Il grande
interesse per la Parola di Dio
Mi chiamo Fiorina Pistone e saluto tutti i lettori del sito, in particolare
quelli che mi hanno conosciuta come cattolica romana. Ora, a sessantaquattro
anni, da un po’ di tempo frequento una chiesa evangelica.
Nei miei ultimi decenni di professione della fede cattolica sono stata molto
praticante, perché avevo constatato che la preghiera assidua, fatta con
totale abbandono a Dio, cambia molto il cuore d’una persona, mentre i semplici
sforzi personali non approdano a nulla.
Ero comunque una cattolica piuttosto critica, a cui, per esempio, quasi
tutti i dogmi mariani davano fastidio, perché mi sembrava che esaltassero
in modo eccessivo una creatura. Inoltre constatavo che alcuni cattolici
confondevano i dogmi mariani tra loro: per esempio per alcuni l’immacolata
concezione diventava la perpetua verginità e la perpetua verginità diventava
l’assenza di peccato, e ne deducevo che la dottrina della mia Chiesa era troppo
complessa. Mi pareva, poi, che questa complessità distraesse molti fedeli dai
concetti essenziali della fede cristiana.
Io mi facevo un problema di questa mia difficoltà ad aderire integralmente
all’insegnamento della mia Chiesa e, avendo imparato ad affidare a Dio tutti i
miei problemi, soprattutto quelli spirituali, gli dicevo: «Signore, fammi
credere ciò che tu vuoi». In questo modo ritrovavo la pace.
Io ho sempre avuto un grande interesse per la Parola di Dio. Ero tra gli
undici e i dodici anni quando una domenica, entrata in chiesa troppo presto e
sedutami in un banco, vidi davanti a me un messale (libro per seguire la messa)
che conteneva molti brani del Vangelo e, apertolo, m’imbattei nel versetto che
dice: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo
via da te…» (Matteo 5,9). Io, pur senza capire il collegamento coi versetti
precedenti, ne fui affascinata. Fino ad allora avevo conosciuto, attraverso i
testi scolastici, solo alcune passi che parlavano della misericordia di Dio,
come, ad esempio, la storia del figliol prodigo; ma, da soli, non mi facevano
una così forte impressione. Per la prima volta conoscevo, direttamente
attraverso il testo biblico, non solo il Dio misericordioso, ma anche il Dio
esigente, che faceva agli uomini la proposta di un’amicizia autentica,
offrendo e chiedendo fedeltà con un linguaggio pieno di forza.
Ormai desideravo di possedere un Vangelo completo, ma vi riuscii soltanto a
sedici anni. A diciassette anni entrai di nuovo in libreria per chiedere una
Bibbia. Me ne proposero una incompleta, ma che tuttavia conteneva per intero
diversi testi comuni a tutte le Bibbie cristiane che non conoscevo ancora, come
la Genesi, l’Esodo, il primo e secondo libro di Samuele, Ruth, Ester, Giona, gli
Atti degli Apostoli. C’erano, inoltre, molti passi dei Profeti e alcuni Salmi.
Per il momento avevo un’ampia disponibilità di letture bibliche, che affrontavo
da sola, con l’aiuto delle poche note, perché a quei tempi i cattolici
leggevano, quando andava bene, il Vangelo, e la mia zona era ancor meno
favorita, dato che abitavo in campagna, in una frazione dove c’era un unico
prete, e poco motivato. Più avanti v’aggiunsi le Lettere degli apostoli, e
infine mi comprai una Bibbia completa (ormai c’era stato il Concilio Ecumenico e
nella parrocchia dove mi trovavo in seguito al mio matrimonio era giunto un
prete che amava la Scrittura e organizzava serate bibliche).
La
lettura della Bibbia spesso per me comportava problemi di comprensione, ma
nel complesso ha sempre rafforzato la mia fede, e a volte mi ha anche fatto
ritornare, dopo periodi d’oscurità.
Ormai per me non era più difficile approfondire: possedevo sempre più Bibbie ben
fornite di note e i preti della mia parrocchia a volte mi davano spiegazioni.
Salvati per
grazia o per opere?
Io avevo sempre avuto interesse per le credenze religiose degli altri, in
particolare per la dottrina dei «protestanti». Quando facevo il liceo
sentivo dire dai miei insegnanti che loro pensavano di salvarsi soltanto per
fede e mi sembrava strano, perché nella Chiesa Cattolica, quando si parlava di
fede, s’intendeva di solito la semplice adesione mentale: come potevano queste
persone pensare di salvarsi con così poco? Solo diversi anni più tardi, quando
il Concilio Ecumenico era ormai finito (1965), cominciai a sentire alcune
spiegazioni più esatte del concetto di salvezza per fede dei protestanti.
V’erano persone che cominciavano a rendersi conto che, su questo punto, i
protestanti non erano stati capiti.
Il
Concilio Ecumenico aveva dato una definizione di fede (abbandonarsi a Dio
totalmente, prestandogli l’ossequio dell’intelligenza e della volontà) ben più
completa di quella a cui eravamo abituati, ma essa stentava a farsi strada nel
parlare quotidiano dei cattolici, anche dei nostri preti.
Io, nel leggere la Bibbia, trovavo la proclamazione di questa verità soprattutto
nelle lettere di Paolo.
A volte leggevamo la Bibbia in gruppo, in parrocchia, e capitò anche di leggere
che siamo stati salvati per fede. In quel momento c’era con noi un prete e
qualcuno gli chiese: «Ma ci si salva per fede o per opere?». Il
prete rispose: «Occorrono la fede e le opere». Io avrei voluto dire che le opere
nascono dalla fede, intesa come affidamento a Dio, ma in genere quel discorso
non veniva recepito.
Dopo il Concilio Ecumenico la Chiesa Cattolica aveva cominciato a colloquiare
con i Luterani, e infine ciò diede il frutto che io da tempo desideravo: nel
1999 la Chiesa Cattolica e quella Luterana firmarono una dichiarazione comune
in cui due autorevoli rappresentanti delle due Chiese riconoscevano che l’uomo
si salva per grazia divina, accogliendola in un umile atto d’affidamento a Gesù.
Io ne fui molto contenta: pensavo che finalmente i preti avrebbero smesso di
dirci che per salvarsi occorrevano la fede e le opere, e ci avrebbero invece
spiegato che la vera fede consisteva nel chiedere a Dio la grazia d’essere
liberati dalla forza del peccato per fare la sua volontà. Così difatti avvenne,
ma vi fu presto una contraddizione: appena un anno dopo, nel duemila, il papa
indisse il giubileo, concedendo l’indulgenza plenaria
(remissione totale delle pene del purgatorio) a chi, confessato e comunicato,
avrebbe compiuto determinate opere di fede (preghiere, visita a una cattedrale,
elemosina).
Io pensavo che non era così che si poteva progredire spiritualmente, andando
davanti a Dio con la pretesa di meritare qualcosa perché s’erano compiute
determinate cose.
Nella mia delusione mi sentii vicina ai Luterani che protestavano per la
concessione dell’indulgenza e mi rammaricavo che questo potesse essere un
ostacolo al dialogo tra le nostre Chiese.
Approccio
telematico con gli evangelici e questioni cruciali
Passò qualche anno e mia figlia, che già s’era fatta comprare il computer per
battere la tesi di laurea, richiese il collegamento a internet per un corso di
specializzazione.
Trovandomi a disposizione questo strumento, anch’io imparai a «navigare», così
m’imbattei nelle prime persone di fede evangelica, e capitai, infine, sul sito
di Nicola Martella. Quello che m’attraeva nel sito «Fede controcorrente»
era la presenza di continui dibattiti su problemi di teologia e d’etica
cristiana. Cominciai anch’io a proporre interventi, che spesso venivano
pubblicati e discussi.
Avevo imparato, nei miei viaggi sulla rete, che uno dei principali punti di
discussione e di critica degli Evangelici nei confronti dei Cattolici era il
culto di Maria e dei Santi. Io non trovavo che vi fosse alcun male
nel chiedere a persone defunte, e che si riteneva fossero state particolarmente
fedeli a Dio, di pregare per noi. Non mi pareva che si potesse definire tutto
ciò idolatria, perché queste persone erano soltanto umili servi del Signore, e
soltanto per questo noi rivolgevamo loro le nostre preghiere, e ponevamo
talvolta un mazzo di fiori davanti alla loro immagine.
Quanto alla proibizione del culto delle immagini d’Esodo 20,4, la conoscevo
benissimo, ma pensavo che fosse una norma da non ritenersi più valida nella
Nuova Alleanza.
Anche Nicola Martella e un suo amico, Argentino Quintavalle, presto proposero
quest’argomento di discussione e m’invitarono a intervenire. Io difesi le mie
idee, dicendo che, come chiedevo alle mie amiche di pregare per me, ritenevo di
poterlo chiedere anche a Maria e che la Bibbia, secondo me, non proibiva di
pregare i morti, come loro sostenevano, citando Isaia 8,19, ma soltanto di
consultarli. Dissi anche che noi cattolici non adoravamo Maria e i santi, ma ci
limitavamo a venerarli.
Altre cose che mi dissero, come il fatto che di Maria nella Bibbia si
parla pochissimo e che le preghiere in tutta la Scrittura sono sempre
indirizzate soltanto a Dio, non mi fecero alcuna impressione, perché già le
sapevo e non mi facevano problema. Non che io fossi assolutamente certa delle
mie convinzioni; anzi, il mio carattere è più portato al dubbio che alla
certezza, e il dubbio per me diventa stimolo alla ricerca, per cui sono stata in
ricerca quasi tutta la mia vita. Però dentro di me pensavo: «Dopotutto le nostre
preghiere hanno Dio come termine ultimo, e se non è Maria o qualche altro Santo
a riceverle per primo, Dio certamente le accoglierà direttamente nelle sue
mani». [►
Che pensare del culto a Maria e ai santi?]
Dopo alcuni successivi interventi dei miei interlocutori, la discussione ebbe
termine, ma dentro di me frullava ancora un’idea che stentava a prendere corpo:
in che senso prostrarsi davanti ad una creatura (ma ai nostri tempi mi
sembra meglio parlare d’inginocchiarsi, perché nella Chiesa Cattolica ci si
prostra raramente, e solo davanti a Dio) doveva essere proibito, dal momento che
nell’Antico Testamento (e anche nel Nuovo) questo gesto appare così comune, e
vediamo che, ad esempio, Giuseppe si prostra davanti al padre Giacobbe (Genesi
48,12), Mosè davanti al suocero (Esodo 18,7) e così in molti altri casi? In
particolare m’aveva colpito un fatto: in Apocalisse 19,10 e 22,8 Giovanni si
prostra di fronte a un angelo, e viene da quest’ultimo severamente ammonito,
però lo stesso gesto viene addirittura incoraggiato da Gesù nei confronti del
responsabile della Chiesa di Filadelfia in Apocalisse 3,9. Da che cosa dipendeva
questa differenza? Per me la spiegazione era questa: in Apocalisse 19,10 e 22,8
si trattava d’adorazione, mentre in Apocalisse 3,9 si trattava di venerazione, e
le due cose differivano nel senso che l’adorazione comporta il riconoscimento
d’una signoria assoluta, la venerazione è un semplice atto d’umiltà di fronte a
chi ha raggiunto un grado eminente di perfezione spirituale.
Venne il momento in cui mi decisi a proporre la mia interpretazione a Nicola
Martella.
Egli mi rispose invitandomi a leggere un articolo che aveva collocato
appositamente sul sito: «Adorare
e venerare: una differenza legittima?». L’articolo rimandava a
un altro: «Prostrarsi
ai tempi della Bibbia». Entrambi gli articoli erano stati da
lui scritti per l’occasione.
Al termine del primo articolo, che a un certo punto richiedeva la lettura del
secondo prima di proseguire, Nicola m’esortava a «avere l’onestà di riconoscere
la verità che rende liberi», facendo «una scelta radicale».
Mi stupii d’una richiesta così drastica, perché nei due scritti non mi pareva
d’aver trovato niente di nuovo. Il secondo conteneva una moltitudine di
citazioni bibliche, tratte da brani che conoscevo, e classificate secondo lo
scopo che i protagonisti dei vari passi si proponevano di conseguire di volta in
volta con il loro gesto di prostrarsi: offrire sottomissione, rivolgere una
supplica ecc.
Io, comunque, sono solita rileggere, anche a distanza di tempo, gli scritti per
cui provo un certo interesse, e anche quelli a cui gli altri attribuiscono un
interesse che a me non appare evidente, per capirne le ragioni. Letture
successive mi danno spesso l’occasione d’approfondire la lettura con ricerche,
e, se si tratta di questioni a carattere biblico, il principale strumento di
ricerca diventa allora per me la Bibbia. A distanza di circa dieci mesi, andai
così a rileggermi tutte le citazioni fatte da Nicola Martella nell’articolo «Prostrarsi
ai tempi della Bibbia», approfondendole nel contesto biblico,
e mi resi così conto d’una differenza che non m’era mai stata chiara: nella
Bibbia gli angeli a volte sono creature con una propria esistenza
autonoma, mentre altre volte sono semplici manifestazioni di Dio.
Nel primo caso, diceva Nicola Martella nell’articolo, la Scrittura proibisce di
prostrarsi davanti a loro, essendo appunto creature (è il caso d’Apocalisse
19,10 e 22,8) nel secondo, invece, il gesto è lecito. Quanto agli esseri
umani in carne e ossa, è lecito prostrarsi davanti a loro in segno di
sottomissione o di supplica (così Nicola Martella spiegava l’episodio
d’Apocalisse 3,9), ma non per venerazione religiosa.
Io, inizialmente, avevo letto lo scritto di Nicola Martella senza cogliere il
filo logico che lo percorreva, ma non me ne rendevo neanche conto, essendomi
smarrita tra le molte citazioni.
Ero ormai in piena crisi, e ne ero, oltre che vivamente addolorata, anche
alquanto sbalordita: il progresso che avevo fatto nella mia conoscenza della
Bibbia mi sembrava, in fondo, modesto; eppure, quasi all’improvviso, mi sentivo
più evangelica che cattolica. Mi sentivo come se, facendo un solo passo, mi
fossi trovata, con mia sorpresa, in una stanza diversa.
Cominciò dentro di me una lotta estenuante: continuavo a domandarmi se
era proprio da questa parte della parete che dovevo stare. Spesso al mattino mi
svegliavo evangelica e alla sera ero di nuovo cattolica, e a volte succedeva
anche l’inverso.
Continuavo a frequentare la chiesa della mia parrocchia, ma non m’univo più alle
preghiere mariane, però il fatto di trovarmi in Chiesa mentre venivano recitate
mi faceva sentire in una condizione d’ambiguità, come di chi non dà una
testimonianza sincera.
Io chiedevo a Dio di farmi compiere la a sua volontà e, nei momenti in cui mi
sentivo maggiormente inclinata verso la fede evangelica, gli chiedevo
semplicemente la forza d’andarmene.
Approccio
diretto con gli evangelici
In uno di questi momenti telefonai al pastore della chiesa pentecostale
A.D.I. della mia città per cominciare a «rompere il ghiaccio» e fargli alcune
domande: gli chiesi, per esempio, se nelle riunioni di preghiera avrei dovuto
indossare il velo. Egli, sentendomi angosciata per la decisione che dovevo
prendere, s’offrì di mandarmi sua moglie a farmi visita. La accolsi con
sollievo, pensando che ero riuscita a fare un primo passo, ma le dissi che
cambiare Chiesa significava per me avviarmi su d’una strada molto difficile. Lei
mi disse: «La strada è Gesù», e prima d’andarsene condivise una preghiera con
me, chiedendo a Dio di darmi luce.
Veramente, più che di luce, io sentivo il bisogno di ricevere forza. Temevo,
infatti, l’opposizione dei miei famigliari, e soffrivo all’idea che non
sarei più andata in chiesa con mia figlia, e che avrei perso le poche amicizie
che avevo cominciato a farmi a Novara, dove risiedevo da poco tempo. Inoltre la
nuova chiesa, in cui avrei voluto andare, distava almeno quattro chilometri da
casa mia, io non guidavo la macchina e la località non mi sembrava abbastanza
servita dai mezzi pubblici.
Dopo un po’ di tempo decisi di recarmi a una riunione di preghiera in
questa nuova chiesa, e in seguito la frequentai per alcune settimane.
All’inizio mi sentii più serena, perché finalmente ero riuscita a decidermi, ma
poi cominciai a sentirmi piena di sensi di colpa verso tutte le persone
della chiesa cattolica da cui avevo ricevuto amicizia e aiuto, e il suono delle
campane della mia parrocchia m’appariva come un richiamo dolcissimo e
struggente.
Devo anche dire che il modo di pregare dei pentecostali m’appariva poco
confacente al mio temperamento, perché spesso prorompono tutti assieme in
suppliche ed esclamazioni di lode, e io sono lenta di riflessi e a volte fatico
a seguire anche una sola persona che parla, perciò nelle riunioni di preghiera
mi capitava di sentirmi stanca e confusa.
Tutte queste ragioni si cumularono assieme e, unite ai dubbi dottrinali che
ancora avevo e alla distanza della chiesa evangelica, m’indussero a ritornare
nella chiesa cattolica, col proposito di restarci per sempre.
Così feci, ma non ero serena e ormai m’era anche difficile fare amicizie: non
potevo dire a tutti che non volevo pregare Maria e i Santi e perciò non
partecipavo neppure ai pranzi in parrocchia e alle gite parrocchiali, perché
c’era sempre il pericolo che qualcuno mi dicesse: «Vieni a dire un rosario con
me?».
Ricominciai a pensare che forse era meglio che tornassi alla chiesa evangelica,
ma la decisione m’appariva ancora più difficile della prima volta.
Il primato di
Pietro e del vescovo di Roma?
Mi restavano, tra l’altro, diversi dubbi dottrinali: mi chiedevo, ad esempio, se
era vero che Gesù aveva attribuito il primato a Pietro nel passo di
Matteo 16,18. A questo dubbio (da me comunque non espresso a nessuno) rispose
presto un articolo sul sito «Fede controcorrente», firmato da Giovambattista
Mele e Nicola Martella: «Pietro
aveva il primato sugli altri apostoli?». Constatai così una
cosa che non sempre emerge dalle traduzioni del passo di Matteo 16,18,
dove Gesù dichiara a Pietro: «E io ti dico che tu sei “petros” [così suona il
termine in greco] e su questa “petra” io fonderò la mia chiesa»:
Petros non era soltanto il soprannome dell’apostolo in questione: era anche
una parola che in greco significa «pietra», mentre invece
«petra» si può tradurre anche con
«roccia», e questa traduzione nel passo in questione appare abbastanza ovvia,
visto che questo termine compare anche in Matteo 7,24, dove Gesù dice: «Perciò
chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo
saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia» (in greco «petra»).
Appare infatti evidente che in quest’ultimo passo la roccia è la parola di
Gesù. Così anche in 1 Corinzi 10,4, dove Paolo fa riferimento a una
«roccia spirituale» da cui gli Ebrei bevevano durante la loro marcia nel deserto
verso la terra promessa. Infatti Paolo a questo punto aggiunge: «E questa
roccia [gr. “petra”] era il Cristo».
«Dunque» — pensavo — «probabilmente non è vero che Gesù ha voluto Pietro come
capo supremo della Chiesa universale in età apostolica, e neanche risulta che a
quel tempo vi sia stato un altro capo supremo. Perché mai allora dovremmo
ritenere necessario che tutta la cristianità sia unita attorno ad un unico capo,
che sarebbe il papa?».
Un nuovo inizio
Ricominciai a chiedere a Dio di darmi la forza d’andarmene dalla chiesa
cattolica, però stavolta avevo una difficoltà del tutto nuova: provavo
imbarazzo all’idea di farmi rivedere alla chiesa pentecostale.
All’inizio di giugno, al momento di presentare la denuncia dei redditi, il
patronato, a cui m’ero rivolta, m’aveva chiesto delle visure, così m’ero recata
al catasto. Qui un’impiegata di fede evangelica m’aveva riconosciuta e,
dato che per andare alla chiesa faceva la mia stessa strada, m’aveva offerto,
nel caso che intendessi ritornare, un passaggio. Mi ricordai di lei e andai di
nuovo nell’ufficio per cercarla. Così ritornai nella chiesa pentecostale in sua
compagnia e fu tutto molto facile.
Ora, per la prima volta dall’inizio della mia crisi religiosa, sono serena e
decisa a proseguire su questa strada. {23 dicembre 2009}
►
Il catechista carismatico e la neo-evangelica
{P. Elia - F. Pistone - N. Martella} (T/A)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A2-Diventata_evangelica_EdF.htm
07-01-2010; Aggiornamento: 04-03-2010 |