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Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (2)
5. La tesi (3)
{Argentino Quintavalle}
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Che dire? Prendere con leggerezza le interpretazioni di
giganti dell’esegesi biblica come quelli da me citati, mi ha lasciato sbalordito
e soprattutto preoccupato. E per quali motivazioni? Sono «vecchi» e non portano
prove esegetiche. Se sono vecchi, anche noi un giorno saremo vecchi per quelli
di domani. Ma questo non significa che l’interpretazione d’oggi sia inferiore a
quella di domani, né che quella d’oggi sia superiore a quella d’ieri. Per quanto
riguarda le prove esegetiche, così come le intende Nicola, è normale che non le
portano, dato che ci troviamo di fronte a un idioma ebraico. Un «ebraismo»
rimane un «ebraismo» anche se non ci sono prove esegetiche. L’ebraismo deve
soltanto essere riconosciuto dal lettore. Se io traduco letteralmente in
un’altra lingua (dalla cultura diversa dalla mia) l’espressione italiana
«mangiare con gli occhi» o «ammazzare il tempo», chi mi legge, o riconosce
questo modo di dire italiano o prende lucciole per lanterne. Sarebbe ben
ridicolo che qualcuno si volesse ostinare a sostenere che il tempo si può
ammazzare o che si possa mangiare con gli occhi perché non ci sono le prove
esegetiche che quelle espressioni sono dei «modi di dire». Il Nuovo Testamento è
pieno d’ebraismi, molti dei quali sono facilmente riconoscibili, altri meno.
Ho l’impressione che qualunque altra argomentazione io
possa portare non sortirà alcun effetto in chi non s’accontenta delle
testimonianze (le quali sono prove biblicamente parlando) ma vuole solo prove
esegetiche dei «modi di dire». Non crederebbe neanche se andasse in Israele e
ascoltasse con i propri orecchi. «Vi abbiamo sonato il flauto e non avete
ballato; abbiamo cantato dei lamenti e non avete pianto» (Lc 7,32).
Per scrupolo di coscienza riporto l’interpretazione
d’un altro contemporaneo: David H. Stern. Egli è un ebreo divenuto cristiano,
nato negli Stati Uniti, è stato professore alla Ucla University, ha ottenuto un
Master in Teologia al Fuller Theological Seminary, si è specializzato alla
University of Judaism, è stato membro attivo del movimento ebraico messianico ed
è tuttora vivente e vive a Gerusalemme. È l’autore del libro «Ristabilire
l’ebraicità del Vangelo» edito dalla casa editrice Beth-lehem di Cremmago
(Como). Ma la sua opera più importante è stata una straordinaria traduzione
della Bibbia (Vecchio e Nuovo Testamento) in inglese, la Complete Jewish
Bible. Ha scritto anche un commentario al Nuovo Testamento, ed ecco le sue
parole su Mt 6,22s:
«“La lampada del corpo è l’occhio”. Gesù cita
evidentemente un comune proverbio e fa dei commenti su d’esso. Se dunque
“l’occhio tuo è sano”. Questo è il testo greco, ma la spiegazione, cioè
se tu sei generoso, l’ho aggiunta nella mia traduzione della Bibbia perché
nel giudaismo “avere un occhio sano” [lett. “occhio buono”], un `ayin tovah,
significa “essere generoso”, e “avere un occhio viziato”, un `ayin ra‛ah
significa “essere avaro”. Che questa è l’interpretazione corretta è confermato
dal contesto, dalla cupidigia e dall’ansietà per il denaro dei versetti che
precedono e che seguono». (Jewish New Testament Commentary, p. 32).
Non commettiamo l’errore di farci influenzare dalla
nostra cultura per interpretare la Bibbia, altrimenti predichiamo bene ma
razzoliamo male. Ma per questo ci vuole molta umiltà.
6. Obiezioni e osservazioni (3)
{Nicola Martella}
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Entriamo in tema
Gli esegeti non si dividono in «giganti» e non, ma in
quelli che in un certo brano fanno un’esegesi pertinente al testo o meno. Non si
tratta neppure se sono «vecchi» o «nuovi», ma se lavorano con rigore esegetico o
meno. D’altra parte non si può trascurare le discussioni recenti su una data
questione, poiché nuove ricerche e scoperte potrebbero gettare luce su di essa.
Inoltre, come ha affermato Gesù, «ogni scriba ammaestrato pel regno dei cieli
è simile ad un padrone di casa il quale trae fuori dal suo tesoro cose nuove e
cose vecchie» (Mt 13,52).
La questione degli idiomi
Un idioma (ebraico o meno) non è eterno, ma nasce
in un dato momento della storia. Ad esempio dall’episodio in cui Abramo offerse
in olocausto il montone invece del suo figlio sul monte Moria nacque in seguito
un detto: «Per questo si dice oggi: “Al monte dell’Eterno sarà provveduto”»
(Gn 22,14). È evidente che esso prima d’allora non esisteva; sebbene non si
sappia quando nacque, al più tardi nell’«oggi» di Mosè esso esisteva. Un idioma, una volta nato, si perpetua nel
tempo, sebbene muti la sua conformazione, ad esempio in «Dio vede e provvede».
Altri idiomi
scompaiono, ad esempio, ’el šaddaj fu usato al tempo dei patriarchi,
nel libro di Giobbe e nella poesia, ma poi — non essendo un’espressione
tipicamente ebraica — scomparve dall’uso quotidiano. Un uso evidente di un
idioma caduto in disuso è il termine ro’ëh «veggente», che fu sostituito
da nābî’ «profeta» (da nāba’ «chiamare»). Una glossa redazionale
in 1 Sm 9,9 (forse dovuta a un revisore tardivo) ci istruisce che qualcosa era
cambiato al riguardo rispetto ai tempi di Samuele: «Anticamente, in Israele,
quando uno andava a consultare Dio, diceva: “Venite, andiamo dal
veggente!”. Infatti colui che oggi
si chiama profeta, anticamente si
chiamava veggente». Per
spiegare ciò, il redattore vide tale necessità a causa del fatto che tale idioma
era ormai caduto in disuso. Un esempio storico relativamente recente è l’uso di
«duce» nel senso di «conduttore» in Eb 2,10 («duce della loro salvezza»)
e 12,2 («duce e perfetto esempio di fede»). Dopo i fatti storici del
fascismo e all’uso specifico di tale guida politica (il Duce), questo termine è
caduto in disuso nella lingua comune. Anche le nuove traduzione hanno evitato
tale nome ingombrante ed equivoco. La NR ha reso «duce» in Eb 2,10 con «autore»
e in 12,2 con una locuzione: «colui che crea la fede e la rende perfetta». Perciò è importante sapere quando è nato un idioma
ebraico, in quale ambito esso fu usato (attenzione al transfer indebito),
come esso si distingue da idiomi simili, eccetera. Perciò espressioni come
«mangiare con gli occhi» o «ammazzare il tempo» possono essere collegate nel
tempo, verificando nella letteratura quando esse sono comparse la prima volta.
Si può assistere anche che un’espressione muti nel tempo il suo significato,
almeno all’interno di un certo contesto (si confronti, ad esempio, l'evoluzione
dell’espressione inglese feedback negli ultimi decenni). A ciò si aggiunga pure che quando un’espressione
idiomatica viene tradotta in un’altra lingua, non viene tradotta
letteralmente, ma si riproduce il senso oppure mediante una un’espressione
idiomatica simile. Ad esempio l’espressione ebraica
’anašê lebāb,
ossia letteralmente «uomini di cuore», non può essere tradotta così, poiché
l’idioma ebraico non intende una persona benigna, ma intelligente. Perciò la
Settanta ha in Gb 34,10 synetoì kardías «intelligenti (o assennati) di
cuore» e l’italiano «uomini di senno». Il traduttore italiano ha preservato
«uomini», riproducendo il significato corretto di «cuore» quale «senno», il
traduttore greco la preservato «cuore», spiegandone il significato. Similmente essere «senza cuore» (chasar-leb;
Pr 7,7; 9,4; 17,16; Gr 5,21) non significava essere «spietato, gretto d’animo»,
ma essere «senza cervello, senza ragione, dissennato». [Cfr. Nicola Martella,
«Cuore»,
Manuale Teologico dell’Antico Testamento
(Punto°A°Croce, Roma 2002), pp. 131ss].
Ciò significa che, se al tempo di Gesù in Mt 6,22 con
le espressioni ebraiche / aramaiche dibattute si intendeva «generoso» contro
«avaro», l’autore avrebbe messo il risultato in greco per far intendere
correttamente agli Ellenisti tali espressioni. Poiché ciò non accadde, significa
che Gesù non intendeva ciò. Significa pure che tale idioma ebraico / aramaico è
nato in seguito nel giudaismo; proiettarlo indietro nel testo biblico, è
un’interpretazione postuma e come tale arbitraria. L’unica possibilità è
dimostrare in modo chiaro e incontrovertibile che al tempo di Gesù tali
espressioni effettivamente esistevano in tale combinazione (qui bisogna usare
l’AT o la letteratura extrabiblica precedente a Gesù o contemporanea a lui) e
che Egli abbia effettivamente inteso ciò. Così deve lavorare uno studioso serio.
Gli anacronismi possono portare a risultati imprevedibili e a modificare il
senso del testo alla luce di altri intendimenti. Gli autori non erano
disavveduti quando scrissero in greco e trasferirono in essa idiomi ebraici /
aramaici. Testimonianze postume non sono «prove biblicamente
parlando». Citare fuori contesto Lc 7,32 non serve.
David H. Stern
Egli avrà certamente innumerevoli meriti per il
ministero e l’opera portati avanti alla gloria di Dio. Passiamo ad analizzare il
contenuto delle sue asserzioni, che è ciò che ci interessa. Dice bene l’autore
che Gesù cita probabilmente un proverbio dei suoi tempi. Il testo greco
però ha «se l’occhio tuo è semplice» (integro); se avesse inteso
«generoso», Matteo lo avrebbe tradotto direttamente così per far capire subito,
come abbiamo visto per gli altri esempi di idiomi ebraici tradotti in greco. Poi
avviene un transfer tra «occhio sano» (gr. «semplice») e «occhio buono»,
senza che l’autore dimostri che le due espressioni si equivalgano; ma il testo
greco non ha «occhio buono» (ofthalmós agathòs) ma ofthalmós haplous
«occhio semplice». L’autore ha addirittura aggiunto tale significato alla sua
traduzione della Bibbia, perché ritiene che «nel giudaismo “avere un occhio
sano” [lett. “occhio buono”], un
`ayin tovah, significa “essere generoso”». Non spiega però in quale
giudaismo e da quando: Al tempo dell’AT? Tra i due testamenti? Al tempo di Gesù
e degli apostoli? Durante il Medioevo? Oggigiorno? Quindi, la sua
interpretazione rimane una mera congettura. Come abbiamo visto, gli idiomi
nascono, durano o si perdono nel tempo, mutano il loro significato (del tutto o
in un certo settore), eccetera. L’autore non ha fatto nulla per dimostrare che
ofthalmós haplous «occhio semplice» corrisponda a ofthalmós agathòs
«occhio buono», ma assume tale congettura semplicemente per vera, perché il
giudaismo odierno ha tale convenzione. È un modo poco professionale per fare
esegesi in questo punto. L’unico luogo dove nell’AT ricorre
ṭôb `ajin letteralmente «buon occhio» è Pr 22,9, che recita: «Chi
è d’occhio buono sarà benedetto, perché dà del suo pane al misero». La
traduzione CEI traduce «occhio generoso», la Riv., la NR e la ND hanno qui
«sguardo benevolo», la Diod. traduce «occhio benigno»; Ricciotti addirittura
passa all’interpretazione: «Chi è inchinevole [= incline] a compassione».
Se i conti di David H. Stern dovessero tornare, qui nel greco dell’AT dovremmo
avere ofthalmós haplous «occhio semplice» (questa sarebbe una grande
prova per tale uso in Mt 6,22s!), ma qui ricorre ho eleōn ptōchòn «chi
compassiona il povero [= chi ha pietà del povero]». Quindi le due immagini
non si corrispondono. Che dire dell’espressione ebraica `ajin rā`ah,
letteralmente «occhio cattivo», significa anche «essere avaro», come suggerisce
David H. Stern, al tempo di Gesù?
■ Dt 28,54.56: Un espressione simile, in cui
compare ajin
«occhio» e la radice rā`a` «essere cattivo, malvagio» (rā`
«cattivo, malvagio»), è la seguente nell’AT: tera`
`ênô be’āchîw«il suo occhio avversa (o invidia) suo fratello».
Il contrasto è fra «l’uomo delicato (d’animo)» e l’uomo imbarbarito che,
mangiando la carne dei suoi figli durante l’assedio, guarda con cattiveria,
invidia e rivalità suo fratello, sua moglie e i suoi figli. Lo stesso dicasi
della donna delicata nei confronti del marito e dei figli in tale situazione
coatta (v. 56 tera`
`ênāḫ). In ambedue i brani la Riv. traduce «guarderà di mal
occhio». ■ Mt 20,15: Al tempo di Gesù «mal occhio» non
significava «avaro», ma «invidioso, astioso, rabbioso». All’operaio, che
contestava il trattamento di favore verso gli altri operai, il padrone disse: «Non
m’è lecito fare del mio ciò che voglio? o vedi tu di mal occhio che io sia
buono?». Qui la Eberfelder traduce: «Guarda il tuo occhio con invidia,
perché io sono buono?». In greco il testo recita: ho ofthalmós sou
ponērós estin «l’occhio tuo è cattivo (maligno o rabbioso)». Qui ricorrono
proprio i due termini greci,
ofthalmós e ponēròs come in Mt 6,22s, e tale uomo non evidenziò
l’avarizia del suo operaio, ma l’invidia, la cattiveria e la rivalità.
Conclusioni
Come si vede le espressioni simili dell’AT (ebraico e
greco) e del NT non sono specifiche ad avvallare la tesi della «generosità»
contro «l’avarizia» in Mt 6,22s. Questa concezione non esiste nella Bibbia, ma è
sorta nel giudaismo esternamente al pensiero biblico e con molta probabilità in
tempi postumi al NT. Stando così le cose, Gesù e Matteo non conoscevano ancora
tali idiomi ebraici, altrimenti l’Evangelista li avrebbe resi in greco in modo
esplicito. Si fa quindi bene a non mischiare idiomi postumi con quelli presenti
nella Bibbia e a non interpretare quest’ultima con quelli. Quando si accredita qualcosa con la sua ripetizione
(anche da parte di studiosi), tale convenzione non significa di per sé che sia
la verità, ma anzi sta in odore di manipolazione, cosciente o inconscia che sia.
Fidarsi è bene, controllare è meglio. Terminerei parafrasando il mio interlocutore: «Non
commettiamo l’errore di farci influenzare dalla cultura ebraica medioevale o
odierna per interpretare la Bibbia…».
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Due tesi a confronto su Matteo 6,22-23 (4)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A1-Mt6,22s_supposizioni3_Sh.htm
27-06-2007; Aggiornamento: 26-05-2010 |