La pratica usuale, il consenso, l’abitudine
e quant’altro ci portano spesso a credere che il nostro modo di fare coincida
del tutto con la prassi degli apostoli e della chiesa primordiale. Leggendo la
Scrittura, si è portati a credere che i credenti del primo secolo fossero
caratterizzati come noi, ad esempio, dai seguenti elementi socio-religiosi:
avessero dei locali di culto, dei conduttori o un pastore, che andassero in
chiesa di domenica, celebrassero ogni domenica la cena del Signore, ci si
sedesse nella sala come da noi, i culti avessero la «liturgia» della nostra
comunità, eccetera. Può, quindi, succedere che il linguaggio religioso odierno
(p.es. «unzione») e le varie pratiche religiose correnti (p.es. borsa delle
offerte passata durante il culto) siano ritenuti «biblici»
e addirittura usati come chiave ermeneutica, per spiegare alcune espressioni
presenti nella Bibbia (p.es. «rompere il pane») e
alcune pratiche della chiesa primordiale (p.es. la colletta). Le cose non stanno
sempre e proprio così, ma l’uso e la convenzione danno l’illusione
che questo sia il vero tenore delle cose. Questo non è solo da cercare nelle
grandi denominazioni cristiane (prete, messa, sacramenti, struttura ecclesiale,
papato, patriarcato, dottrine ecc.), ma anche nelle chiese libere di diversa
nomenclatura e aggregazione.
Certamente, al
tempo del NT, venivano praticate delle buone tradizioni, come insegnate
da Gesù, dai suoi dodici apostoli, da Paolo e da altri come lui. Il problema sta
nel fatto di ritenere che le nostre abitudini, tradizioni e convenzioni
religiose corrispondano alla prassi apostolica! È chiaro che ogni uso basato
sulla convenzione e sulla tradizione, se non viene analizzato criticamente, può
impedire l’accertamento della reale verità biblica e storica. Ed è
quest’ultima, che a noi interessa appurare, non proiettare i nostri usi e
costumi religiosi nella Scrittura, per crederli ortodossi.
Ora, a chi viene in mente che la
prassi della chiesa apostolica era del tutto differente da quella
odierna? Infatti, non esistevano
locali di culto, né grandi né piccoli, ma i credenti si radunavano
normalmente nelle case, in genere in quella del conduttore (ci potevano essere,
quindi, più luoghi d’incontro nella stessa città!); si veda l’espressione «la
chiesa in casa tua / sua / loro» (Rm 16,5; 1 Cor 16,19; Col 4,15; Flm 1,2; cfr.
At 8,3) e «quelli di casa di ***» (Rm 16,10s; cfr. Fil 4,22). Per la discussione
dell’espressione «rompere il pane», attribuita spesso, in modo scontato e
per convenzione, alla «cena del Signore», rimandiamo a:
«Rompere
il pane: la cena del Signore?».
Durante la storia della chiesa (e delle chiese), nella dottrina si è assistito
alla decontestualizzazione storica, culturale, teologica e letteraria
delle asserzioni della Bibbia. Ciò, che nella Bibbia era inteso come
letterale, fu reso simbolico, metaforico e allegorico (spesso portando
avanti una politica religiosa); ciò, che era metaforico, fu reso
materiale, per collegarsi alla moda religiosa dominante (p.es. lo gnosticismo e
il sacramentalismo ivi insito). Durante la storia, le chiese hanno seguito ora
Platone (trascendentalismo, spiritualismo, misticismo, ascetismo,
sentimento), ora
Aristotele (ragione, immanentismo, empirismo, materialismo,
Realpolitik). E queste fasi, in azione e reazione, perdurano fino a oggi.
L’approccio dottrinale e le pratiche degli evangelici italiani è spesso
caratterizzata da un atteggiamento «contro» qualcosa (p.es. anti-cattolico,
anti-pentecostale) o «a pro» di qualcosa (p.es. filo-americano,
filo-carismatico). Ora, come spesso ribadisco, il contrario di una menzogna non
è per forza la verità, ma può essere un’altra menzogna di segno contrario. Si
tratta, quindi, di un atteggiamento reattivo, dettato da simpatia o
antipatia. E ciò può impedire la ricerca della verità in sé e di tutta
la verità.
Al
posizionamento rispetto alla denominazione dominante (p.es. contro ricorrenze
festive specifiche) si aggiungono altri atteggiamenti ostili programmatici
rispetto ad altri fenomeni, convinzioni, pratiche eccetera. Ecco alcuni casi:
■
Alcuni non parlano più tanto di Spirito Santo,
di carismi, di guarigione, e di miracoli, perché altri lo fanno troppo e in modo
esagerato.
■
Alcuni non parlano di
apostoli e di profeti nelle chiese odierne (tutto sarebbe solo per
quei tempi), perché altri lo fanno in modo sbagliato (falsi apostoli e falsi
profeti). Tuttavia, il NT parla di apostoli (mandati, emissari,
missionari) delle chiese (2 Pt 3,2 vostri apostoli; At 14,14 apostoli
Barnaba e Paolo; 1 Cor 12,28ss presente continuo) e di profeti
(proclamatori estemporanei, che edificano) nelle chiese (1 Cor 14,29ss).
■
Alcuni non parlano di «regno messianico»
escatologico (o millennio), perché altri lo fanno in malo modo (p.es. i seguaci
della Torre di Guardia).
■
Alcuni, ad esempio, non festeggiano il Natale,
non perché non ve ne sia la libertà (Fil 4,8; 1 Cor 6,12,23) — anche Israele
aveva aggiunto feste legittime a quelle prescritte dalla legge (Gdc 21,19; Est
9,29.31) e Gesù e gli apostoli le festeggiarono (Gv 5,1 una festa dei Giudei) —
ma per reazione storica (diventata tradizione) alla denominazione dominante.
Curiosamente non festeggiano neppure la Pasqua, sebbene sia espressamente
scritto che Cristo è la nostra Pasqua e venga ingiunto: «Celebriamo, dunque,
la festa» (1 Cor 5,7s).
■
Alcuni evitano con imbarazzo del tutto il problema dell’«etica cristiana»,
ma parlano solo di «santificazione», lasciando così ad altri di porsi in modo
critico rispetto ai vecchi e nuovi problemi della società e del cristiano in
essa.
■
La lista potrebbe continuare per
altri temi, quali l’impegno sociale del cristiano, la presenza dei cristiani
in politica, la posizione e il ministero della donna nella chiesa, la preghiera
della donna, la presenza di più chiese locali dello stesso tipo nello stesso
paese, eccetera.
Qual è l’elemento distintivo degli
evangelici? Quale dev’essere la loro «identità» e il loro
«posizionamento» sulla base del nuovo patto e in modo indipendente dalle
tradizioni (anche dall’anti-tradizionalismo altrui) e dalle convenzioni, e nel
senso di un’azione biblica, invece che una reazione alle esagerazioni o alle
dottrine e alle pratiche religiose altrui, ritenute sbagliate? Quale può essere
definita una buona e salutare tradizione dei «cristiani biblici»?
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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I contributi sul tema
▲
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1.
{Nicola Berretta} ▲
Ritengo di estrema
importanza la discussione riguardante la tradizione nella chiesa. Una chiesa è,
infatti, chiamata a rimanere
radicata negli insegnamenti del Capo, a cui fa riferimento, cioè Cristo;
però, essendo formata da un insieme di persone inserite all’interno di precisi
contesti culturali, risulta anche inevitabile assumere
gesti, comportamenti e abitudini, che col tempo divengono rituali. In questo
modo, anche inconsapevolmente, le verità immutabili, a cui la chiesa si
richiama, si confondono con tradizioni umane, rivestite di autorità biblica.
Diventa dunque prioritario per un credente il saper discernere ciò, che è
davvero una verità scritturale, da quelli, che sono i propri
convincimenti, derivati dalle proprie tradizioni.
La
conseguenza negativa della mancanza di discernimento spirituale su
quelle, che sono le nostre tradizioni può essere riassunta in questi aspetti
principali:
■
La forma sostituisce la sostanza. L’esteriorità formale, nata per
rispondere a esigenze contingenti di un certo ambiente culturale, diviene
prioritaria rispetto a esigenze nuove, sollecitate da un ambiente culturale
diverso.
■
Si confondono quelle, che sono le tradizioni formali, con la Scrittura,
dimenticando di fare le dovute distinzioni. Questo atteggiamento facilmente
sfocia nel
settarismo di coloro, che non considerano propri fratelli in Cristo
coloro, che hanno differenti forme di espressione all’interno della loro realtà
ecclesiale.
■
Si può giungere finanche a
sostituire con la propria tradizione ciò, che la Scrittura afferma (Mc
7,5-13).
■
Si diviene
chiusi e impenetrabili di fronte alla realtà, che ci circonda. Questo
trasforma la chiesa in un’isola virtuale,
chiusa in una campana di vetro, con conseguenze
negative quali, ad esempio, le seguenti:
● 1. Si è
incapaci di rapportarsi
col mondo e comunicare l’Evangelo in modo pertinente ai bisogni dell’uomo di
oggi.
● 2) Si
vive una vita schizofrenica
e incoerente tra la chiesa e il mondo del lavoro o della scuola.
● 3. Le generazioni più
giovani si allontanano, soprattutto coloro che sono più intraprendenti e
innovativi.
Occorre però anche
evidenziare che nella Scrittura la «tradizione» non ha necessariamente
una connotazione negativa. Il termine originario deriva dal verbo paradìdomi
e significa semplicemente «trasmettere, consegnare», e può avere connotazioni
negative, positive oppure anche neutre.
■
Un uso chiaramente
positivo è quello in riferimento alle verità che Dio stesso ci ha trasmesso
(Lc 1,2; Giuda v. 3), alle decisioni prese dagli apostoli a Gerusalemme (At
16,4) o al messaggio annunciato da Paolo (nei termini tradotti con
«insegnamenti» o nel verbo «trasmettere» di brani come Rm 6,17; 1 Cor 11,2.23 e
15,3; 2 Ts 2,15 e 3,6).
■
Un uso neutrale è invece quello, in cui per «tradizione» ci si riferisce
a quella trasmessa da Mosè (Mc 7,5; At 6,14).
■
Spesso, però, questo uso si traduce in connotazioni negative, quando
quelle tradizioni sono messe in rapporto alla novità di Cristo. Per cui, ad
esempio, Paolo parlò delle «tradizioni» dei padri, in cui si distingueva,
le quali, sebbene egli non le considerasse negative in sé (Gal 1,4), erano
oscurate dalla novità di Cristo (Gal 1,15s). Diversamente, però, usò il termine
«tradizione» con una chiara connotazione negativa in riferimento a quelle
tradizioni umane, che non si armonizzavano al messaggio di Cristo (Col 2,8).
Anche Pietro parlò delle tradizioni dei padri in senso negativo, perché
rapportate al «prezioso sangue di Cristo» (1 Pt 1,18s). Gesù diede un giudizio
chiaramente negativo delle tradizioni in Mc 7,13 in quanto la loro osservanza
comportava un annullamento della Parola di Dio.
Sulla base di questi riferimenti, dunque, quando ci troviamo di fronte a delle
tradizioni, dobbiamo chiederci, in primo luogo, quale sia la loro origine
e, in secondo luogo, come esse si pongano in rapporto a Cristo.
Rispondere a queste domande è prioritario, per evitare le possibili conseguenze
negative della tradizione.
Ciò detto, occorre a mio giudizio chiedersi se l’identificazione delle nostre
tradizioni umane, distinguendole con chiarezza dalle verità bibliche, debba
comportare automaticamente
l’eliminazione di queste tradizioni. Io credo di no, infatti le
tradizioni non sono necessariamente
negative. Il problema è che, se non chiaramente individuate, possono facilmente
trasformarsi in qualcosa, che ci può allontanare dalla verità di quell’Evangelo,
di cui vogliamo essere testimoni.
Quando dico che le tradizioni non sono necessariamente negative, mi riferisco al
fatto che esse possono essere utili nel conferire un senso
d’appartenenza, un legame col passato che proietta verso il futuro, una fierezza
d’un passato che costituisce le nostre radici. Inoltre, la tradizione è, per sua
natura, passata al vaglio di esperienze altrui, attraversando più generazioni,
quindi porta con sé un bagaglio di saggezza utile alle generazioni più
giovani. Permette dunque di non essere trascinati dall’effimero delle mode del
momento. Infine, la «reperibilità» connaturata alle tradizioni ci rassicura,
in un mondo che gira freneticamente.
Affermare dunque che gesti quali l’effettuare la Cena del Signore ogni
domenica o a scadenze diverse, il dare o meno importanza a un giorno
specifico da dedicare al Signore, o anche l’utilizzo di un locale o
di una casa privata per gli incontri comunitari, sono tutti espressione di
tradizioni della nostra specifica realtà ecclesiale, non equivale al dare a essi
una connotazione
automaticamente negativa. Il problema sorge quando ci troviamo di fronte a
tradizioni che contrastano con le verità bibliche, ma non credo che gli esempi
appena riportati vadano in questa direzione.
Al
tempo stesso risulta imperativo individuarle, identificarle con chiarezza
come tradizioni, senza nascondersi dietro a presuntuose affermazioni di
purezza dottrinale. Spesso, infatti, noi cristiani evangelici tendiamo a
negare l’esistenza di tradizioni nel nostro mezzo, additandole alla sola
realtà della chiesa cattolica. Questa negazione è un grave errore, perché è
proprio la mancanza di una chiara identificazione delle nostre tradizioni che ci
espone a eresie future, in cui quelle stesse tradizioni potranno essere
anteposte alla Scrittura, sostituendola. Identificare con onestà la loro
esistenza ci permette invece di vaccinarci
contro queste conseguenze negative e ci dà modo di vivere le nostre tradizioni
con serenità e discernimento, senza confonderle con la Scrittura. Infine, ci
permette di non fossilizzarsi su di esse, e se in futuro ci dovessimo
trovare di fronte all’eventualità di doverle cambiare, saremmo in grado di farlo
con disincanto, senza timore di venir meno all’ortodossia biblica.
Non è una sfida facile, ma può essere vinta attraverso l’umiltà di guardare a
ciò che la Scrittura afferma davvero e di sottometterci a essa. {04-2007}
2.
{Pietro Calenzo}
▲
■
Contributo:
È come sempre un argomento molto, ma molto interessante. Ciò, a cui fai
riferimento, è la trasposizione delle nostre esperienze comunitarie o
ecclesiali e la relativa non sempre perfetta aderenza con una verità cultuale
prettamente scritturale. Essa è una problematica che, penso, in senso assoluto,
si possa risolvere ben difficilmente; comunque, per anelare a tale meta,
ma ci possono essere di sussidio un sano spirito di autoanalisi spirituale e un
sobrio concetto di se stesso, tanto più che stiamo discorrendo di temi relativi
alla comunione con l’Onnipotente. Se tale predisposizione è il desiderio
e l’anelito più importante di noi tutti, ossia celebrarlo o ricordarlo come
l’Eterno ci comanda nella Sua Parola, il Signore stesso conforterà il desiderio
del nostro spirito.
Ora, siamo capaci di portare a buon fine tale
intendimento? Ovviamente è molto difficile, ma avvicinarci di buon animo a tale
agognato traguardo, è possibile. Molto dipende dai carismi, che lo
Spirito Santo ci ha donato. Ci vuole costanza, impegno, studio, possibilità di
spendere per sussidi bibliocentrici, ma in primo luogo un animo aperto ad
ascoltare: «O Signore benedetto parla, il tuo figlio ascolta». Il dono deve
essere coltivato.
Ringraziando il Signore ci sono molti sussidi
utili, come traduzioni bibliche, concordanze, commentari, dizionari biblici,
ecc. E poi ci sono, in primo, luogo gli insegnanti nella chiesa locale o
in assemblee vicine. (È molto rilevante pertanto l’interscambio anche fra
assemblee vicine). Peculiare davanti a Dio, è l’avere un cuore aperto e
desideroso di comprendere e apprendere quale sia la perfetta volontà del
Signore. Se questo è un nostro desiderio o bisogno veramente preminente,
troveremo, con l’aiuto di Dio, mezzi economici (magari rinunciando a un abito
nuovo, o a una gita) tempo, occasioni, per crescere nella giusta comprensione
del lessico biblico e dell’ordine biblico del culto, delle giuste attività da
coltivare, o magari delle nostre
convinzioni da correggere, anelando intensamente a che il nostro essere e il
nostro fare si avvicinino il più possibile a quello inteso da Dio nel Nuovo
Testamento. {14-04-2013}
▬
Nicola Martella:
Questo contributo contiene qualche accenno al tema, ma soprattutto spunti
interessanti riguardo a come prepararsi per l’opera di Dio. Certamente sarebbe
meglio se Pietro Calenzo intervenisse direttamente sulla questione come
tradizioni e convenzioni esercitano il loro potere nelle chiese. Per quanto ho
capito, per lui questo è un problema di difficile soluzione, e solo
un’apertura di cuore (= mente) può aiutare a individuare le convinzioni da
correggere.
■
Pietro Calenzo:
Caro Nicola, sono persuaso che purtroppo, a volte a livello inconscio, il nostro
modo di rapportarci con il Signore sia condizionato [da fattori esterni,
N.d.R.], anche se in maniera minimale e non sui punti dottrinalmente eminenti o
propedeutici della fede cristiana scritturale. Ciò capita a volte, a causa la
religione di massa, che ci circonda, ed anche forse da alcuni approcci
evangelici di rottura comprensibilissima nei confronti del Romanesimo. Faccio un
esempio semplice, ma spero esplicativo. Personalmente pensavo che Gesù Messia
additasse in blocco tutte le tradizioni sorte nell’ebraismo. Ho appreso
dal tuo ultimo articolo che invece Gesù partecipò ad alcune ricorrenze ebraiche
non presenti nelle Scritture veterotestamentarie. Il figlio di Dio, che ama la
verità scritturale, deve sempre ringraziare il Signore, quando un insegnante
della Parola di Dio o un altro sussidio didattico (letteratura cristiana di
vario genere) ci fanno crescere nella conoscenza riguardo alla vita, al
ministero, all’ambiente storico, al Signore Gesù Messia. Penso che sia un atto
doveroso di ogni cristiano biblico, catturare ogni nostro pensiero e
sottometterlo alla Parola di Dio. Ciò deve essere un processo continuativo,
a volte progressivo, ma comunque propedeutico per crescere come Il Signore
desidera. {15-04-2013}
3. {Maurizio
Marino}
▲
Caro
Nicola, ti ringrazio per il tema che è sicuramente interessante e attuale. In
realtà la cultura e le convenzioni hanno su di noi un potere spesso
sottovalutato. Già dai tempi del NT ci si pose dei quesiti su cosa fosse o
non fosse «adiaphora», cioè cosa fosse essenziale per la fede oppure no
e, quindi, cosa potesse essere praticato oppure no, a seconda delle usanze
culturali. Un esempio ce lo dà l’Apostolo Paolo in 1 Corinzi 8 quando parla
delle carni sacrificate agli idoli.
Quindi secondo me dovremmo imparare il metodo di Melantone e applicarlo
più spesso: Nelle cose necessarie unità, nel dubbio libertà, in ogni cosa amore.
Per esempio, molti fratelli ancora si scandalizzano dell’uso dei
bicchierini al posto del calice, altri della presenza di strumenti musicali
svariati, altri dei nuovi metodi di evangelizzazione oltre quelli classici.
Secondo me, quando non si tratti di cose essenziali della fede cristiana, la
parola d’ordine dovrebbe essere: «no al dogmatismo» {14-04-2013}
4. {Nicola
Martella}
▲
Mi ha stimolato il termine greco adiáforos
«senza differenza, indifferente», sebbene sia poco ricorrente nelle Scritture
stesse. Ecco che cosa afferma in proposito il vocabolario della Treccani alla
voce «Adiaforo»:
«Termine dotto, grecismo equivalente all’ital. indifferente; in
partic., nell’etica dei cinici e degli stoici, era dichiarato
adiaforo tutto ciò che è indifferente dal punto di vista morale, e cioè tutto,
all’infuori della virtù e del vizio. Nella critica testuale, detto di
lezioni o varianti di pari autorità documentaria, tra le quali è impossibile
decidere in base a criterî interni o con l’aiuto dello «stemma». Nell’età della
Riforma, il teologo ted. Melantone e altri teologi dichiararono (22 dic.
1548) adiaphora, cioè «cose indifferenti», in quanto non decisi dalla
Scrittura, alcuni punti della dottrina teologica ed etica (la giurisdizione
vescovile, certe costumanze come i digiuni, le feste, ecc.)» (grassetto
redazionale).
Di là dalla ricorrenza o meno del termine greco adiáforos
«senza differenza, indifferente» nel testo biblico (i termini tecnici sono
coniati nella storia per caratterizzare ciò, che già esiste!), la sostanza
c’è. L’apostolo Paolo riporta esempi concreti in merito. Alcuni credenti della
chiesa di Corinto gli posero la questione se fosse loro permesso di
nutrirsi di carne sacrificata agli idoli. Egli rispose così: «Ora
non è un cibo che ci farà graditi a Dio; se non mangiamo, non abbiamo nulla di
meno; e se mangiamo non abbiamo nulla di più» (1 Cor 8,8).
Il problema si pone laddove una cosa per uno è
«indifferente» all’interno della sua cultura (p.es. cristiani gentili), mentre
per un altro è rilevante all’interno della sua cultura (p.es. cristiani giudei;
cfr. Rm 14). Quando tali due culture religiose vengono a incontrarsi e creano
nel fratello una provocazione senza motivo o addirittura offesa e scandalo, per
amor di lui conviene astenersi dalla cosa. Infatti, l’apostolo continuò dicendo:
«Ma badate che questo vostro diritto non diventi un inciampo per i
deboli. [...] Ora, peccando in tal modo contro i fratelli, ferendo la
loro coscienza, che è debole, voi peccate contro Cristo. Perciò, se un cibo
scandalizza mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare
mio fratello» (1 Cor 8,9.12s).
Paolo parlò dei rapporti interpersonali all’interno
della stessa chiesa locale. Egli non affrontò la questione degli usi e costumi
devozionali diversi in chiese locali differenti. Come devono, quindi,
rapportarsi due comunità, se fanno delle riunioni comuni, ad esempio se in una
le donne pregano e nell’altra no? Oppure se in una usano il calice e nell’altri
i bicchierini? Oppure se in una passano borse e canestri per le offerte, mentre
nell’altra hanno una cassetta per le offerte? Paolo non approfondì neppure la
questione se chi viene come ospite in una comunità, non debba adeguarsi
lui alle decisioni di tale congregazione o almeno tollerarle. Oltre ai casi già
esposti sopra, ad esempio, un credente americano, nella cui chiesa si predica
che non bisogna bere vino, fa bene a polemizzare con la chiesa, che lo ospita in
Italia, e a pretendere che si usi il succo di uva?
Esistono, quindi, aspetti devozionali, cultuali o
morali, che sono accettabili o meno, a seconda del contesto ecclesiale, della
motivazione e della finalità del singolo credente o della singola comunità. Il
problema, come abbiamo visto, nasce quando due differenti concezioni vendono a
incontrarsi a un certo livello (interpersonale, interecclesiale,
interdenominazionale, ecc.).
5. {Edoardo
Piacentini}
▲
Una tradizione dei «cristiani biblici», per essere autorevole, deve riguardare
una verità creduta sempre (anche nel secolo apostolico), dovunque e da
tutti (anche dai primi cristiani), e deve essere avvalorata e non essere in
conflitto con la Parola di Dio.
Riunirsi in un’abitazione privata è sicuramente
biblico, ma anche riunirsi in un locale pubblico non è antibiblico, se
consideriamo che, al tempo della chiesa primitiva, esistevano le sinagoghe, che
erano case di orazione, dove si leggeva e meditava la Parola di Dio, le quali
non avevano un fondamento biblico, ma nemmeno erano condannate dagli ebrei
antichi e dai cristiani primitivi.
Il culto della
domenica ha il suo fondamento biblico negli Atti degli Apostoli e nelle
lettere paoline, dove si parla di varietà di ministeri ed, in particolare, di
ministeri di governo (1 Corinzi 12,28). La Cena del Signore era celebrata
ogni domenica mattina in Troas (Atti 20,7). E la raccolta delle offerte
è vivamente raccomandata dall’apostolo Paolo (1 Corinzi 9,7; 16,2). Si tratta,
pertanto, di buone e salutari tradizioni. Dio ci benedica {14-04-2013}
6. {Nicola
Martella}
▲
La premessa iniziale di Edoardo Piacentini è molto opportuna e
condivisibile. Ero insicuro se rispondere al resto, visto che volevo
tenere il tema sul generale e non scendere nei dettagli e visto che la risposta
mi sarebbe costata molta energia e tempo. Le mie osservazioni sono dettate dalla
comune ricerca della verità biblica. Tale occasione è comunque propizia per
mostrare la differenza fra contenuto, forma e uso, e come tradizioni e
convenzioni attuali facciano ricorso a versi biblici, spesso tolti dal
contesto (storico, culturale, letterario), per accreditarsi.
■ 1. Quando ho parlato delle abitazioni
quale luogo di culto abituale delle chiese (Rm 16), era per mostrare che la
nostra abitudine di avere un locale di culto, non era ricorrente al tempo del
NT; quindi, l’essenziale era radunarsi, non dove farlo. In tutto il NT non
esiste la menzione di un solo
locale di culto o di una «sinagoga cristiana», né a Gerusalemme, né altrove;
questa è una verità storica e non significa che riunirsi in un locale di
culto sia contrario alla Scrittura. In casi particolari i credenti appartenenti
a diverse «chiese in casa» si radunavano per delle agapi comuni, ad esempio
presso il podere o la villa di un credente possidente. Per questo Paolo, in
occasione della sua visita a una chiesa, poté dire: «Gaio… ospita me e tutta
la chiesa» (Rm 16,23). Sapere queste cosa, creerà gratitudine per i
locali di culto, che abbiamo. Tuttavia, coloro, che si radunano in casa, non si
sentiranno «quasi chiesa» e non devono essere considerati dagli altri
delle «chiesa a metà», poiché l’assemblea (= gr. ekklesia) sono i
credenti radunati, non gli edifici.
■ 2. Di un culto di domenica non si ha
comandamento né traccia esplicita in tutto il NT. Altrimenti Paolo non avrebbe
potuto dire: «L’uno stima un giorno più d’un altro; l’altro stima tutti i
giorni uguali; sia ciascuno pienamente convinto nella propria mente» (Rm
14,5). Il primo era il Giudeo cristiano, che per cultura religiosa seguiva il
sabato; il secondo era il cristiano gentile, che non aveva un giorno sacro. Nel
concilio di Gerusalemme (At 15) non fu ingiunto un giorno particolare.
L’Evangelo, arrivando in varie culture, per essere vincente, doveva adeguarsi
alle forme culturali ivi vigenti. Nella nostra cultura è una risorsa che
la legge riconosca un giorno (domenica), in cui si possa essere liberi dal
lavoro, per dedicarsi al culto del Signore. E noi ci raduniamo volentieri tutti
insieme di domenica, non perché sia un comandamento, ma perché è una buona
convenzione; se per legge mutasse il giorno, in cui la maggior parte sono liberi
(tranne i turnisti), non avremmo problemi ad adeguarci. Importante è il culto
del Signore e la comunione fraterna, non il girono.
■ 3. Quanto all’abbinamento fra Cena del
Signore e «ogni domenica mattina», ciò si basa su un assunto dettato dal
falso sillogismo. Rimando nuovamente allo scritto «Rompere
il pane: la cena del Signore?». Si veda anche «In
Atti 2 si trattava di una quotidiana «Cena del Signore»?». In
Troas c’era una un’agape non la Cena del Signore (At
20,7); la locuzione «rompere il pane» intendeva mangiare insieme. Mentre
i credenti mangiavano, Paolo parlava. Poi, dopo che fu risolta la questione con
Eutico, Paolo finalmente prese l’occasione per rifocillarsi (lui solo!), prima
di continuare a parlare: «Ed essendo risalito,
ruppe il pane e prese cibo; e dopo aver ragionato lungamente sino all'alba,
senz’altro si partì» (At 20,9). In che
giorno e a che ora si radunarono? Non certo domenica mattina. Presso gli
antichi il giorno cominciava dopo il tramonto; quindi si trattava di sabato
sera. Per questo si parla delle «molte lampade» e che Paolo parlò fino a
mezzanotte (vv. 7s); inoltre, dopo la pausa forzata, Paolo continuò la sua
catechesi fino all’alba (v. 11).
■ 4.
È vero, la raccolta delle offerte fu
vivamente raccomandata da Paolo; tuttavia, non si trattava di passar canestri
durante i culti, ma si trattava di una raccolta speciale a favore dei credenti
della Giudea. I credenti non dovevano portare tali offerte alle riunioni, ma
metterle da parte a casa propria, per quando Paolo avrebbe mandato un emissario
a raccoglierle. Tale occasione avrebbe esaurito il senso di fare collette.
Letteralmente si legge: «Ogni primo [giorno] di settimana ciascuno di voi
metta da parte presso di sé, accumulando [secondo] quanto possa
prosperare, affinché, quando io vengo, non ci siano allora collette»
(1 Cor 16,2). Ciò aveva un senso anche nel fatto che alla fine di una settimana
e all’inizio della nuova (quindi da sabato sera in poi), si poteva fare bilancio
delle entrate e delle uscite e mettere da parte quanto le proprie risorse
effettive e la propria liberalità permettevano. Chiaramente l’opera del
Signore necessita del sostegno finanziario dei credenti, ma per onesta
bisogna ammettere che mai nel NT si parla di passare borse e canestri durante i
culti. Nelle chiese, in cui sono stato coinvolto nella fondazione, abbiamo una
cassetta per le offerte
(in analogia con la prassi del tempio; cfr. Mc 12,14ss). Per il resto rimando al
tema «Perché
nelle chiese durante il culto si passa una borsa per le offerte?».
7. {Rita Fabi}
▲
Dopo aver letto l’intero scritto di riferimento e il primo commento, mi viene
solo da dire una piccola cosa, perché penso che sia stato già detto tutto, e
cioè che l’unica vera distinzione di un cristiano, sia quella di rapportarsi
solamente con la Parola di Dio. Non si può essere veri cristiani, quando chi
ci guida non è la verità, ma i credi dogmatici della propria
denominazione. Finché non si tornerà a difendere solo la verità biblica,
lasciando da parte tutto ciò che è umano, non si potrà dire di appartenere alla
vera chiesa degli apostoli.
«O Eterno, chi dimorerà nella tua tenda? Chi abiterà
sul tuo santo monte? Colui che cammina in modo irreprensibile e fa ciò che è
giusto, e dice la verità come l’ha nel cuore, che non calunnia con la sua
lingua, non fa alcun male al suo compagno, non lancia alcun insulto contro il
suo prossimo» (Salmi 15,1-3).
Comunque, è davvero
una bella analisi, che dovrebbe far riflettere molti di noi. {14-04-2013}
8. {Adolfo
Monnanni}
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Contributo:
Quando si dice «si è sentito – fatto – detto sempre cosi», è difficile
smuovere le convinzioni tradizioni. Si può scadere fino al peccato? Può
essere anche di sì. {14-04-2013}
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Rita Fabi:
Beh, dipende da cosa s’intende per «peccato». Se s’intende la mancanza
del rispetto verso la verità di Dio, allora sì, si può scadere in questo
peccato, perché vorrebbe dire che si è amato più ciò, che viene dall’uomo, di
ciò che viene da Dio. E il primo comandamento, lasciatoci, è proprio di amare
Dio al di sopra di tutto. {14-04-2013}
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Nicola Martella:
Le convenzioni, siano esse positive o negative, hanno un grande fascino,
un grande potere omologante e creano un clima, in cui alcune cose diventano
scontate. Ciò è positivo per le cose salutari. Per le cose deleterie
si crea un clima devozionale e morale, in cui neppure ci si accorge del male che
si fa. Ciò accade, ad esempio, dove si tollerano forme di velata idolatria
e di
sacramentalismo, affermando che siano permesse dalla Bibbia (p.es. alcuni
santoni vendono a caro prezzo la terra di Gerusalemme, l’acqua del fiume
Giordano, l’olio consacrato proveniente dal Monte degli Ulivi, la croce di
Gerusalemme, ecc.). Ciò accade anche dove si tollerano costumi morali
contrari alla Parola di Dio, appellandosi al fatto che Dio è amore e perdona
(p.es. sesso prematrimoniale, convivenza, rapporti omosessuali, lavoro nero,
evasione fiscale, ecc.). In tali casi si può scendere veramente fino al
peccato.
9. {}
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12. {Autori
vari}
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Guerino De Masi:
Grazie, Nicola. È un argomento attualissimo e molto interessante. Grazie
d’averlo posto. {15-04-2013}
► URL di origine:
http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/T1-Tradiz_convenz-GeR.htm
06-04-2007; Aggiornamento: 16-04-2013
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