anche nelle «ondate successive»,
però, stanno venendo fuori delle «coscienze critiche» proprie; tra di
esse si può citare l’esempio di
John Bevere. E questo mi convince
che non basta più «correre ai ripari» o additare gli abusi d’un fenomeno che
tende comunque a riprodursi o essere semplicemente «coscienze critiche» degli
altri e non di se stessi. Bisogna mettere in ordine la propria casa ed essere
sufficientemente radicali.
Prendiamo atto che si è, per
troppo tempo, assolutizzato la «fenomenologia pentecostale» degli Atti,
affermando che in essa si concretizza la pienezza del Vangelo e che il
«movimento delle lingue» e il «movimento profetico» del 20° secolo ne fosse una
riedizione in chiave escatologica, senza peraltro produrre un’evidenza
scritturale incontrovertibile. Si è così relativizzato la comprensione del
Vangelo propria dell’evangelismo storico, che poneva nella croce e non
nella pentecoste il suo centro propulsore. Si è inoltre contrapposto al «sola
Scriptura» un «tota Scriptura»[25],
che allargava la base del Vangelo e di ciò, che è normativo, a particolari
transitori e descrittivi della Scrittura, chiamando in causa una nuova
comprensione degli stessi, «rivelata» a hoc dallo Spirito Santo. Sono questi
fatti che hanno gettato le basi d’un fenomeno che da subito si è manifestato
incontrollato e incontrollabile. Gli storici dicono che, Seymour, un padre del
pentecostalismo, era così disperato che chiamò in aiuto il suo maestro Parham,
il quale comunque espresse un giudizio negativo sui fenomeni di Azusa Street.[26]
Lo stesso Carmine Napolitano
dice: «In sostanza, da Azusa Street è stato ereditato un pentecostalismo
spettacolare e meraviglioso che di fatto ha tracciato una via diversa alla cui
estremità non vi è nessuna possibilità di discernere l’azione dello Spirito e
porre la giusta distinzione tra psichico e pneumatico
o tra queste dimensioni e qualcosa di più inquietante».[27]
Per correttezza bisogna dire che Napolitano addebita questa «estremità» al
«neopentecostalismo», però, ai fini della tesi in discussione, è interessante
che ne parli come di «un’eredità» del pentecostalismo
di Azusa Street, cioè del pentecostalismo storico. Ma, pur prendendo di mira i
nuovi pentecostalismi, questo studioso pentecostale non tace gli errori del
pentecostalismo storico. In uno scritto del 1999, dal titolo «Tra Pentecoste e
pentecostalesimo», dice cose estremamente interessanti per chi voglia veramente
assumere una «coscienza critica»: «Il pentecostalesimo... ha senz’altro
accentuato l’importanza della fenomenologia pneumatica (problema già
piuttosto evidente nel pentecostalesimo classico) trascurando sempre più il
necessario aggancio cristologico e cristocentrico... una cosa è l’evento di
Pentecoste a cui loro rimandano, altra cosa è il pentecostalesimo che è nato per
ridare un significato a quell’evento... L’esperienza nello Spirito, infatti, è
cosa che non si può ridurre solo alla fenomenologia pentecostale. Sono in errore
i pentecostali quando mostrano di credere che la presenza e l’opera dello
Spirito santo nella vita del credente sia dimostrata solo dalle loro esperienze
e dalla fenomenologia che le accompagna... non si possono e non si debbono
relativizzare le storture, le esagerazioni, le assolutizzazioni e l’incapacità
propositiva degli ambienti pentecostali che tante volte hanno causato
l’incomprensione d’altri anche ben intenzionati; chi scrive pensa di conoscere
abbastanza bene i limiti dell’ambiente in cui vive... Fin dalle
origini
si capiva che l’evento di Pentecoste preso come modello e punto di riferimento
era qualcosa di diverso dall’esperienza fatta dai pentecostali; che troppo
spesso un’imitazione e una semplice riproduzione d’esperienze riportate nel
libro degli Atti non erano garanzia d’autenticità... Pentecoste rappresentò un
evento straordinario nella storia della salvezza e fu fondativo per la chiesa...
Non si può credere che la fenomenologia con la quale nel racconto di Luca
vengono descritti questi eventi rappresenti in modo assoluto la sostanza degli
eventi (errore storico dei pentecostali)... In questa prospettiva i
pentecostali devono ri-orientare il senso della percezione che hanno dato
dell’esperienza nello Spirito tirandola fuori dal dottrinalismo angusto nella
quale è stata chiusa nel momento in cui è stata confinata nei limiti d’una
fenomenologia che può ben rappresentare il punto di partenza, ma certamente non
quello d’arrivo; l’esperienza di Dio che l’effusione dello Spirito permette non
può essere unica e uguale per tutti».[28]
Insomma, prendere le
distanze da ciò che è venuto dopo non basta, bisogna anche fare un passo
indietro! I «distinguo» teologici non bastano, bisogna anche assumersi le
«responsabilità» teologiche. Se si è scaduti in una «Pentecoste senza Cristo»,
come ha denunciato David Wilkerson nel 1999, è perché la ricerca spesso
ossessiva della «fenomenologia pentecostale» ha offuscato la semplice fiducia
nel Cristo crocifisso e nella potenza della croce. Dall’evento salvifico, cioè
dalla croce e dalla risurrezione, l’attenzione è stata spostata sull’effetto,
cioè la pentecoste e la sua particolare fenomenologia, nonostante il silenzio
degli apostoli, i quali invece hanno sempre posto al centro del loro
insegnamento il
Cristo crocifisso e risorto. «Il movimento sembrava minimo, ma (come accade
quando si verifica un leggero spostamento della crosta terrestre) ne è seguito
un terremoto»[29],
con «onde anomale» o tsunami!
►
Le ondate dello Spirito tra differenze e affinità? Parliamone {Nicola Martella} (T)
[1].
Francesco Toppi, «Quarto Protestantesimo?», in Cristiani oggi
(Roma, agosto 1996).
[5].
Eugenio Stretti, Il movimento pentecostale (Claudiana, Torino 1998).
[6]. F.
Toppi, op. cit., pp. 6-7.
[7].
Wolfgang Bühne, «Le seduzioni religiose più importanti ed attuali per la chiesa
(II)», in Il Cristiano (ASPE, Arezzo agosto 2003), pp. 374s.
[8]. E.
Stretti, op. cit., p.13.
[12].
Carmine Napolitano, «Cento anni di storia pentecostale», in
Fedeltà n° 242 (Lug.-Ago. 1998), p. 164.
[13].
AA.VV., Valdesi, Metodisti e Pentecostali
in dialogo
(Claudiana, Torino 2002), p. 46. N.d.R.: La distinzione fra «sacra
Scrittura» e «Parola di Dio» è tipica della «teologia esistenzialista» e della
teologia liberale. Si afferma che la Bibbia diventa «Parola di Dio» per il
credente soltanto nel momento in cui essa gli parla in modo personale. È
chiaramente una distinzione equivoca e pericolosa, che apre le porte
all’arbitrio e relativizza l’autorità della sacra Scrittura. A questo punto,
come affermano alcuni, pressoché ogni cosa, che leggo, può diventare per me
«Parola di Dio».
[14].
J.R. Williams, Elwell Evangelical Dictionary.
[15]. W.
Bühne, op. cit., p. 374.
[16]. N.
Martella, Carismosofia, pp. 5, 27, 29, 35.
[17]. P.
Ricca, Valdesi, metodisti e pentecostali in dialogo (Claudiana, Torino
2002), p. 11.
[18].
Alister E McGrath, Teologia Cristiana (Claudiana, Torino 1999), p. 139.
[19]. A.
Seibel, La chiesa sottilmente ingannata (Biblos, Verona 2001), pp. 66-67.
[20].
J. Sherrill,
op. cit., p. 31.
[21]. N.
Martella, op. cit., p. 20.
[22].
J.M. Arthur, I carismatici (Centro Biblico, Napoli 1987), p. 99.
[23]. E.
Stretti, op. cit., p. 18.
[25]. In
un intervista del 1996, riportata nel mensile «Fedeltà» n° 235 (Ott.-Nov. 1997),
p. 211, Toppi diceva: «Le chiese della Riforma protestante si sono allontanate
dal messaggio originario, non basta il “Sola scriptura”, è necessario il “Tota
scriptura”».
[26].
Carmine Napolitano, «Cento anni di storia pentecostale», in
Fedeltà n° 270 (Sett. 2001), p. 184.
[28].
Carmine Napolitano, «Cento anni di storia pentecostale», in
Fedeltà n° 252 (Sett. 1999), pp. 178-180.
[29].
R.C. Sproul, Sola fede (Passaggio, Mantova 1999), p. 167.
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A2-Ondate-SS_diff_affin_Esc.htm
09-01-2009; Aggiornamento: 24-01-2010 |