1. MUTAMENTI NEI SINGOLI E NELLE CHIESE:
Per i «senza chiesa» intendiamo qui quei credenti che non frequentano
nessuna chiesa locale. Per «chiese senza…» (partecipazione, vita comune,
operosità, fermento, ecc.) intendiamo qui quelle comunità che limitano la
vita di chiesa agli incontri settimanali nelle sale di culto. In questo
punto parleremo della speciale situazione delle Assemblee dei Fratelli, ma essa
può essere estesa anche alle altre chiese simili.
Mi sono state richieste e sollecitate le mie valutazioni riguardo a un
editoriale di Paolo Moretti dal titolo «Cristiani senza chiesa?» («Il
Cristiano», luglio 2010, n. 7, anno 123). Silvano Creaco ha riprodotto tale
scritto, per avviare una discussione (link).
L’articolo è generalmente condivisibile. Anch’io sono contattato di frequente
dai «senza chiesa» e conosco le loro valutazioni e le loro giustificazioni,
oltre ai loro problemi. Ciò, che dico qui di seguito, non vuole creare un
contrasto con le asserzioni di tale editoriale, ma un’integrazione dialettica.
Consigliamo vivamente prima la lettura di tale interessante articolo, per poi
capire questo.
Mi verrebbe da intitolare tale editoriale come «Cristiani senza frequenza di un
locale?», oppure «Cristiani senza vita comunitaria?». Perché dico questo? Nella
giustificazione riportata si fa dire a tale persona: «…da tempo non frequento
più gli incontri della chiesa»,
invece che «…da tempo non frequento più
la chiesa». La differenza non è da poco. Infatti, non è in corso
soltanto la «disaffezione verso la propria chiesa locale», accompagnata
dal «proprio individualismo», come fa giustamente notare l’autore, ma è
mutato da molto tempo proprio «l’essere chiesa locale», che si riduce a
frequentare incontri, spesso ritualizzati, in un locale di culto.
In tal modo è mutata l’essenza e lo spirito delle prime Assemblee dei Fratelli.
Una volta ci s’incontrava come «tutti dinanzi a tutti» intorno al Signore
e alla sua Parola, senza formalità e ritualismi, dovunque fosse possibile,
preferibilmente nelle case. Qui si condivideva la Parola, le esperienze, la
vita, gioie e dolori. I più maturi, spiritualmente parlando, erano precettori e
curatori d’anime per i più giovani nella fede.
Poi, col tempo, ci si assimilò agli altri movimenti e chiese. Ci si mise in fila
indiana in sale di culto, guardando avanti verso un pulpito. Gli incontri si
formalizzarono e ritualizzarono e si assunse il modello di «pochi dinanzi a
tutti», relegando la maggioranza a passivi spettatori. La Parola partecipata
fece posto alle predicazioni di pochi, senza scambio, senza domande e senza
osservazioni.
È vero, coloro che non frequentano più gli «incontri della chiesa» dovrebbero
«rivedere la loro scelta e soprattutto le loro giustificazioni», ma
dovrebbero farlo anche le chiese locali, tornando a essere «comunità» a
pieno tempo, fuori e dentro gli incontri, fuori e dentro le case. Bisogna
tornare a essere chiese partecipate, in tutti gli aspetti della vita!
Le Assemblee dei Fratelli avevano cercato d’imitare l’evidenza storica
della chiesa primordiale (At 2,41-44), evidenziando la «comunione fraterna» e lo
«stare insieme» specialmente nelle case. Se nel progetto divino non è
cambiato nulla riguardo ai discepoli di Cristo, molte cose sono mutate nelle
Assemblee. La «scelta di fede» e la «scelta di vita» comune dei discepoli sono
connesse e coerenti, ma ciò non si può limitare a incontri, spesso formali, in
locali di culto, in cui poi pochi parlano e la maggioranza ascolta e non ha
possibilità di partecipazione attiva. Certo, «vivere in modo diverso equivale a
porsi al di fuori del progetto di Dio», ma ciò vale sia per i «senza chiesa»,
sia per le «chiesa senza» (vita, partecipazione, pari consentimento,
fermento, ecc.).
Comunione
è dialogo di vita in tutti i suoi aspetti e gli incontri di chiesa ne sono
soltanto un proseguimento o, tutt’al più, un apice qualificato. Spesso mi viene
il sospetto che per «chiesa locale», s’intenda il «locale di chiesa» e non tanto
la «comunione dei santi»; infatti, solo un locale può essere paragonato a un
«negozio», come fa l’autore.
Chi potrebbe mettere in dubbio «l’evidenza dottrinale» del corpo e delle
sue svariate e multifunzionali membra? (1 Cor 12,13s). Vivere fuori del
corpo fisico significherebbe per ogni organo la sicura morte, vista la sua non
autosufficienza. Tuttavia, un organismo non è tale soltanto quando mangia e
beve, ma lo è sempre. Allo stesso modo non si è corpo di Cristo soltanto quando
si va agli «incontri di chiesa», né quando in essi la maggior parte delle
membra rimane passiva dinanzi a poche e iperattive membra particolari.
Coloro che
sono chiesa in casa e fuori di essa, non scelgono di «vivere lontano
dalla chiesa», né hanno bisogno della giustificazione di avere il Signore sempre
con sé. Essi cercano continuamente le altre membra e sono da queste cercati. Gli
incontri comunitari, ovunque essi avvengano, sono soltanto un’estensione
qualificativa della partecipazione attiva alla Parola incarnata nella vita di
«tutti dinanzi a tutti».
Spero che le
Assemblee dei Fratelli ritornino alla evidenza storica e dottrinale delle
prime chiese del nuovo patto e allo spirito partecipativo che le animava alla
loro origine.
2. ALCUNI APPROFONDIMENTI:
Il titolo, che avrei anche potuto dare, è il seguente: La chiesa siamo noi. Il
seguente supplemento di osservazioni nasce dalla riflessione o dalla reazione
riguardo a ciò che altri hanno scritto in merito.
■ Se non si va semplicemente in chiesa, ma si è comunità, non è
comprensibile quando i discepoli di Cristo, che vivono un’intensa comunione,
non s’interessino nella vita quotidiana di contattare le membra isolate. Se
esiste un rapporto intimo e di cura personale all’interno della famiglia locale,
esso non si esaurisce, uscendo da una sala di culto. Il problema non è soltanto
chi è assente, ma chi non sente l’assenza e non crea occasioni e forme
per coinvolgere nella comunione, sebbene ne abbia la responsabilità.
■ Quando si parla d’individualismo del singolo, bisogna parlare anche
delle cause, ad esempio l’individualismo di chiesa, che vive come pianeta
religioso a sé, chiuso verso l’esterno. Inoltre si tratta di chiese che non sono
più famiglie
che accolgono e in cui si può vivere, ma club religiosi da frequentare per
appagare bisogni specifici e i cui membri non hanno quasi nulla da fare gli uni
con gli altri nella vita reale. In famiglie spirituali, in cui tutti sono
sinceramente interessati agli altri membri e curano
tutti in senso globale e nella vita reale, è più difficile isolarsi.
■ Non basta predicare su concetti biblici quali «pari consentimento»,
«unità», «gli uni gli altri», «reciprocamente» e così via. Bisogna anche
praticarli nella vita reale e creare occasioni e forme (otri nuovi) perché ciò
avvenga. È difficile allontanarsi da una chiesa coinvolgente e partecipativa.
■ Ci si può
incontrare per il peggio e non per il meglio, per rimarcare divisioni,
invece di ricercare ciò che edifica (1 Cor 11,17s); per rimproverare, invece
d’incoraggiare. Si ammantano i frutti della carne con parvenze spirituali.
Alcuni escono allora da tali incontri feriti e pieni di astio, senza che
poi si faccia qualcosa per chiarire e risolvere le cose. L’altra parte della
medaglia sono animi ipersensibili, che sono presto feriti, confondono il
«non giudicate» e il «giudicate voi», prendono tutto in modo troppo personale e
subito s’isolano, invece di chiarire.
■ A quanto appena detto si aggiunga che, a volte, la «linea» e le
convenzioni denominazionali sono più importanti delle persone e della nuova
riflessione su come incarnare l’antico messaggio biblico nella realtà sempre
nuova. «Otri vecchi» (convenzioni) e «vino nuovo» (nuovi fermenti) creano
scintille; a volte si scontrano falsi tradizionalismi e falsi progressismi.
Invece di dialogare con pazienza e apertura mentale con la Bibbia alla mano, per
cogliere il messaggio proto-cristiano e distinguerlo dai «contenitori culturali»
vecchi e nuovi, si preferisce isolare coloro che sono visti come un «problema»
per la «linea».
■ Lo stesso dicasi dei programmi e del tipo d’incontri. Ho già
parlato sopra di chiese coinvolgenti e partecipate, disposte a mutare le forme
per alimentare maggiore comunione e fermento spirituale. Se la chiesa sono
persone e non le sale, bisogna orientarsi alle prime (anime) e non alle seconde
(mattoni).
■ Se nella chiesa primordiale «tutti
quelli, che credevano, erano insieme» (At 2,44) e cioè «tutti i giorni… prendevano il loro cibo insieme con
letizia e semplicità di cuore» (v. 46), è evidente che mutarono le usuali
convenzioni, che li vedeva frequentare le sinagoghe soltanto di sabato (Lc 4,16;
6,6; 13,10; At 13,14; 15,21; 18,4) e a Gerusalemme le funzioni templari (At
3,1). Inoltre, essi dislocarono nelle case il loro baricentro e
inventarono forme di mutuo soccorso (vv. 44ss). È evidente che essi,
incontrandosi, non partecipavano solo alle riunioni, ma alla vita comune. In
tale fermento nuovo, che creava forme nuove di socializzazione religiosa e
umana, era tutto un aggiungere alla comunità (v. 47), non un allontanarsi
da essa per motivi d’individualismo o di opportunismo.
■ Oltre a quanto già detto, si aggiunga che il freno al rinnovamento sono spesso
gli stessi conduttori delle chiese, che dettano la «linea». Come ho avuto
modo di ricordare altrove, ce ne sono di due tipi: gli addomesticatori e gli
allenatori. I «domatori» ci tengono a tenere tutti sotto controllo e
dipendenti dalla propria carica; per cui soffocano ogni fermento e rinnovamento
in nome dello status quo. Gli «addestratori» allenano la squadra
secondo le potenzialità e i bisogni di ogni individuo, aspirando alla crescita
d’ognuno, alla moltiplicazione dei collaboratori e all’espansione dell’opera. I
primi vedono convenzioni e forme così importanti quanto la «sana dottrina» e
considerano ogni fermento e cambiamento come deviazione e peccato.
3. INGANNO DEGLI ISOLATI:
Chi s’isola da una chiesa locale e non ne cerca un’altra, lamenta in genere che
nessuno lo cerca, nutre in sé atteggiamenti di reazione e cerca argomenti
«biblici» (o scusanti) alla propria condizione. Anche qui la mente suggerisce
raffinate «soluzioni» biblicizzate. Ecco qui di seguito due esempi concreti.
■ L’altro risvolto della medaglia a quanto detto sopra, è pensare alla «chiesa»
come una «meta-entità», una specie di mamma o di chioccia, che e
va a trovare a casa i «pulcini», raduna tutti i membri e li striglia. La chiesa
locale sono persone che desiderano stare nella stessa barca. Sebbene sia
comprensibile il lamento di coloro che affermano che nessuno li vada a
trovare a casa propria o nessuno le inviti, non è condivisibile. A tali
persone chiedo:«Quand’è l’ultima volta che hai invitato altri credenti a casa
tua? Perché non hai offerto casa tua come luogo di riunioni d’interesse
(cellule, riunioni di donne, ecc.)?». Spesso le loro risposte sono misere. Tanto
più povere sono le risposte di coloro che si allontanano per anni dalla chiesa
(= altri credenti) e lamentano che nessuno li sia andati a trovare. Non è
coerente predicare che crediamo al sacerdozio universale (e non nelle cariche
ecclesiali) e che ogni casa debba essere una chiesa (= un luogo dove Dio viene
adorato e servito; cfr. Rm 16,5; 1 Cor 16,19; Col 4,15; Flm 1,2), e poi
lamentare che nessuno ci venga a trovare!
■ Un altro inganno dell’individualismo è spiritualizzare la chiesa in
senso così universale, come una specie di supermamma, per poi relativizzare ogni
chiesa locale. Da ciò consegue che gli uni fanno i «girovaghi» da
comunità a comunità, senza mai fermarsi. Altri rinunciano del tutto a
frequentare chiese locali e si sono creati «chiese telematiche», in cui
fanno da maestri incontrastati.
Mi si mostri dove ricorre nel NT il concetto di «chiesa universale»; ekklesía
è nel NT sempre «raduno, riunione, assemblea» concreta di credenti in un luogo o
somma di tali comunità. Così, per fare un esempio delle stesse entità, si
parlava della «chiesa, che era in Gerusalemme» (At 8,1) e della «chiesa,
per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (9,31); oppure delle «chiese
della Giudea, che sono in Cristo» (Gal 1,22) e delle «chiese
di Dio, che sono in Cristo Gesù nella Giudea» (1 Ts 2,14).
Eppure, nonostante ciò, tali «senza chiesa» locale, unica e concreta, pretendono
di avere carismi, come quello del discernimento spirituale, e di poterli
esercitare a prescindere dal vivere o meno in una reale e concreta corporazione
di credenti. Nella Bibbia è scritto però che Dio dà i carismi (= azioni
di grazia) in funzione del servizio e dell’edificazione del corpo di Cristo (1
Cor 14,12). Lo stesso valga per le funzioni ministeriali, che sono dati «per
l’equipaggiamento dei santi riguardo all’opera del servizio, per la costruzione
del corpo di Cristo…» (Ef 4,11ss). Mi rimane un mistero come si possa
equipaggiare i santi al servizio, senza fare l’allenatore in mezzo a loro!
Si pretende di avere lo «Spirito» e i suoi carismi particolari, pur non
sapendo la tabellina elementare! Si sostiene che lo Spirito Santo potenzi e usi
efficacemente «battitori liberi» e istitutori di «chiese virtuali»! Il
rischio è che il narcisismo trasformi tali credenti isolati in persone, che
credono di possedere particolari carismi e funzioni ministeriali, in guru e
santoni, che cercano prestigio su altri e non sono sottomessi a nessuno.
►
Cristiani senza chiesa? Parliamone {Nicola Martella} (T)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Senza_chiesa_UnV.htm
28-07-2010; Aggiornamento: 30-07-2010 |