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Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (4)
9. La tesi (5)
{Argentino Quintavalle}
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Che Mt 6 debba essere spiegato alla luce di Luca 11 è un discorso preconcetto,
poiché è vero il contrario, e cioè che Luca 11 debba essere spiegato alla luce
di Mt 6, e questa è la mia opinione. Sull’argomento ho ancora da dire:
■ 1. I vocaboli greci
haplotes e
haplous hanno una vasta gamma di significati che vanno da «semplice» a
«apertura», «senza secondi fini», «rettitudine», «dirittura», «indubitabile»,
«non equivoco», «chiaro» e «bontà» (quest’ultimo in riferimento a un donatore).
Vedi Otto Bauernfeind, «haplous, haplotes», nel Dizionario Teologico
del Nuovo Testamento (ed. Gerhard Kittel; Grand Rapids: Eerdmans, 1964).
Quindi non è certo il suo significato greco che confuta la mia interpretazione.
■ 2. Non ho l’abitudine di salti mortali, specialmente
se etimologici. Il significato di poneros non me lo sono inventato, ma
l’ho preso da un ottimo dizionario, il quale aggiunge che tale significato si
trova già in Esiodo, Tucidide, nelle iscrizioni e nei papiri.
■ 3. Soprattutto aggiungo che
Dt 15,9 è un eccellente esempio dell’idioma ebraico «occhio cattivo» e Diodati
traduce: «che l’occhio tuo non sia maligno inverso il tuo fratello
bisognoso, sì che tu non gli dii nulla». Qui non ci troviamo nel
medioevo, ma ai tempi di Mosè.
Gli altri riferimenti nelle Sacre Scritture per «occhio buono / occhio cattivo»
e che dimostrano che l’idioma non è d’origine medioevale, ma biblico, sono: Pr
22,9 (occhio benigno – Diodati); Pr 23,6 (occhio maligno – Diodati); Pr 28,22
(occhio maligno - Diodati); Dt 28,56 (occhio maligno – Diodati). Questo idioma
si trova anche in Tobia 4,7-10,16: «…il tuo occhio non guardi con
malevolenza, quando fai l’elemosina». L’idioma si trova anche nella
Mishnah trattato d’Avot 5,13,19 (che riporta detti di rabbini anche precedenti a
Gesù) e in vari altri posti.
Adesso sull’argomento non ho più nulla da dire. È a dir poco incredibile non
voler riconoscere che quest’idioma è biblico e non medioevale.
Riflessione
Come si può sapere una cosa qualsiasi? Quali sono i mezzi per cui si giunge alla
conoscenza? In che modo abbiamo appreso quelle informazioni che pensiamo di
sapere?
■ L’intuizione:
Persino il bambino ha questa capacità, perché vede che il suo piangere quando ha
fame o paura produce l’effetto desiderato, cioè fa avvicinare la madre.
■ La conoscenza razionale:
È l’abilità di ragionare e di giungere a conclusioni logiche, e di stabilire
nessi logici tra un concetto e l’altro.
■ La conoscenza pratica:
Questa conoscenza si ha quando sperimentiamo la realtà direttamente e
personalmente con i nostri propri sensi: vista, udito, ecc.
■ La testimonianza:
Tutte le cose che non sperimentiamo personalmente bisogna impararle tramite le
informazioni raccolte da altri. Regoliamo la maggior parte della nostra vita in
base alla testimonianza altrui. Tutto quello che leggiamo, gran parte di ciò che
abbiamo imparato a scuola, insomma la maggior parte della nostra conoscenza
proviene dalla testimonianza altrui: i genitori, i maestri, la stampa, i
mass-media, ecc. Siamo stati salvati grazie alla testimonianza altrui.
Chi afferma di credere solo a ciò che può sperimentare personalmente, oppure ciò
che pare più ragionevole, dimentica come ha imparato tutto quello che pensa di
sapere. Non ha riflettuto sufficientemente sulla natura della propria conoscenza
e su come l’ha avuta. È debitore verso tutti quelli che gliel’hanno insegnata.
Non è bene rifiutare la testimonianza d’Israele riguardo all’idioma ebraico in
discussione, poiché significherebbe rifiutare la testimonianza d’Israele
riguardo a sé stesso e questo nessuno ha il diritto di farlo. È stata utile per
me questa discussione, perché se prima credevo che Mt 6,22 fosse un idioma
ebraico soltanto per la testimonianza d’Israele, ora ci credo ancora di più per
la conoscenza razionale.
10. Obiezioni e osservazioni (5)
{Nicola Martella}
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Il mio interlocutore scrive certamente di cose interessanti. Devo dire però che
sono rimasto alquanto deluso. Lo avevo invitato a spiegare in modo sufficiente
come mai lo stesso detto si trova in due contesti differenti (Mt 6; Lc 11) e
dovrebbe significare, secondo lui, «generoso – avaro», sebbene ciò non sia
evidente in greco, nella lingua in cui il NT fu scritto. Poiché gli autori
(Matteo e Luca) non aggiunsero altra spiegazione a tale detto, la mia tesi è
stata questa: tale detto era direttamente comprensibile ai lettori greci, senza
bisogno di risalire a un «sottotesto ebraico / aramaico» e senza il bisogno di
un «interprete giudeo» a portata di mano.
Sono rimasto deluso, perché il mio interlocutore non ha
fatto nulla per mostrare (e dimostrare) come i significati da lui postulati
«generoso – avaro) siano da ritrovare in Lc 11, visto che il contesto non parla
di soldi, ricchezze, eccetera. Lo stesso detto (proverbio, modo di dire, ecc.)
non può significare due cose differenti in due contesti diversi; è contro la
logica. Poiché i significati da lui postulati non sono evidenti in Lc 11, in Mt
6 si tratta di una dotta costruzione, che non convince.
Invece di fare ciò, il mio interlocutore è tornato a
rifare, quanto già presentato precedentemente.
■ 1. Il riferimento a Otto
Bauernfeind non dimostra nulla a favore del mio interlocutore. Anzi haplous e
haplotes mostrano che lo spettro dei significati non si può restringere a
«generoso», tanto meno quando è abbinato a «occhio».
■ 2-3. Il mio interlocutore cita ora vari brani dell’AT
(diversi dei quali per altro già introdotti da me precedentemente), prendendo ad
autorità non il testo ebraico, ma la traduzione di Diodati. Poi conclude: «Qui
non ci troviamo nel medioevo, ma ai tempi di Mosè». E aggiunge che «gli altri
riferimenti nelle Sacre Scritture per “occhio buono / occhio cattivo” […]
dimostrano che l’idioma non è d’origine medioevale, ma biblico». Questo è un
modo scorretto di interpretare le asserzioni altrui (a ciò si aggiunga che in Mt
6 e Lc 11 c’è «occhio semplice» e non «occhio buono»). Io stesso ho mostrato che
tale modo di dire ricorre nell’AT, ma ho aggiunto che è discutibile che avesse
il significato che il mio interlocutore gli attribuisce. Questa è un’altra cosa!
Ciò che afferma posteriormente il Talmud non deve per forza coincidere con ciò
che dissero Mosè e gli altri scrittori dell’AT.
Quanto ai brani, citati dal mio interlocutore, bisogna chiedersi: Qual è la vera
espressione ebraica nel singolo brano? La Settanta ha tradotto qui veramente con
«occhio semplice» e «occhio cattivo» come in Mt 6 e Lc 11? Ricorrono queste
esatte espressioni in Tobia 4,7-10,16? Se si guarderà brano per brano in ebraico
e poi in greco, si rimarrà alquanto delusi dei risultati.
■ Per
Pr 6,17; 16,30 (da lui non elencati) si
veda la mia risposta in: ►
Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (1). Ora passo all’analisi dei
brani da lui elencati.
■ Dt 15,9
recita letteralmente: «Guarda te stesso che nel cuore tuo non nasca il
cattivo pensiero: “Il settimo anno, l’anno di remissione, e vicino!” — e che la
cattiveria del tuo occhio [non sia] in tuo fratello, il povero, e tu non gli dia
nulla. Egli però griderebbe contro di te all’Eterno, e ci sarebbe del peccato in
te». L’espressione ebraica è qui werā`āh `ênekā«e
la cattiveria del tuo occhio», poiché
rā`āh è sostantivo, non aggettivo. Quindi non
ricorre letteralmente l’espressione «occhio cattivo». Qui si tratta del
fatto che, essendo l’anno della remissione alla porte, anno in cui bisognava
condonare i debiti, un Israelita per proteggere la sua proprietà decideva di non
fare un prestito al suo connazionale indigente, sapendo che avrebbe perso
comunque tale capitale. La «malvagità dell’occhio» di qualcuno verso un altro
intendeva colui che chiudeva le sue viscere verso l’indigente, rimandandolo a
vuoto.
La Settanta tradusse nella
parte, che ci interessa, così: kaì ponēreusēntai
ho ofthalmós sou tō adelfō
sou tō epideoménō «e il tuo
occhio [non] tratti male tuo fratello, il bisognoso». È verosimile che il
traduttore non avesse interpretato rā`āh come sostantivo, ma come verbo
(3a m. sg.) «pascere, pascolare, brucare interamente (quindi
divorare, distruggere)». Il verbo rā`āh nel senso di «brucare
interamente», quindi di «divorare», si trova in Ez 34,18: «Vi pare troppo
poco: voi divorate [rā`āh] questo buon pascolo e il resto del vostro pascolo voi
lo calpestare con i vostri piedi?». Questo aspetto negativo si trova anche
in Gr 6,3: ognuno «bruca interamente» (ossia divora) il suo settore durante
l’assalto alla città. In Mi 5,5 tale «brucare interamente» (divorare) avviene
con la spada. In Gr 2,16 si parla di «divorare il cranio». In Gb 20,26 ricorre:
«lo consumerà un fuoco». Secondo Gb 24,21, l’iniquo «divorava la sterile».
Partendo da questo significato negativo del verbo
rā`āh, si può tradurre il testo ebraico werā`āh `ênekā
be’aḥîka hā’ëbejön come segue: «e
il tuo occhio [non] divori tuo fratello, il povero».
Quindi, come si vede, questo brano non contiene
direttamente l’espressione
`ajin rā`ah
«occhio cattivo», e l’espressione «malvagità del tuo occhio» o «il
tuo occhio [non] divori» non può essere
usato come prova che in Mt 6,22s si intenda «essere avaro». Le prove devono
essere chiare ed evidenti e devono adattarsi contemporaneamente a Mt 6 e Lc 11.
■ Per
Dt 28,54.56 si veda la mia risposta in
«Due
tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (3)».
■ Come ho già ribadito
altrove [►
Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (3)],
in Pr 22,9
non ricorre «occhio semplice» in ebraico, ma ṭôb `ajin «buon occhio»; nel
greco della Settanta non c’è qui ofthalmós
haplous, ma ho
eleōn ptōchòn «chi compassiona il povero [=
chi ha pietà del povero]». Sembra che il mio interlocutore non prenda sul serio
ciò di cui ho già parlato altrove e ripropone gli stessi argomenti!
■ Pr 23,6
recita letteralmente: «Non mangiare il pane della malvagità dell’occhio e non
desiderare le sue prelibatezze». Anche se si traducesse «pane di chi ha
l’occhio malvagio» il brano avrebbe comunque a che fare con la bramosia, non con
l’avarizia. La Settanta ha interpretato con mē
syndeipnei andrì baskànō
«non mangiare con un uomo ammaliante (o
maliardo)»; quindi niente ofthalmós
«occhio» e niente ponērós
«cattivo».
■ Pr 28,22
recita letteralmente: «Un uomo della malvagità dell’occhio s’affretta verso
il possesso e non riconosce che gli piomba addosso la penuria». Anche qui,
sebbene si traducesse «Uomo dall’occhio malvagio», il brano avrebbe a che fare
con l’avidità, non con l’avarizia. La Settanta ha interpretato con speudei
ploutein anēr báskanos«l’uomo
ammaliante (o maliardo) s’affretta ad arricchire»; anche qui niente
ofthalmós«occhio» e niente
ponērós «cattivo».
■ Il testo menzionato di
Tobia 4,7-10,16 sarebbe troppo vasto per
poterlo controllare in greco (possibile che quella breve frase occupi 6
capitoli!?). È chiaro che il mio interlocutore non ha verificato personalmente
il testo, ma ha solo citato un altro autore.
Dopo tanto cercare, ho trovato in Tob 4,16 quanto citato dal mio interlocutore,
che proviene dalla traduzione della «Bibbia di Gerusalemme». Non entriamo in
merito sulla tale singolare dottrina giudaica dell’elemosina, che in Tobia
occupa intere pagine e secondo cui creerebbe meriti salvifici dinanzi
all’Altissimo (cfr. 4,10s). A ciò connesso ci sono strane dottrine filo-pagane,
come ad esempio: «Versa il tuo vino e deponi il tuo pane sulla tomba dei
giusti» (Tob 4,17). Si veda anche 12,9: «L’elemosina salva dalla morte e
purifica da ogni peccato»; quindi l’elemosina ha una funzione salvifica. Non
si può certamente prendere il libro di Tobia come esempio di ortodossia!
Torniamo al testo citato secondo tale traduzione: «Da’
in elemosina quanto ti sopravanza e il tuo occhio non guardi con malevolenza,
quando fai l’elemosina» (Tob 4,16). Il testo greco recita: kaì mē
fthonesátō sou ofthalmòs en tō poiei se eleēmosynēn «e il tuo occhio non
invidi [o non rifiuti] mentre fai l’elemosina». Il verbo greco fthoneō
significa «invidiare, rifiutare, negare, ricusare, ecc.».
Come si vede, nella frase
citata non ricorre direttamente ofthalmós
ponērós «occhio cattivo» per poter fare un
confronto diretto con Mt 6 e Lc 11.
Il punto della discussione
Il mio interlocutore mi ha nuovamente costretto a tirar fuori il testo ebraico,
il testo greco corrispondente della Settanta e addirittura un apocrifo. Ho
dovuto controllare brano per brano in ebraico e in greco. Alla fine di tutta
questa interessante analisi, devo constatare che non c’è nessun elemento nuovo
che abbia gettato luce, in modo risolutivo su Mt 6 quanto al detto in esame. Se
ero convinto che in Mt 6,22s non si intendesse «generoso» e «avaro», ora lo sono
ancor di più. Tutta questa analisi rafforza in me la convinzione che il lettore
ellenista capisse perfettamente il testo greco di Mt 6 e Lc 11 così com’era,
senza bisogno di risalire a un «sottotesto ebraico / aramaico» e senza il
bisogno di un ermeneuta giudaico nelle comunità gentili.
Il mio interlocutore afferma: «Adesso sull’argomento non ho più nulla da dire».
Peccato che — invece di fare una carrellata di versi che non hanno chiarito le
espressioni greche di Mt 6,22s e non hanno dimostrato le sue tesi — non abbia
mostrato in modo chiaro ed esauriente come lo stesso detto si trovi in Lc
11 e significhi la stessa cosa ipotizzata in Mt 6!
La sua riflessione generale sull’acquisizione del sapere è certamente
interessante. Essa potrebbe stare in un tema a sé stante. Per quanto riguarda il
corrente tema di discussione ciò non aggiunge nulla di nuovo come elemento
probatorio. Nessuno ha detto che ha imparato tutto da solo, senza aver avuto
bisogno di mediatori e maestri.
E poi, tutto questo discorso per dire: «Non è bene rifiutare la testimonianza
d’Israele riguardo l’idioma ebraico in discussione»? Stana logica di mostrare e
dimostrare quanto si afferma. Come ho mostrato negli altri contributi, «Israele»
(quindi la sua cultura) e gli «idiomi ebraici» (a parte se questi ultimi ci sono
veramente o meno nel testo ebraico dell’AT in ogni caso specifico!) non sono
dati fissi e immutabili. Una cultura, i modo di dire, gli idiomi e quant’altro
mutano nel tempo. Ne abbiamo parlato a sufficienza altrove. Un modo di dire,
nato in un certo contesto, non deve valere per forza in altri contesti. Un
idioma nato in una certa fase storica, non deve essere esistito con tale
significato fin dai tempi d’Abramo o di Mosè! Dipende sempre caso per caso.
Nessuno rifiuta la «testimonianza d’Israele riguardo a sé stesso» (nel bene e
nel male) così come si evince dai testi biblici. E poi, quando non si hanno
argomenti sufficienti, bisogna evitare di argomentare così da «terrorizzare»
sempre il proprio interlocutore, attribuendogli una specie di «antisemitismo»
ogni qual volta dissente su qualcosa; non è corretto.
Certo che in Mt 6,22s (e in Lc 11) gli autori tradussero in greco delle
asserzioni che Gesù fece in ebraico / aramaico, ma ciò non vuol dire che bisogna
intendere ciò che il mio interlocutore ha cercato di affermare. Io ritengo che
sono stati degli ottimi traduttori che hanno reso al meglio le parole di Gesù
perché ogni lettore le comprendesse subito e direttamente.
Visto che il mio interlocutore ha affermato di non avere più nulla da dire
riguardo a Mt 6,22s e, nonostante il mio invito, ha deciso di non affrontare il
parallelo con Lc 11, per spiegarlo in modo contestuale, corretto, sufficiente e
probatorio — questo tema di discussione è da intendere ora definitivamente
chiuso.