Qui di seguito discutiamo l'articolo
«I
"senza chiesa" e le "chiese senza…"».
Esso rappresenta alcune riflessioni sull'articolo «Cristiani senza chiesa?» di
Paolo Moretti, che è in generale condivisibile. Chi viene molto contatto dai
credenti, conosce le
valutazioni, le loro giustificazioni e i problemi dei «senza chiesa», ossia di
Cristiani che non hanno una vita comunitaria regolare e non frequentano
abitualmente gli incontri di una chiesa locale. Abbiamo visto che la
disaffezione verso una comunità deriva da un certo individualismo.
Dall'altra parte, ho fatto notare che da molto tempo è mutato anche l’essere
chiesa locale, che da vita comune dei credenti si riduce alla sola frequenza
degli incontri nel locale di culto. Oltre a ciò, dal modello di «tutti dinanzi a
tutti» , si è passati col tempo al modello di «pochi dinanzi a tutti»,
relegando la massa a passivi spettatori. Non intendiamo giustificare i «senza
chiesa», ma neppure le «chiese senza…» partecipazione, vita comune, operosità,
fermento, comunione e quant'altro caratterizza una comunità.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre esperienze, idee e
opinioni?
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I contributi sul tema
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1. {Davide Galano}
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Contributo:
Se pensiamo alla primitiva chiesa, c’è tanta strada da fare... e con
l’aiuto del Signore possiamo farla, guai a fermarci. Dobbiamo riconoscere che
manchiamo di zelo per la frequenza dell’assemblea che il Signore ci ha
donata. Alcune volte mi sono trovato a visitare
una chiesa, passando per quella località, e ho notato tante sedie vuote...
Alla fine dell’incontro qualcuno mi ha detto: «Fratello, perché non hai avvisato
della tua visita, avremmo annunciato e ci sarebbero stati più credenti». La mia
riflessione è: Ma per quale motivo andiamo in adunanza? Andiamo per far piacere
al fratello, che ci visita? Dovremmo andare per onorare Colui che è al
centro dell’incontro, per assaporare il cibo spirituale, che il Maestro ha
preparato esclusivamente per me, secondo il mio bisogno, e non mi preoccuperò
del cibo che serve al fratello al mio fianco, perché siamo incoraggiati ad
approfittare di queste occasioni, e ricevere risposte alle nostre domande. Se ci
sentiamo liberi di non frequentare e abbiamo un nostro modo di vedere, mi
chiedo, perché quando incontriamo i credenti, che frequentano, e ci chiedono:
«Perché non vieni in adunanza?», allora si scatenano bugie
stratosferiche, che peggiorano la nostra comunione con Dio, perché la bugia è
peccato. Allora, certamente se ci sono dei problemi, vanno affrontati
altrimenti se un mio parente, dopo una mia testimonianza, mi chiedesse:
«Voglio venire ad ascoltare un vostro culto», dove lo portiamo? Il Signore è
pronto a togliere ogni ostacolo, ma forse sarebbe meglio dire al Signore: «Io
sono un ostacolo, voglio riprendere la comunione con te e con i miei
fratelli, donaci la saggezza e il discernimento di essere dei tuoi collaboratori
seri, equilibrati e pronti a lasciarci guidare da te, che sei il nostro unico
Maestro». {28-07-2010}
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Franco Sellan:
Davide Galano afferma: «Dobbiamo riconoscere che manchiamo di zelo per la
frequenza
dell’assemblea». Sicuramente questo potrebbe e, anzi, è un punto importante, ma
allo stesso tempo se partiamo sempre dal fatto che sia solo e principalmente
importante partecipare, ossia fare la
presenza alle riunioni, non risolveremo mai il problema di chi a un certo
punto ha deciso di non frequentare più. Forse dobbiamo liberarci da questo unico
obiettivo e pensare di più a chiesa come insieme, come rapporto tra
persone, come chiesa nel senso più completo della parola. Forse dovremmo anche a
volte porci le domande: «Perché alcuni non frequentano più? Cosa possa
fare io, cosa non ho fatto o cosa ho fatto, perché qualcuno se ne andasse?».
{28-07-2010}
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Davide Galano:
Certo l’ostacolo, può essere chi frequenta, e chi si assenta la responsabilità è
personale, ma coinvolge anche la testimonianza.
{28-07-2010}
■
Franco Sellan:
Parlare di testimonianza? Non so se può essere utile all’analisi del
problema per poter arrivare a una soluzione, perché questo dovrebbe essere
l’obiettivo. Se parliamo di testimonianza, allora dovremmo anche analizzare la
testimonianza di
alcuni, che frequentano;
forse non danno buona testimonianza, perché la testimonianza non è data dalla
frequenza, ma dalla vita. {28-07-2010}
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Nicola Martella: Davide Galano, se tu con la
tua famiglia e casa tua foste chiesa, avresti un problema a portarci un
tuo parente o un tuo amico, dopo essergli stato di testimonianza? Se c’è la «chiesa
in casa» tua (Rm 16), sapresti dove rendere il culto al
Signore e non avresti imbarazzo a portarvi gli altri.
È tutta la questione sballata: una sala individuata come luogo
privilegiato di culto. Le sale sono un mezzo non un fine. Esiste una vita di
chiesa anche di là dalle sale. La chiesa siamo noi. La chiesa
primitiva, a cui t’appelli e verso la realizzazione del cui modello affermi
ci sia «tanta strada da fare», non conosceva sale di culto e non aveva complessi
d’inferiorità al riguardo. Pur contando migliaia di credenti, non costruì
nessuna «mega chapel», ingaggiando i migliori architetti... Eppure cresceva
e s’inventava nuovi modi di radunarsi (At 2), di organizzarsi (At 6), di
espandersi (At 8). Gli
obiettivi erano più importanti delle forme.
Ecco una riflessione generale sulle Assemblee. Il Signore non ci ha chiamato a
conservare le forme
e le tradizioni dei nostri «padri», ma a vivere oggigiorno secondo il
loro spirito (novità di vita, ritorno alla Scrittura, consacrazione
personale, intraprendenza), creando otri nuovi per un nuovo vino. Chi si dedica
a curare un museo della memoria, guardando al tempo dei «padri»
(convinzioni, convenzioni, tradizioni, forme) come a quello migliore e a loro
come eroi, crede che stia facendo la cosa giusta; ma probabilmente proprio ciò
gli impedirà loro di vivere in modo intraprendente come i «padri», che
buttarono giù la zavorra ereditata per volare più in alto.
2. {Milena Stradiotti}
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Contributo:
Interessante argomento. In effetti frequentare le riunioni della chiesa
non vuol dire frequentare la chiesa. In 20 anni di frequentazione di una
assemblea dei Fratelli, sia io che mio marito abbiamo sperimentato proprio
questa grande contraddizione:
nostro malgrado abbiamo sentito sermoni ineccepibili da un punto di vista
biblico sull’amore fraterno e poi una totale incapacità di metterlo in
pratica proprio da chi lo aveva appena finito di annunciare dal pulpito!
Come famiglia e anche come singoli abbiamo sperimentato che gesti di vera
solidarietà e amicizia vengono spesso (non sempre!) da persone non credenti
che non si fanno portavoce di nessun messaggio biblico ma che sanno amare
semplicemente il prossimo. Secondo te, perché?
Dal mio punto di vista noi evangelici abbiamo un po’ perso questa apertura ai
sentimenti e ci siamo trincerati dietro un decalogo di regoline e a
una serie di
comportamenti stereotipati privi di slancio e autenticità.
Con gli anni e le delusioni all’interno della
chiesa (divisioni, dottrine prima condivise e poi silenziosamente dimenticate,
problemi caratteriali, egoismi e scarsa conoscenza biblica...) io e mio marito
siamo giunti alla conclusione che, se smettessimo di frequentare
completamente, la nostra fede s’indebolirebbe. Tuttavia, ora abbiamo messo da
parte molte nostre aspettative nei confronti dei credenti e
nell’«istituzione» Chiesa. Il nostro «frequentare» è più disincantato e
distaccato, se non altro questo protegge da sofferenze e delusioni!
{Famiglia De Luca; 29-07-2010}
▬
Nicola Martella: Questo discorso è
comprensibile. Tuttavia è come dire: io curo una malattia con un’altra
malattia, invece di guarire e partecipare alla guarigione altrui. Invece di
passare all’azione, si rimane nella reazione. Invece di «essere» chiesa,
si assume una posizione
distaccata e critica. Sono tipici sintomi di una patologia cronica e
conclamata. Le cisti sono piene di pus, ma noi mettiamo unguenti sulla pelle
perché non si notino e non esplodano. Si prendono farmaci palliativi, i
quali non danneggiano ulteriormente, ma non fanno neppure guarire; però
tranquillizzano in qualche modo, dando il sentimento che si sta facendo
qualcosa. Questo non è certo «essere» chiesa e vivere nel «pari consentimento»
con compagni di via, da discepoli ubbidienti al Signore, mettendo vino nuovo in
otri nuovi. Si cominci a incidere le cisti, a purificarle e farle
guarire; poi si viva da guariti e «gente nuova». Una famiglia rinnovata,
può essere la cellula di un rinnovamento propositivo, di un nuovo modo di
«essere» chiesa. Ciò è coinvolgente...
■
Milena Stradiotti:
Non pretendo di essere da esempio, ma tra il non frequentare più e il
frequentare con un
certo distacco emotivo ho preferito il secondo... se non altro per i miei
figli. {29-07-2010}
3. {Monica Tamagnini}
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Contributo:
Il problema è che la chiesa locale, in molti casi, non è più
quella che dovrebbe essere. La chiesa dovrebbe essere una famiglia, in
genere in dimensioni non troppo estese, per poter permettere una vera
conoscenza e un vero rapporto di comunione
fraterna, un ambiente in cui potersi «rilassare», essere se stessi, perché siamo
i chiamati fuori, quelli che condividono Cristo. Io sono nata così, in una
chiesa-famiglia in Inghilterra, e lì ho capito cos’è l’amore fraterno. È
stato il Signore stesso a scegliere di metterci in un corpo, affinché,
come pietre di uno stesso tempio, entrando in contatto gli uni con gli
altri, possiamo affinare i nostri spigoli e crescere, incoraggiandoci l’un
l’altro, alla statura di Cristo.
Credo che molta della
freddezza che incontriamo in tanti ambienti di chiesa sia proprio un
sintomo di questi ultimi tempi. La vera chiesa, quando è amore,
confidenza, fiducia, preghiera, condivisione, è la cosa più bella che ci sia.
Personalmente credo molto alla chiesa in casa, peraltro realtà biblica.
Mi sono sentita d’intervenire perché questo argomento è molto vicino al mio
cuore e comprendo bene i fratelli De Luca. Gloria a Dio quando saremo col
Signore sarà tutto molto diverso. Shalom nel suo meraviglioso amore.
{29-07-2010}
■
Damaris Lerici:
Sono pienamente d’accordo con Monica. «La chiesa dovrebbe essere una famiglia,
in genere in dimensioni non troppo estese, per poter permettere una vera
conoscenza e un vero rapporto di comunione fraterna, un ambiente in cui potersi
«rilassare», essere se stessi, perché siamo i chiamati fuori, quelli che
condividono Cristo». Ma così non è purtroppo, almeno nelle realtà che conosco
io. Che fare a questo punto? {29-07-2010}
■
Monica Tamagnini:
Cara Damaris, comprendo il tuo cuore, che è anche quello di tanti: Che fare? Per
quel che sento, per prima cosa spandere il nostro cuore davanti al Signore
e dirgli quanto desideriamo poter condividere il suo amore con la fratellanza
nel modo biblico e nel contesto di chiesa, che Lui
descrive nella sua Parola. Io so per esperienza diretta che Dio «è in grado
di fare immensamente di più di quanto possiamo chiedere e immaginare»
(Efesini 3,20). E poi, possiamo cominciare noi a seminare amore, amore,
amore, sempre e comunque. Offrendo una parola, una preghiera, un abbraccio,
l’ascolto, l’amicizia, la fiducia, colmando un vuoto che tanti sentono. Shalom
nel suo amore. {29-07-2010}
▬
Nicola Martella:
Nessuno a Gerusalemme si lamentava che la chiesa fosse troppo estesa,
contando alcune migliaia di persone. Certo non c’era una mega-sala di culto, ma
la vita avveniva nelle case. Gli apostoli e i loro collaboratori dovettero
imparare un nuovo tipo di organizzazione, che permettesse la comunione,
l’insegnamento, la cura pastorale, l’assistenza, la supervisione e così via. A
Gerusalemme c’erano sicuramente innumerevoli «chiese in casa» e tutti i credenti
si consideravano parte di un tutto, pietre di una casa vivente.
Ora, il nostro individualismo può farci lamentare che la chiesa locale
non sia più quella che dovrebbe essere o
della freddezza di tanti ambienti di chiesa. Ciò
potrebbe farci parlare della fine dei tempi o farci anelare l’avvento del
Signore. Al presente però cambia poco.
Già ora tutto può essere «molto diverso», se noi cominciamo a dalla reazione
all’azione, a «essere» chiesa e porci come punto di sublimazione di un modo
nuovo di praticare un cristianesimo vero, partecipato e coinvolgente. Tutto
comincia col rinnovamento della nostra mente, nel fare ciò che ci aspettiamo.
Così apriremo il nostro cuore, la nostra vita e le nostre case all’essere «otri
nuovi» per il «vin nuovo» del nuovo patto. Nessuna pietra cade in acqua senza
creare cerchi. Nessun seme di senape è all’inizio così appariscente da attirare
gli sguardi, ma i risultati poi si vedono (Mt 13,31s). Provare per credere.
Su che fare in concreto, devo ricordare le tante situazioni incancrenite
durante la storia d’Israele. Il rinnovamento nacque sempre dopo la scoperta
personale della parola di Dio (come nel caso di Giosia) e dell’incontro
personale col Signore (p.es. Isaia, Geremia). Isaia non fu più lo stesso, dopo
l’incontro con Dio; alla sua chiamata, rispose: «Eccomi, manda me» (Is
6,8). Nonostante la corruzione spirituale e morale intorno a sé, seppe essere
con la sua famiglia «segno e presagio» (Is 8,18; 20,3).
Io e mia moglie siamo stati coinvolti in prima persona nella fondazione di due
chiese. Il metodo da noi usato sono le «cellule bibliche», il discepolato
e la cura pastorale. La crescita delle persone come famiglia di Dio è enorme. Un
nuovo modo di essere chiesa s’impara proprio nelle cellule, dove tutti sono
dinanzi a tutti e tutti danno a modo loro un contributo per la cura e la
crescita degli altri. La chiesa può anche essere grande, se è costituita da
«cellule bibliche» e «gruppi di servizio».
4. {Francesco Abortivi}
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Contributo:
Argomento interessante. Mi permetto di aggiungere alcune riflessioni. Quando i
miei amici non Italiani mi chiedono perché ci sono tanti problemi nelle
chiese italiane, rispondo che a mio parere ci sono due ragioni principali:
una è l’individualismo
estremo che ci porta a essere d’accordo solo con noi stessi e a non tollerare
chi la pensa diversamente, oltre a non tollerare ogni autorità costituita
(comprese quelle di chiesa). L’altra è che chi invece quell’autorità
l’esercita tende spesso a controllare le persone e «comandare» più che a
guidare e incoraggiare. Queste due cose, che sono parte del «DNA spirituale»
di noi italiani, sono insieme esplosive e provocano un sacco di morti e feriti
(i senza chiesa).
Non credo che il problema sia tanto il «come
essere chiesa», la struttura o l’organizzazione, ma lo spirito che c’è dietro.
Dobbiamo capire veramente cosa sia la grazia che abbiamo ricevuto.
Venendo da una cultura cattolica, molti di noi si sono convertiti per grazia
tramite la fede, ma hanno poi continuato per opere. In altre parole
abbiamo bisogno di convertirci davvero, abbandonando il reciproco giudizio e
ricostruendo su nuove basi di amore fraterno e, appunto, grazia.
So che a molti non piace questo discorso, ma
quello che vedo sempre più, è che ci sarà una netta divisione fra le chiese
(tutte le chiese) capaci di rinnovarsi e presentarsi vere, aperte, attive
e positive e le altre che saranno destinate all’estinzione. È solo
un’opinione... {29-07-2010}
▬
Nicola Martella:
Alcuni dei problemi sono stati ben messi a fuoco: individualismo
estremo e conduzione autoritaria. Aggiungerei
altri elementi tipici della cultura religiosa corrente, diversi per ambiente
ecclesiale:
■ In alcuni ambienti la fa da padrone la
devozione spiritualista esperienziale combinata con generale ignoranza biblica.
A ciò si aggiunga una delega data ai conduttori, visti e atteggiantesi come
chierici (intercessori, mediatori di grazia, unti, santoni, guru).
■ In altri ambienti la fanno da padrone il
massimalismo e il legalismo. A ciò si aggiunga un’anarchia generale, a una
parte, e il «papismo» di alcuni, dall’altra.
Ci sarebbero da aggiungere ancora atteggiamenti
della mente e dello stile di vita: il materialismo, il consumismo,
l’egoismo e il narcisismo. Che le chiese s’inaridiscano e alcuni se ne vadano,
dipende proprio dallo stato del cuore d’ognuno. Una falsa o distorta immagine di
Dio (p.es. zio buono o poliziotto), produce falsi atteggiamenti mentali e scelte
sbagliate. Allora come oggi, non si può servire a due padroni.
Ammetto che un concetto
di salvezza per «grazia», a cui non seguano immancabilmente «opere»
di fede, mi è sconosciuto nella Bibbia. Gesù mostrò la necessità che i suoi
discepoli praticassero le «buone opere» (Mt 5,16). Così insegnavano gli
apostoli: sebbene i credenti non sono salvati per opere, lo sono in vista di
praticare «buone opere» (Ef 2,9s), di cui bisogna essere ricchi (1 Tm 6,18s) per
praticarle con cura (Tt 3,8.14) e per incitarci reciprocamente a farle (Eb
10,24); esse sono il loro distintivo dinanzi al mondo (1 Pt 2,12). E così
facevano i veri discepoli (At 9,36; 1 Tm 5,10).
Sul piano personale del «non
giudicare» è vero che bisogna abbandonare «il reciproco giudizio» e
ricostruire «su nuove basi di amore fraterno»; se ciò significa «convertirci
davvero» e «grazia», secondo la Scrittura, non sarei così sicuro. Non bisogna
però dimenticare il «giudicate voi» sul piano della conoscenza biblica;
infatti, l’amore fraterno non è possibile senza l’amore per la verità. Molti dei
problemi nelle chiese sono dovuti proprio alla mancanza di conoscenza e di
discernimento biblici e, perciò, alla conseguente tolleranza verso il peccato
(cfr. 1 Cor 5), in nome di falsi concetti di amore, grazia e misericordia. [►
Accuse di calunnia:
Quando non si comprende l’apologetica biblica]
Ogni rinnovamento
delle (e nelle) chiese non può avvenire a spesa della verità né dell’amore. Non
sarà il sentimentalismo religioso a salvare le chiese, né certamente un
massimalismo legalista.
5. {Monica Tamagnini}
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Contributo:
«Salutate i fratelli che sono a Laodicea, Ninfa e la chiesa che è in casa sua»
(Colossesi 4,15). ▪ «Salutate anche la chiesa che si riunisce in casa loro»
(Romani 16,5). ▪ «Le chiese dell’Asia vi salutano. Aquila e Prisca, con la
chiesa che è in casa loro, vi salutano molto nel
Signore» (1 Corinzi 16,19). ▪ «…alla
sorella Apfia, a Archippo, nostro compagno d’armi, e alla chiesa che si riunisce
in casa tua» (Filemone 1,2).
È evidente come si riuniva la chiesa a Gerusalemme! Nessuno si lamentava
che fosse troppo grande, perché c’era un’altra visione di «chiesa»: la
chiesa era una «comunità», una «famiglia», che pur essendo grande in
numero in una città e trovandosi insieme nel tempio, si riuniva nelle case
in piccoli gruppi e che stava insieme nell’amore. C’era l’idea della famiglia,
della condivisione, dell’edificarsi a vicenda. Avevano tutto in comune, non solo
i beni materiali, ma principalmente le loro vite. Non c’era il concetto di
mega locale
impersonale, in cui ci si ritrova un paio di volte a settimana, dandosi le
spalle e guardando ciò che succede su un palco. La «chiesa» era la loro vita!
«Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune;
vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno
di ciascuno. E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il
pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di
cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore aggiungeva
ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati». È vero che le
cellule a casa
sono un ottimo e biblico sistema, purché non diventi appunto un «sistema».
Incoraggio chiunque possa e voglia a ritrovarsi il più possibile a casa con
altri fratelli e sorelle e ad avere una comunione dolce, fatta di
sostegno, preghiera gli uni per gli altri, Parola e soprattutto lode
insieme al nostro Dio! Non c’è gioia più grande! Facciamo della «chiesa» il
nostro stile di vita.
{29-07-2010}
■
Barbara Abate:
Cara sorella Tamagnini condivido appieno la tua opinione. Proprio ieri sera si
parlava con mio marito dell’importanza della riunioni in casa, perché
credo che se siamo chiesa a casa, riusciremo a esserlo anche nella chiesa
locale. {29-07-2010}
■
Monica Tamagnini:
La chiesa in casa
è ciò, di cui ci parla il Nuovo Testamento, come citato sopra. Parlando con vari
credenti in Italia, molti stanno riscoprendo questa verità. E quando verrà la
persecuzione, sarà senz’altro l’unica opzione. Shalom in Yeshua.
{29-07-2010}
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Antonio Di Santi:
Grazie a Dio la chiesa è in continua riforma. Bisogna riscoprire il fare
chiesa in casa. Senza tralasciare l’importanza della chiesa locale.
Dio vi benedica. {29-07-2010}
6. {Alfons Karrica}
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La chiesa è fatta
di credenti (noi), perciò quando si verificano in essa degli errori,
significa che in una certa misura ne siamo partecipi.
Oggi la maggior parte delle chiese sono cadute nella trappola del
tradizionalismo, limitando la testimonianza
cristiana e riducendola alla semplice frequentazione degli incontri settimanali.
Il servizio cristiano in queste chiese è
diventato monopolio di un’elite scelta, rendendo gli altri dei semplici
spettatori. Ma, anche questi spettatori si accontentano della loro
posizione.
Si fa presto a rimanere delusi dalla chiesa
o dai credenti. È facile notare la disfunzione di ciò che doveva essere il corpo
di Cristo; ma invece che intervenire si sceglie di abbandonare e cercare
un’altra chiesa secondo i propri standard. Ecco perché il cristianesimo oggi non
è altro che la somma dei «senza chiesa» e delle «chiese senza».
«Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, qui
io sono in mezzo a loro» [Mt 18,20], non significa che questi due o
tre, debbano per forza formare un’altra chiesa!
Ma, che si tratti di «Assemblee di Fratelli» o di
altre denominazioni, non fa differenza.
Fermatevi un attimo e pensate che sia chi dirige
così, sia chi fa lo spettatore dimostrano segni di tradizionalismo
(religiosità).
Nella vita del credente non esiste la frase: «Il
cristiano deve fare o dovrebbe fare», ma «il cristiano fa». Il cristiano
non punta il dito verso chi è mancante, ma chiede perdono delle proprie
mancanze.
Chi di noi non ha accusato qualche volta segni
di formalismo cristiano, leggendo la Bibbia o frequentando la chiesa,
semplicemente per abitudine? {29-07-2010}
7. {Paola Chiarapini}
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Contributo:
Carissimo Nicola Martella, io incominciai il mio cammino di fede nelle Assemblee
dei Fratelli e, come dicevi, ci s’incontrava nelle case
e per quanto riguarda Viterbo, a casa mia. Ogni mercoledì, dalle ore 19.00 in
poi. Si faceva tardi, non esisteva il problema della cena, né dei figli
piccoli. Certo c’erano problemi, soprattutto per una persona sola con un figlio
da accudire e un lavoro da portare avanti. Poi, non mi dilungo in quello che è
successo, ma di tante cose ne siete al corrente anche voi, ma quell’assemblea
non esiste più.
Non mi sono allontanata dalla Chiesa e neanche da nostro Signore, ma per me
diventa ogni giorno più difficile vivere una vita di chiesa come la descrivi
nella testimonianza. Forse ognuno vuole vivere la propria vita e la propria
cristianità, ma in realtà mi sento ogni giorno più isolata. Mio figlio è
cresciuto, da quasi un anno usa lui la mia automobile e non mi è facile
spostarmi. Ho provato a frequentare una chiesa di Viterbo, ma
mi sembra di far parte dell’arredamento e non riesco a inserirmi.
Quindi, quando posso, vado in un’altra chiesa che sta fuori Viterbo.
Spero che mio figlio conosca il Signore quale è e si decida a seguirlo,
per ora mi accompagna in chiesa, ma non essendo «locale» mi sembra che quei
pochi cristiani (veri cristiani), che conosce, non possano che dargli una
testimonianza per il futuro (quando sarà grande!). Siamo
quattro sorelle, che ci sentiamo, anche se non riusciamo a vederci e andare
avanti nella vita come nella fede; frequentiamo chiese diverse e la
domenica o quando ci sono riunioni di preghiera, io frequento una chiesa, una
sorella un’altra, una sono quasi due anni che sta male e l’ultima (anche lei
senza mezzo di trasporto), quando può, viene con me, altre volte frequenta qui a
Viterbo.
Cosa voglio dire con tutto questo? Noi, non abbiamo
fatto niente per avere una situazione così dura, ma cos’è cambiato dal
«primo amore»? Noi continuiamo ad amare Gesù e crescere nella sua Parola;
ma come possiamo servire e portare la sua gioia? Sappiamo che chi serve Colui,
che ha portato una corona di spine, non può aspettarsi di portare una corona di
fiori, ma provare di nuovo la gioia di ritrovarci tutti insieme, come è
già stato, è solo un nostro desiderio, oppure la nostra fede deve diventare
sterile? Così non sia e che il Signore continui a farci crescere ogni giorno di
più nella sua Parola.
Chiedo solo che anche voi preghiate per noi il Signore, affinché anche qui noi
possiamo servirlo come e dove Lui vuole
essere servito. Che Signore benedica il suo popolo e tutta la sua creazione,
oggi e sempre! {29-07-2010}
▬
Nicola Martella: Non sono addentrato in tutto
il problema di della chiesa di Viterbo, che nacque come gruppo della
chiesa dei Fratelli di Monterosi, dove si praticavano gli incontri di cellula.
Per quello che ricordo, tale gruppo di Viterbo si istituzionalizzò, si staccò
dal movimento e diventando una chiesa protestante (se non sbaglio
presbiteriana).
È chiaro che chi ha conosciuto il fermento e l’entusiasmo di una chiesa
partecipata, si senta come un pesce fuor dell’acqua e come un pezzo
d’arredamento in una chiesa monocratica e verticista.
Secondo me, bisogna smettere di considerare (e considerarsi) chiesa in funzione
delle mura, in cui ci si incontra. Devo pensare a Tabita e alle
sorelle, di cui lei si prendeva cura e del bene che lei faceva alla gente
intorno a sé. Visto il legame d’intensa comunione, venne scomodato addirittura
Pietro, quando lei morì. Che voglio dire? Quando ci sono intensi legami con
altri credenti, si può praticare «l’essere chiesa» nelle proprie case,
aprendole, invitando, aggregando, praticando il frutto dello Spirito; allora
posso succedere miracoli. Quando non c’è altro, si può creare ciò che si può e
usare la fantasia e l’intraprendenza. A Filippi diverse donne timorate di Dio
crearono un gruppo d’orazione presso il fiume, certamente per quello che
sapevano (At 16,13). Quando Paolo arrivò lì, parlò loro e specialmente una certa
Lidia credette all’Evangelo e, dopo essere stata battezzata, aprì la sua
casa (vv. 13ss). Non capisco perché tutto ciò non possa accadere ancora oggi,
tanto più a donne già credenti! Paolo non cambiò il luogo d’adorazione (v. 16),
ma certamente trasmise una chiara immagine biblica di Colui che dev’essere
adorato.
Chiaramente non sempre si è responsabili di ciò che avviene in un gruppo,
con cui poi non ci si identifica più, a causa delle scelte istituzionali che
esso ha fatto. Coloro, però, che continuano ad amare Cristo, devono cambiare
mentalità, di cui un aspetto importante è il seguente: bisogna essere
chiesa, non andare in chiesa; allora, pochi o tanti che siano, possono
industriarsi a vivere una comunione gioiosa, partecipata e coinvolgente
lì, dove si trovano, senza sensi di colpa. Anche a loro Dio potrebbe poi mandare
un Paolo, prima o poi, e potrebbe permettere la formazione di una comunità
particolare come quella di Filippi. Quindi, siate discepoli oggi,
vivete in modo abbondante la grazia di Dio, edificatevi e consolatevi a vicenda,
aprite i vostri cuori e le vostre case agli altri, ricominciate l’esperienza
dell’inizio…
8. {Antonio Santoro}
▲
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Contributo:
Buon giorno a tutti. Non volevo intervenire ma a giudicare da quanto riportato
da Nicola Martella non posso fare a meno di non condividerlo. Purtroppo è
la dura realtà che sta attraversando il «movimento dei fratelli» (non voglio
entrare in altre
realtà volutamente anche se da nessuna parte ci si può additare come
infallibili).
Oggi, devo rilevare
purtroppo, sono in mezzo a noi personaggi che ben s’integrano nella parola «Sicofante».
Per chiarezza includo un copia incolla del termine e precisamente: […] [N.d.R.:
Per motivi di correttezza, è proibito fare copia-incolla della proprietà
letteraria altrui, senza virgolette e specialmente senza citare la fonte. Tale
fonte l’ho trovata qui: «Sicofante
(Grecia antica)». La si legga e poi si continui qui.]
Bene ora nelle chiese sta emergendo anche questa spregevole figura. A
differenza di quella originale non prende «denaro» in senso stretto ma sparge a
piene mani accuse al solo scopo di calunniare gli altri, ovviamente
proteggendo la propria visione «personale» di vita comunitaria, spirituale,
ecc., ecc.
Oggi, il rischio ancora più grave e abbietto è quello che, quando queste persone
sono poi scoperte all’interno delle chiese come dei rivoltosi e sobillatori,
anche se la chiesa esercita sullo stesso la «disciplina» fino al punto di
allontanarlo dalla comunione fraterna, il sicofante, oltre a non accettare tale
decisione, apre, e dico apre addirittura una «chiesa locale personale a
conduzione familiare». Questo è, a mio avviso, lontano mille miglia
dall’insegnamento biblico. È cosa più indicibile è la benevolenza espressa da
altri fratelli, che incoraggiano il «sicofante» di turno.
Per me questi anche questi si possono annoverare tra i cosiddetti «senza
chiesa»; non soltanto quelli che appartengono solo di facciata a una chiesa
locale.
È ovvio che vengono meno tutti quegli aspetti che sono descritti negli
approfondimenti riportati nella seconda parte del commento di Nicola Martella.
Ben vengano quelle sane e produttive «riunioni in casa», per ritrovare
quel piacere spirituale della comunione fraterna oltre gli incontri canonici che
tanto, a volte inaridiscono.
Ben vengano se fatte nella piena consapevolezza
della comunione al fine di pregare, presentare a Dio le necessità
spirituali e pregando gli uni per gli altri. Ben vengano le riunioni in casa, se
da esse scaturiscono le benedizioni nella propria famiglia, le quali
formano in embrione la prima cellula vitale.
Dio ci liberi dai personaggi, di cui ho trattato prima. Un caro saluto nel
Signore a tutti i credenti. {30-07-2010}
▬
Nicola Martella: Devo ammettere che non ho
avuto una buona impressione da parte di chi intende richiamare a una
coerenza biblica (o a un «purismo dei Fratelli») sul tema, sia per il tono usato
(animosità), sia per le accuse rivolte subito a chi non la pensa come lui
(essere un «sicofante»). Non è un buon inizio per chi voglia dialogare col
prossimo.
Non capisco che cosa abbia a che fare il termine greco «sicofante»
col nostro tema, visto che colui era, in quella specifica cultura, «colui
che, prezzolato, sosteneva le denunce anche false». Devo ammettere che con tali
argomenti fuori contesto, si inacerbiscono solo gli animi e non si sarà
d’aiuto a nessuno. Applicare poi tale concetto a persone nelle chiese, è
fuori luogo e singolare, per non dire altro. Così si farà bella figura
dinanzi ai «puristi», lanciando immani sospetti su tali persone che tramerebbero
nel buio, ma non si sarà in grado di affrontare una questione molto
seria, dando un contributo costruttivo. Inoltre sarebbe interessante sapere chi
è stato calunniato qui con nome e cognome.
Prendo atto anche
dell’estrema semplificazione di questo lettore: tutto il vasto spettro della
realtà ecclesiale viene appiattita sul caso dei rivoltosi e sobillatori
(!), i quali, se messi fuori comunione, aprono la propria «chiesa domestica».
Ridurre la variegata realtà a un solo aspetto e per di più negativo ed estremo,
è l’ideologia tipica dei massimalisti. Ancora più grave è lanciare il
sospetto
che io o altri abbiamo espresso benevolenza e incoraggiamento per un caso
simile. Nel mio articolo non ho trattato un caso del genere. Ho detto fin
dall’inizio che l’articolo di Paolo Moretti è generalmente condivisibile
e che anch’io conosco le loro giustificazioni dei «senza chiesa», oltre ai loro
problemi, e non ho detto di condividerle né li ho incoraggiati a rimanere in
tale stato. Inoltre nell’ultimo punto parlo dell’«inganno degli isolati»,
riportando due atteggiamenti diversi. Quindi devo rimandare al mittente
tali accuse di incoraggiare il cosiddetto
«“sicofante” di turno».
Con tale riduzionismo massimalista e con tali accuse, non si può essere un
vero interlocutore, saggio, equilibrato e pacato, né si potranno indicare
vere soluzioni al problema. Invece di interloquire e mostrare quali punti
sono apprezzabili e quali no, indicando precise alternative, si discredita
tutto,
riducendo ogni cosa a un aspetto, proprio a quello non trattato (!), ossia
ai casi di rivoltosi e sobillatori. Così
facendo, volenti o nolenti, si rischia di assumere i tratti di «sicofante», che
si vorrebbe denunziare in altri. Tutto ciò mi rattrista soltanto.
Ho dovuto pensare ai medici del Medioevo, che avevano per ogni tipo di patologia
una sola diagnosi (squilibrio degli umori corporali) e un solo rimedio
(o purga o salasso). Secondo la legge delle probabilità, tutto ciò a qualcuno
poteva anche servire, ma non certo nella stragrande maggioranza dei casi. Si fa
sempre male ridurre tutti i casi a uno solo anche in questioni
ecclesiologiche e vedere una sola vera patologia in tutto ciò. Non è
realistico e non aiuta. Una falsa diagnosi porta a erronei interventi e a gravi
conseguenze.
Condivido quanto afferma alla fine sulle «riunioni
in casa». Usando un altro approccio, sarebbe stata una preziosa occasione
per contribuire con più equilibrio, più serenità, più onestà intellettuale, più
vastità di pensiero, meno animosità, meno spirito accusatorio e meno
riduzionismo. Speriamo in meglio per il futuro…
9. {Stefano Frascaro}
▲
Nota editoriale:
Questo lettore appartiene alla chiesa dei Fratelli di Roma-Borgesiana (qui)
e collabora con noi anche nell’opera missionaria di Tivoli (qui).
Sono «rinato»
nell’ambito della chiesa «dei Fratelli», tra l’altro condotta, a quel tempo,
proprio da Nicola Martella. E da essa ho potuto «gustare» veramente il concetto
di «ecclesia» ripiena di «agape». Ho da subito partecipato a cellule di
studio biblico nelle case e questo mi ha arricchito notevolmente, sia
nell’ambito spirituale che nel campo della conoscenza personale del fratello
che, di volta in volta, apriva la sua casa agli studi. Ho avuto il privilegio di
avere una cellula di studio biblico settimanale per diversi anni a casa e ne ho
goduto delle benedizioni del Signore.
Sono quindi fondamentalmente d’accordo quando si parla di «chiesa in casa».
Ogni casa deve essere una chiesa altrimenti saremmo degli ipocriti, dei
«sepolcri imbiancati». Ma ritengo che per apprezzare l’insegnamento della
«chiesa in casa» dovremmo andare a monte e porci una domanda: cosa dobbiamo
fare nella nostra «chiesa»?
In primo luogo rendiamo gloria a Dio con un tempo di adorazione, e poi
passiamo (prima o dopo un tempo di condivisione fraterna) allo studio della
Parola di Dio.
Ed è su questo punto che allora mi viene in mente l’insegnamento di Gesù.
Per Gesù ogni luogo poteva essere «chiesa» e infatti vediamo che insegnava su un
monte (Mt 5,2), nelle sinagoghe (Mt 13,54, 21,23, Mc 1,21, 12,35, Lc 21,37,
ecc), sulla riva del lago (Mc 2,13), sui prati (Mc 10,1), da una barca (Lc 5,3).
ecc. Quindi personalmente non ritengo il luogo come importante ma saper
«adoperare» ogni luogo per portare la Parola di Gesù.
La chiesa, che dovrebbe essere in mano a Gesù Cristo, essendola sua sposa, è in
realtà in mano ai suoi conduttori, e i conduttori, come ognuno di noi,
vive nella carne.
Vorrei aver frainteso, ma da questa discussione mi sembra che stia uscendo fuori
che bisogna tornare alla «chiesa primitiva», o alla «chiesa in casa» e punto.
Ma a mio parere non è tanto importante dove d’incontra la chiesa (anche
Paolo, seppur salutando le varie «chiese in casa», insegnava nelle sinagoghe [At
18,4] e nelle scuole [At 19,9]), ma come è «condotta» la chiesa. I
conduttori hanno tutte le prerogative, che il Signore richiede per il
loro compito (seppur impossibile da raggiungere)? Hanno il sano «timor di Dio»
per il compito, che il Signore ha suscitato loro? Senza di questo, i credenti
dal cuore puro prima o poi si allontaneranno da questa chiesa.
Io amo la mia chiesa in tutti i suoi membri, anzi ho il privilegio poter
amare fraternamente due chiese, poiché oltre a quella di appartenenza, il
Signore mi ha dato il privilegio di collaborare in un’altra chiesa sorella in
formazione; e trovo anche che il riunirsi tutti insieme, nella pluralità
anche di emozioni, che scorrono all’interno di esse, è un grande
arricchimento personale. {30-07-2010}
10. {Maria-Teresa
Borgomastro}
▲
■
Contributo:
Non sono d’accordo con Nicola Martella, perché anche se uno vorrebbe
schiacciare quelle pustole per guarire, ha la chiesa contro. Infatti, la
chiesa stessa è stata soggiogata da individui, che si dicono credenti,
predicano, castigano i componenti della chiesa,
prendendo dei
provvedimenti (i fuori comunione) con facilità, come se loro fossero
superiori a tutto e tutti. E loro non guardano ciò che fanno le loro stesse
famiglie.
Perciò, come fai a rompere queste pustole?
{30-07-2010}
▬
Nicola Martella: Non so a quale realtà
particolare questa lettrice si riferisca. Nell’articolo non abbiamo contemplato
casi di fuori comunione con o senza «giusta causa». Ho parlato di
conduttori che, invece di essere allenatori, fanno i
domatori; certo, in tali casi, fanno uso ricorrente dei cartellini giallo
e rosso. Ho scritto in merito ai «provvedimenti
di fuori comunione» e all’«uso
e abuso della disciplina ecclesiale»; essi sono un tema particolare,
che ci porterebbe molto lontano da quello attuale. Chiaramente, di là dal caso
concreto di questa lettrice, anche l'abuso della disciplina di chiesa è un
caso di «chiesa senza» (competenza, qualità e preparazione dei conduttori).
Le cose affermate da questa lettrice formano l'altra faccia della medaglia
rispetto a quanto affermato da Antonio Santoro sopra, che assumeva la
disciplina di chiesa sempre come giusta ed equa.
In ogni modo, ognuno di noi ha subito delle ingiustizie da parte di
qualcuno, in autorità o meno. Chiaramente si può trovare nell’astio e nel
rancore una ragione di vita, ma che vita! Incidere le pustole e
purificarle avviene dinanzi al Signore e in funzione e in rapporto a Lui. È una
decisione che non dipende dai comportamenti altrui. Devo pensare a Isaia,
che ebbe la visione di Dio e fu purificato nelle labbra (doveva fare il profeta)
mediante un carbone dell’altare (purificazione, santificazione; Is 6). Solo così
poté diventare, insieme alla sua famiglia, un segno e un presagio in Israele.
Non possiamo impedire ciò che fanno gli altri, specialmente se guidano
chiese in modo ingiusto, ma possiamo metterci in sintonia con Dio e
vivere da persone nuove, che offrono a Dio il loro «culto razionale» nel (e col)
loro corpo (Rm 12,1s). Solo buttando giù la zavorra del passato, si può
volare più in alto nel presente. Io ho inciso e purificato molte delle mie
cisti, lo faccia anche questa lettrice; allora anche lei potrà vivere da segno e
da presagio.
11. {Matteo Ricciotti}
▲
Nota redazionale:
Per capire ciò che afferma questo lettore, bisogna leggere il primo contributo,
in cui Davide Galano e altri esprimono il loro pensiero, compreso me.
■
Contributo:
Dice il fratello Nicola Martella: «È tutta la questione sballata: una sala
individuata come luogo privilegiato di culto. Le sale sono un mezzo non un fine.
Esiste una vita di chiesa anche di là dalle sale. La chiesa siamo noi. La
chiesa primitiva,
a cui t’appelli e verso la realizzazione del cui modello affermi ci sia “tanta
strada da fare”, non conosceva sale di culto e non aveva complessi d’inferiorità
al riguardo. Pur contando migliaia di credenti, non costruì nessuna “mega
chapel”, ingaggiando i migliori architetti... Eppure cresceva e
s’inventava nuovi modi di radunarsi (At 2), di organizzarsi (At 6), di
espandersi (At 8). Gli obiettivi erano più importanti delle forme».
Insomma, le sale non vanno bene? Le cellule, sì? Questo nuovo termine,
cellula, da cosa nasce? Sarebbe meglio la sala o la cellula? Io conosco, nella
Bibbia, il senso di chiesa e di corpo che si riunisce in un dato luogo, in senso
fisico. Dunque, il
corpo è la chiesa, il luogo è il posto in cui la chiesa, il corpo, si
riunisce. Dire che la «questione è sballata...» non è giusto ed è,
secondo me, irriverente. Credo che stiamo cavillando su termini e
disquisizioni che non hanno senso, la questione non è la speculazione teologica
e filosofica. Il corpo di Cristo soffre a causa di disquisizioni che non portano
da nessuna parte.
Il problema è «i senza chiesa», e questo problema lo dobbiamo considerare
e affrontare. Chi ha lasciato la comune radunanza (Ebrei 10,25) si è
venuto a trovare in molteplici situazioni: chi ha deliberatamente scelto di
vivere secondo come meglio crede; chi è stato costretto perché è rimasto
deluso; chi per «scomunica» (i diversi papi...) e poi non gli è
permesso di ritornare; chi ha scelto di lasciare a causa di compromessi;
chi ha trovato una
nuova chiesa, o corpo, in cui esprimere la comunione fraterna per ritornare
a respirare e riprendere a vivere; ecc. Questo il problema, e su questo dovremmo
soffermarci.
«Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non
avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non
avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con
asprezza» [Ez 34,4].
«Le mie pecore si smarriscono per tutti i monti e per ogni alto colle; le mie
pecore si disperdono su tutta la distesa del paese, e non c’è nessuno che se ne
prenda cura, nessuno che le cerchi!» [v. 6]. {31-07-2010}
▬
Nicola Martella: Matteo Ricciotti, stiamo
dicendo la stessa cosa in due modi differenti; chi però vuol seriamente
contribuire a una riflessione, non banalizzi così il pensiero altrui,
altrimenti si capirà che ha compreso ben poco di ciò che l’altro affermava
in effetti. Prima bisogna veramente capire e poi bisogna rispondere senza
animosità. Mi viene il dubbio se tu abbia letto il mio articolo su questo
tema, visto che cavilli su una risposta data ad altri.
Io ho detto che mettere le sale al primo posto e come incarnazione della
chiesa locale e gli incontri in sala come unica espressione di socializzazione
ecclesiale, sballa la questione, poiché le sale sono un mezzo e non un fine.
La vita di «corporazione» («essere» corpo di Cristo o com-unità) è più
importante di dove ci s’incontra. La chiesa siamo noi, ovunque e sempre
stiamo servendo il Signore insieme. Se la chiesa comincia a casa nostra ed è
protesa ad accogliere e curare, chi vorrà lasciare da se stesso una «serra» così
coinvolgente?
Che ci sia un corto circuito fra sala e chiesa, è mostrato da quei
conduttori che, allontanando dei credenti dalla sala di culto senza giusta
causa, ma per mania di «addomesticatore», pensano di allontanarli dalla chiesa.
Che esistano «chiese senza» (qualità, vita, partecipazione, visione,
amore, ecc.), è mostrato da varie realtà locali, in cui la vita di chiesa si
riduce alla sola frequenza di due riunioni alla settimana, senza attese e
prospettive particolari, quasi si fosse un club religioso.
Tu stesso hai mostrato alla fine che si diventa «senza chiesa» non sempre
per malanimo o falso calcolo. Elaborare la molteplicità dei casi e della
problematica, ce ne fa rendere conto e ci aiuta a cercare soluzioni.
Inoltre l’alternativa non è fra chiesa e cellula, poiché quest’ultima è
solo una «chiesa in casa», dove per «chiesa» s’intende propriamente «raduno».
La ekklesia
è semplicemente il «raduno» di credenti per adorazione e comunione; il luogo è
secondario («chiesa in sala» o «chiesa in casa»), la qualità di vita in
tale corporazione non lo è.
Quindi, di là da questa situazione particolare, si fa sempre bene a capire
veramente prima il pensiero altrui nel suo complesso. Poi si fa bene a non
banalizzarlo
(p.es. «Credo che stiamo cavillando su termini e disquisizioni che non hanno
senso, la questione non è la speculazione teologica e filosofica»), poiché ciò
potrebbe mostrare di non aver colto il pensiero altrui e ciò diventa sempre un
boomerang. E, infine, si fa bene a tenere un profilo costruttivo, senza
animosità, poiché non sempre si è in grado di abbracciare una questione
complessa e illuminarne tutti gli aspetti; e nelle cose che si dicono, si
potrebbe apparire come chi ha capito poco del pensiero altrui o chi ha scoperto
l’acqua calda, avendo già detto altri le stesse cose.
12. {Autori vari}
▲
■
Claudia
Falzone:
Ottima analisi. Ne consiglierei la lettura a tutte quelle chiese di stampo
clericale (moltissime in tutte le denominazioni) {30-07-2010}
■
Volto Di
Gennaro:
Ci sono senza-chiesa per
molteplici motivi. Alcuni sono stati scacciati per futili motivi o
per «dottrina» di scarso valore: per loro ho simpatia. Alcuni sono stati
ingiustamente scacciati: a loro va il mio amore fraterno. Alcuni non
vogliono impegnarsi (la fede è anche impegno, milizia!»), preferiscono «il
mondo a Cristo»: non vorrei essere al loro posto! {30-07-2010}
▬
Nicola Martella: Questa volta, di là dalla
sintesi, questo lettore ha usato anche una grande precisione e chiarezza, basate
certamente sullo spirito d'osservazione e sull'esperienza diretta. Grazie.
■
Gina Odessa,
ps.:
Personalmente ho vissuto sentimenti simili a quelli di famiglia De Luca, con la
differenza di aver smesso di frequentare del tutto, dicendo il motivo (scrivendo
in e-mail, dopo che mi è stato domandato il motivo del mio allontanamento): mi
pare che si vive nella comunità nel compromesso... E io non posso e non voglio
far parte di tutto ciò. {30-07-2010}
▬
Nicola Martella:
Non conoscendo il caso di questa lettrice né l'altra campana, non posso dire
alcunché. Spero che, se le cose stanno così come lei afferma, abbai cercato una
chiesa viva e senza compromessi, invece di rimanere nel «deserto
dell'individualismo» e accrescere la schiera dei «senza chiesa».
■
Damiano
Federici, ps.:
Pur nuda e cruda, la verità dobbiamo accettarla e prendere atto della reale
condizione di tante chiese. Fra queste, descritte da te, metto la mia. Hai
toccato un punto dolente, che è «la chiesa senza», dove oramai gli
incontri (solo 2, preghiera il giovedì e domenica il culto) sono limitati a
pochissimo tempo, in quanto si hanno «cose da fare». Quello che hai scritto mi
ha toccato in modo particolare e vorrei poter fare qualcosa in modo
concreto, oltre a pregare per questa condizione. Ti ringrazio e prendo il
messaggio come da parte del Signore. Tuo fratello in Cristo, Manfredi.
{30-07-2010}
■
Salvatore
Paone:
Ogni nato di nuovo dovrebbe essere parte integrante di una comunità
locale. Il nostro fondamento ossia la pietra angolare è Cristo Gesù e il nostro
appoggio e sugli Apostoli e profeti (sola Scrittura). Ogni chiesa locale forma
di per sé il
corpo di Cristo e noi siamo membri
di questo corpo e Cristo stesso ne è il Capo.
Inoltre facciamo parte della famiglia di Dio,
essendone coeredi ed eredi e concittadini dei santi. {30-07-2010}
■
Gianni Siena:
Essere parte viva di una chiesa non è una cosa, che possa essere fatta
con sforzi di tipo: «Devo riabituarmi ad andare in chiesa, con l’aiuto del
Signore». L’aiuto di Dio è sempre di un certo «tipo»: Egli tocca il cuore
della persona e questa scopre quanto sia meraviglioso avere comunione con Dio e
con i suoi figli. Così la chiesa primitiva, così i vari movimenti di risveglio.
Tuttavia, quando lo zelo s’affievolisce, nulla lo può riaccendere, salvo,
lo Spirito Santo. Egli è sempre pronto a donare nuovo zelo e slancio alla
fede. Dio vi benedica. {30-07-2010}
13. {Francesco
Abortivi}
▲
Credo che esista un momento per aspettare e sottomettersi, uno per
denunciare e anche uno per andarsene. Il problema non è cosa si fa, ma perché
lo si fa. Se scappo solo per egoismo, paura, insofferenza sono in torto; se
rimango giudicando
e lamentandomi, anche. Se scelgo un’altra strada nella pace, convinto che sia il
meglio non solo per me, può essere buono, come può essere buono cercare di
cambiare dall’interno con un atteggiamento positivo e costruttivo. Il problema
sono il nostro atteggiamento e le nostre vere motivazioni.
La chiesa in casa
(ma a volte anche le cellule) segue la stessa regola... se diventa un modo
per scappare da una chiesa, che non ci piace per non subirne l’influenza e
l’autorità, per orgoglio o individualismo, non ci siamo. Se è un modo per
migliorare la comunione fraterna e impegnarsi maggiormente insieme, è
ottimo! Ripeto, il problema è il nostro cuore, non il «metodo».
{31-07-2010}
14. {Gaetano Nunnari}
▲
Abbiamo attraversato anche noi un periodo abbastanza
lungo di senza chiesa. È stata una rivoluzione mentale in un certo senso,
non priva di dolori. Dopo aver coltivato per anni dubbi dottrinali sulle
pratiche pentecostali e ancor di più sulla cosiddetta «dimensione carismatica»
in palese contrasto con gli insegnamenti biblici, e dopo esserci rimessi nelle
mani del Signore, abbiamo lasciato il circolo pentecostal-carismatico, che noi
consideravamo chiesa, e ci siamo presi un periodo sabatico, per fare la
scelta giusta. Nicola conosce bene la nostra situazione, e lo ringrazio per le
sue preghiere e il sostegno che ci ha dato.
Qui dalle nostre parti, in Ticino siamo letteralmente infestati da guru
carismatici, e non è stato facile trovare una chiesa biblica. La voglia
di comunione fraterna ci ha portato a frequentare per un anno una comunità
all’estero, ma i lunghi spostamenti, e la consapevolezza che una comunità
così lontana non poteva essere una chiesa locale, più altre questioni subentrate
in seguito, ci hanno fatto smettere di continuare le visite. Ciò nonostante
abbiamo instaurato delle buone amicizie con diversi fratelli. Finalmente adesso,
con l’aiuto di Dio abbiamo trovato una comunità che frequentiamo con piacere.
Certo avere una stretta comunione con altri fratelli e sorelle in Cristo è
qualcosa di fondamentale e che anche noi auspichiamo. Oltre a ciò, considero
anche le parole di Gesù quando disse riguardo agli ultimi tempi: «L’iniquità
aumenterà, l’amore dei più si raffredderà» (Matteo 24,12). Siamo negli
ultimi tempi e dobbiamo mettere in conto anche ciò. Tuttavia questo non
giustifica un nostro atteggiamento superficiale, il fatto che dobbiamo sempre
riformarci alla Parola del Signore resta un dovere. {02-08-2010}
15. {}
▲
16. {}
▲
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Senza_chiesa_Avv.htm
29-07-2010; Aggiornamento: 22-09-2014
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