Il Signore ci chiama ad amare i fratelli di là dalle loro convinzioni sugli
aspetti non centrali della dottrina. Quello che qui segue è un confronto
fraterno con Giovanni Melchionda su questo tema. Egli e sua moglie portano
avanti l’opera chiamata «Alleanza Messianica». ■ In una circolare ricevuta dai Melchionda, essi
scrivevano: «Per quel che riguarda noi ci sentiamo sempre più benedetti e
confermati nella
consacrazione al ministero per Israele». Ho fatto loro presente quanto segue: Dove c’è nel NT un
solo verso in cui gente fuori dei confini dell’allora Giudea avevano ricevuto
una «consacrazione al ministero per Israele»? Paolo riconobbe questo ministero
solo agli apostoli Pietro (Cefa) e Giovanni e a Giacomo, fratello di Gesù (Gal
2,9). Essi diedero la mano d’associazione a Paolo e a Barnaba, due Giudei,
perché essi andassero ai Gentili. In ogni modo, se una «consacrazione al
ministero per Israele» intende l’evangelizzazione degli Ebrei ovunque ci si
trovi, ciò è legittimo; se è inteso nel senso del «sionismo cristianizzato»
(assimilazione dei Gentili cristiani ai costumi e alle tradizioni giudaiche [=
giudaizzazione]), vediamo in ciò molti pericoli ideologici. Le lettere di Paolo
ai Galati (4,10s) e ai Colossesi (Col 2,16ss) dovrebbero metterci in allarme!
■ Essi scrivevano anche che «il Signore degli Eserciti
(YHWH ZEVAOT)… in Cristo Gesù ci ha fatto concittadini dei santi (Efesini 2)».
Ho fatto loro presente quanto segue: Ora, però, come ci
insegna l’AT e il NT, i «santi» non erano l’intero Israele, ma solo il resto
fedele, che nel NT viene chiamato «l’Israele di Dio» (Gal 6,16). Confondere il
«resto fedele» d’Israele, che è entrato nella chiesa avendo accettato Gesù quale
Messia promesso, con l’Israele etnico è un grave errore, ma è tipico del
«sionismo cristianizzato». Esso ipotizza quasi che l’Israele storico abbia
un’altra via di salvezza rispetto all’Evangelo! Questo è un grave inganno. Di là
da ciò che Dio farà ancora col suo popolo nel futuro, l’Israele etnico non è
attualmente il «vero Israele», ma lo sono solo coloro che hanno creduto
all’Evangelo. « «Non tutti i discendenti da Israele sono Israele; né per il
fatto che sono progenie d’Abramo, son tutti figli d’Abramo» (Rm 9,6s). Paolo
dichiarò chiaramente che «non i figli della carne sono figli di Dio: ma i
figli della promessa son considerati come progenie» (v. 8). I «figli della
promessa» sono solo coloro che hanno accettato Gesù come Messia-Re,
indipendentemente se sono Giudei o Gentili (vv. 24.30ss; Gal 3,29). [►
Sulla via di un «sionismo cristianizzato»?]
Per togliere equivoci, diciamo fin da ora che
condanniamo qualsiasi tipo di antisemitismo. A ciò si aggiunga che non crediamo
che la chiesa sia Israele né un nuovo «Israele spirituale». [►
Il sionismo cristiano {Nicola Martella}]
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1.
{Giovanni Melchionda} ▲
Effettivamente ho usato con leggerezza questa dizione, chiedo perdono al Signore
e prometto di prenderla molto sul serio. Intanto da Galati 2,9-10 impariamo che
Giacomo Pietro, Giovanni, Barnaba e Paolo sono tutti del popolo d’Israele
mandati a Giudei e Gentili. Al versetto 10 parla di poveri, di cui vedremo più
avanti il significato.
In 2 Cor,12s parla d’un «servizio sacro» e lo
paragona al servizio sacro al Tempio 1 Cor 9,13 (che ricordiamo al tempo di
Paolo era ancora in piedi e funzionante). Di cosa sta parlando l’apostolo Paolo?
Si leggano: 1 Cor 9 e 16; 2 Corinzi 8 e 9; Romani 15,25-28; Atti 20,1-16. Faccio
qui un’affermazione a carattere generale (prometto di ritornare su questo tema
se sarà ospite del tuo sito e te ne ringrazio) e ribadisco secondo queste
citazioni: i viaggi dell’apostolo Paolo non erano solo missionari, ma di
costruzione della comunione tra le chiese della diaspora ebraica e gentili con
la chiesa di Gerusalemme. Dunque i viaggi di Paolo erano d’andata e ritorno a
Gerusalemme, tranne l’ultimo, ovviamente a Roma. Questi viaggi avevano 3
ragioni: 1) portare a Gerusalemme i delegati delle chiese (d’Acaia e Macedonia e
in futuro da Roma); 2) avvenivano regolarmente durante le festività bibliche
comandate (Lv 23); 3) erano l’occasione per la colletta per i poveri da portare
a Gerusalemme che non aveva carattere eccezionale, ma regolare e di debito
spirituale (Rom 15,25ss). Tutto questo Paolo lo chiamava «servizio sacro». Faccio fede sulla tua conoscenza biblica per non
entrare nei dettagli delle citazioni. Immagino il tuo stupore e le obiezioni. Ho
anch’io delle domande. Se l’apostolo Paolo in occasione della raccolta della
colletta dà istruzione precisa alle nuove chiese e avvisa anche quella di Roma,
da quando la chiesa ha cessato questa pratica di recarsi a Gerusalemme e perché?
Se le istruzioni erano per la colletta alla chiesa di Gerusalemme, perché
vengono usate per uno scopo diverso?
Caro fratello Nicola, ti ringrazio per avermi dato la
possibilità d’istruirmi circa il ministero per Israele, che è chiamato servizio
sacro. Dirò ancora: giustamente nella chiesa evangelica si dà molta enfasi alla
missione e all’evangelizzazione e questa è una delle pagine più belle e
trionfanti della Chiesa, segnatamente di quelle evangeliche. Gloria a Dio! Ma il
Signore Gesù stesso dà due mandati missionari, non uno come solitamente
s’insegna. In Matteo 10,6-7 il mandato dell’Evangelo è rivolto solo a Israele,
mentre in seguito invia i 70, Luca 10,2ss, che nel linguaggio biblico sono le 70
nazioni cioè tutto il mondo. Adempire al mandato di Matteo 10,6 è un’altra buona
ragione per andare a Gerusalemme ed essere testimoni (Atti 1,8) non solo ai
confini della terra, ma come dice la parola in Giudea, Samaria e fino ai confini
(oggi la Giudea e la Samaria sono in mano all’Islam […]). Dunque un ministero
comandato dal Signore Gesù stesso, forse solo per i credenti di discendenza
ebraica come me (Melchionda in ebraico deriva da Melech, Re). Capisco la tua
paura circa la giudaizzazione […] No non vogliamo giudaizzare, non predichiamo
la legge, predichiamo il Messia crocifisso consegnato nelle mani dei gentili,
morto, risorto e che sta per venire ! Alleluia! [►
«Alleanza messianica» risponde]
2.
{Nicola Martella} ▲
Una colletta regolare delle chiese per Israele?
Nella letteratura del «sionismo cristianizzato» si usa
spesso il termine «Israele» in modo molto ambiguo: qui si intende il popolo
storico, lì l'attuale nazione d'Israele; qua i cristiani giudei inseriti nella
chiese dei gentili («Israele di Dio»), là i Giudei cristiani che formano proprie
comunità e seguono i costumi del giudaismo. E i confini non sono sempre molto
netti nella mente e nelle parole dei fautori di varie correnti dei cosiddetti
«amici l’Israele». Tornando al nostro tema, è anche singolare che un fatto
singolo, avvenuto in una situazione particolare (la colletta per i cristiani
giudaici in un tempo di particolare carestia in Giudea), venga stilizzata al
punto da trarre da ciò una dottrina universale (le collette delle chiese devono
essere indirizzate a Israele). Certo anche una pulce, se potesse essere
gonfiata, ci apparirebbe come un elefante; ma è sempre sbagliato trarre una
norma ricorrente da un caso singolo.
Il fatto che Paolo dovette scrivere alle chiese e
riscrivere, come nel caso di Corinto, mostra che si trattava di una caso
straordinario, a cui le chiese (perlopiù chiese in casa) non erano abituate. È
vero che si trattava di una «santa diaconia». L’evento molto faticoso per chi lo
gestiva, poiché bisognava coordinare molte cose. L’apostolo Paolo diede delle
norme chiare per l’evento straordinario: mettere da parte dei soldi il primo
giorno della settimana (cominciava sabato sera dopo il tramonto), dopo che la
settimana era finita e si sapeva che cosa rimaneva dei guadagni settimanali (1
Cor 16,2). Si trattava di un evento straordinario dovuto alla
particolare carestia che affliggeva i cristiani giudaici in Palestina, chiamati
da Paolo «santi» (1 Cor 16,1) e specialmente «poveri fra i santi che sono in
Gerusalemme» (Rm 15,25s). Il tutto nacque dal fatto che Agabo era salito ad
Antiochia insieme ad altri profeti e aveva annunziata una particolare carestia
nel paese, ossia in Palestina (At 11,27s). Allora i discepoli di tale zona
decisero di mandare un contributo finanziario ai «fratelli che abitavano in
Giudea» (v. 29).
Non era una norma regolare mettere da parte soldi nelle
collette di chiesa; allora nelle chiese in casa ci si occupava direttamente dei
predicatori itineranti, ospitandoli e provvedendo al loro ulteriore viaggio (Rm
15,24; 3 Gv 1,5ss). Tanto meno era una norma mettere da parte soldi per i
«santi» di Gerusalemme (i Giudei cristiani) e di portarli lì regolarmente.
Infatti, si è dovuto fare un comitato gestionale particolare e lo stesso
apostolo Paolo fu incaricato insieme ad altri di portare tali soldi a
Gerusalemme (1 Cor 16,3s). La straordinarietà della colletta fu evidenziata da
Paolo con queste parole: «…affinché, quando verrò, non ci siano più collette
da fare» (1 Cor 16,2). Dal testo traspare che l’iniziativa era dapprima
delle chiese, ma poi funzionò solo per il coinvolgimento diretto di Paolo e del
suo gruppo missionario, poiché egli parlava di «quest’opera di carità, da noi
amministrata», ossia di «quest’abbondante colletta che è da noi
amministrata», di cui fu evidentemente costretto a dimostrare l’onesta delle
loro intenzioni che qualcuno aveva probabilmente messo in forse (2 Cor 8,19ss).
Tale impresa non era generalizzata e non coinvolgeva tutte le chiese in una
regolarità, ma era un fatto straordinario che coinvolgeva solo le chiese di
Macedonia e dell’Acaia (Rm 15,26). Tale colletta riguardava tutti gli Israeliti di
Giudea? Chiaramente tali «santi» e specificatamente i poveri fra essi (Rm
15,26) erano distinti dai «disubbidienti di Giudea» dai quali desiderava essere
liberato (Rm 15,31); questi ultimi sono coloro che poi gli misero le mani
addosso e lo volevano uccidere (At 21,7ss). Tale sovvenzione riguardava i «fratelli
che abitavano in Giudea» e fu recata «agli anziani, per mano di Barnaba e
di Saulo» (At 11,29s). Si trattava quindi probabilmente di un unico
evento, la cui gestione durò diversi anni.
►
L’obbligo gentile verso i cristiani giudaici {Argentino Quintavalle - Nicola Martella}
Gerusalemme
L’altro aspetto ambiguo è che Gerusalemme è pensata
come una specie di Vaticano primordiale, a cui tutti i cristiani (Giudei e
Gentili) dovevano fare capo e a cui si recavano per portare regolarmente le
offerte raccolte, per rendere conto delle cose riguardo all’opera locale e
festeggiare le feste giudaiche. Questa è una mistificazione della storia e un
grave errore teologico. Che i viaggi di Paolo fossero regolarmente «d’andata e
ritorno a Gerusalemme» è una pura costruzione, poiché da quando fu chiamato da
Cristo si recò relativamente poche volte Gerusalemme. Gerusalemme era la sua
centrale d’azione al tempo in cui era ancora fariseo e perseguitava la chiesa
(At 9,1.13.21). Dopo la sua conversione stette per un tempo in Gerusalemme, non
senza difficoltà (At 9,26ss), poi fu mandato altrove (v. 30). Dopo che Barnaba
lo portò ad Antiochia per insegnare, questa divenne la sua chiesa madre (At
11,25). Fu ad Antiochia che Paolo rimproverò pubblicamente Pietro (Gal 2,11). La
chiesa che lo mandò in missione fu Antiochia (At 13,1) e fu lì che tornò (At
14,26). Egli si recò a Gerusalemme come rappresentante della chiesa di Antiochia
(At 15,1s) e fu rimandato a essa con la decisione del concilio (vv. 22s.30). Fu
qui che rimase per un certo periodo (v. 35) e fu da qui che ripartì in missione
(v. 36). La prima volta che Paolo si recò a Gerusalemme dopo la
conversione presso Damasco e il suo ritorno in Giudea, fu tre anni dopo, ma ciò
ebbe un carattere privato (Gal 1,17s). La seconda volta fu 14 anni dopo tale
ultimo evento (Gal 2,1). Si recò anche in seguito alla colletta straordinaria
(At 11,30; 12,25); qui Luca non diede particolari temporali specifici e
probabilmente ciò coincide con i fatti descritti nelle sue epistole. Abbiamo
parlato del concilio di Gerusalemme (At 15). Anche quando Paolo fu di ritorno da
uno dei suoi viaggi missionari, la sua nave, partita da Efeso, sbarcò a Cesarea
quale porto principale e Paolo, essendo vicino a Gerusalemme, vi andò per
salutare la chiesa, l’apostolo scese infine ad Antiochia (At 18,22). E fu da qui
che, dopo alquanto tempo, partì nuovamente in missione (v. 23). Poi si parla del
suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, prima di recarsi a Roma (At 19,21), poiché
il Signore gli aveva dato istruzioni al riguardo (cfr. At 23,11); voleva esserci
Pentecoste (At 20,16), probabilmente perché allora c’era molta gente da
evangelizzare, ma sapeva molto bene a che cosa stava andando incontro e lo disse
agli Anziani dell’Asia (v. 22). Ci andò nonostante le esortazioni dei fratelli
(At 21,4.12) e gli avvertimenti profetici (v. 11). Poi i Giudei gli misero le
mani addosso (At 21,31), dopo molte peripezie e prigionia Paolo si appellò a
Cesare e infine fu portato a Roma. Quindi è una pura costruzione che Paolo facesse capo a
Gerusalemme e vi si recasse regolarmente per gli scopi detti da Giovanni
Melchionda. La chiesa avrebbe «cessato questa pratica di recarsi a
Gerusalemme»? Ciò è puro anacronismo. Nelle chiese si raccoglievano regolarmente
collette per la chiesa di Gerusalemme e solo per questo, mentre oggigiorno
verrebbero «usate per uno scopo diverso»? È pura costruzione. Come già detto
sopra, non c’è alcuna evidenza nel NT che nelle chiese (erano chiese in casa) ci
fosse il costume di raccogliere regolarmente offerte. La raccolta di una
colletta è menzionata come fatto straordinario solo in connessione con la
predizione di una carestia in Palestina (terra = territorio, ossia Giudea da
dove Agabo proveniva). Non c’è evidenza di tale pratica di questo costume al
tempo del NT né c’è un insegnamento apostolico di una regolare pratica di
collette. Come già detto i credenti esercitavano direttamente la beneficenza (Eb
13,16), l’ospitalità dei servitori itineranti e provvedevano al loro viaggio (Rm
12,13; 16,23; Eb 13,1s; 1 Pt 4,9). Le chiese locali erano indipendenti. Paolo non insegnò
mai nelle sue epistole della necessità che i cristiani gentili si recassero
regolarmente a Gerusalemme per rendere conto, per portare le loro regolari
offerte di chiesa o per festeggiare una delle feste giudaiche. Ciò che Paolo da
Giudeo ha fatto occasionalmente o avrebbe voluto fare non si può
semplicemente proiettare sui cristiani gentili, poiché non insegnò mai
qualcosa del genere.
Mandato della chiesa verso Israele
Una certa confusione viene fatta riguardo a un mandato
della chiesa verso Israele, citando versi tratti dalla vita di Gesù. È singolare
applicare il mandato di Gesù verso i Giudei e il coinvolgimento dei Dodici prima
e dei Settanta poi in tale incarico prima di Pentecoste al mandato della
chiesa. (Sorvoliamo che i 70 discepoli sarebbero «70 nazioni cioè tutto il
mondo»! Gesù «li mandò a due a due dinanzi a sé, in ogni città e luogo dove
egli stesso stava per andare» [Lc 10,2]; quindi non c’era nessuna differenza
col mandato dei Dodici, come il contesto mostra [cfr. Mt 10,1.7ss]) Il mandato
finale ai discepoli da Pentecoste in poi si trova alla fine del ministero
di Gesù, prima dell’ascensione e di Pentecoste, e riguarda come oggetto «tutti i
popoli» (Mt 27,18,20) e come dimensione geografica la dinamica centrifuga da
Gerusalemme verso le «estremità della terra» (At 1,8). O come lo formulò Paolo,
«l’ambizione di predicare l’Evangelo là dove Cristo non fosse già stato
nominato» (Rm 15,20). È quindi errato applicare un comandamento dato ai
discepoli durante il loro apprendistato prima di Pentecoste (Mt 10,6) ai
cristiani d’oggi. Negli Evangeli Gesù proibì loro di evangelizzare i Gentili e i
Samaritani, ma permise loro di farlo solo verso i Giudei, in At 1,8 comandò loro
espressamente di evangelizzare Samaritani e Gentili. Tale mutamento fu dovuto,
tra altre cose, al fatto storico che Gesù fu rifiutato quale Messia-Re da parte
della stragrande maggioranza dei Giudei e dei loro capi. Quando non si tengono
conto degli sviluppi storici e teologici, si fanno sempre confusioni che portano
a gravi conseguenze nell’insegnamento e nella pratica delle chiese. Qual era l’unico ministero praticato da Paolo verso il
suo popolo storico? Egli li evangelizzava, se ascoltavano bene, allora era
pronto a istruirli. Se non ascoltavano e lo osteggiavano (com’era nella
stragrande maggioranza dei casi), egli si scuoteva la polvere di dosso (a
testimonianza contro di loro) e affermava di rivolgersi in tale luogo ai
Gentili. Poi separava i pochi discepoli giudei dai «Giudei rimasti
disubbidienti» (At 14,2), ossia all'Evangelo e a Gesù Messia, li univa a
quelli gentili e li istruiva nella dottrina di Cristo, finché non era costretto
(spesso dagli stessi discepoli che temevano per la sua vita) ad andare altrove,
poiché i Giudei non convertiti volevano fargli la pelle (vv. 5s).
3.
{Fausto Gaeta} ▲
A ciò che stato scritto dai fratelli, Nicola Martella e Giovanni Melchionda, io
vorrei aggiungere che i cristiani d’oggi, d’ieri e nel futuro hanno un gran
ministero per la nazione d’Israele, a mio parere molto più vasto di quello che
si è fatto dal primo secolo a oggi.
■ 1. Israele è il primogenito di Dio (Es 4 22b). Dio
non ha parlato solo a quelli che sono fedeli al patto ma di tutto il popolo
d’Israele; in Es 9,1 Dio lascia dire al Faraone: «Così dice l’Eterno, il Dio
degli Ebrei: “Lascia andare il mio popolo, perché mi serva”».
Dio ha scelto Israele per servirlo e Dio è venuto a
redimere Israele per farsi un Nome fra le nazioni (2 Samuele 7,23). Anche nel NT
sia Paolo che Pietro li chiamano gli eletti di Dio; e non solo Paolo ricorda ai
Gentili in Romani 9,4 che a Israele appartengono, l’adozione e la gloria e i
patti e la legislazione e il culto e le promesse. Ricorda ai Gentili che non si
devono insuperbire contro i rami che sono stati troncati perché è per la loro
caduta che i Gentili sono stati innestati all’albero della grazia, ma non sono
loro a portare frutto ma bensì è la radice che porta i Gentili. Se Dio non ha
risparmiato i rami naturale cioè Israele, immaginiamoci quando di più può fare a
quelli che sono stati innestati, se s’insuperbiscono contro Israele.
■ 2. I Gentili hanno un grande ministero per la nazione
d’Israele perché sono stati chiamati a rendere geloso il popolo d’Israele. Come
si può rendere geloso qualcuno? L’Apostolo Paolo affermò in Efesini 2 che i
Gentili erano esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della
promessa, come abbiamo visto che le promesse e i patti appartengo a Israele. Ora
chi dobbiamo rendere gelosi: il popolo incredule d’Israele oppure tutti i
fratelli giudei converti a Cristo dal primo secolo a oggi? A mio parere quello
che Paolo vuole dire è che i Gentili sono diventati un solo corpo con gli
israeliti convertiti e, siccome sia al tempo di Gesù che oggigiorno ci sono
molti Israeliti che non credano in Lui, i Gentili possono rendere gelosi gli
Israeliti ancora increduli, vivendo una vita da veri cristiani; ciò può far sì
che si possano accendere dei carboni sul loro capo, affinché diventino gelosi
vedendo che i Gentili hanno qualcosa in più di loro, cioè la salvezza in Cristo.
Egli è la pietra che essi avevano rifiutato e che la maggior parte di loro
continuano a rifiutare, sebbene sia diventata la pietra angolare, come Pietro e
Giovanni spiegarono davanti al Sinedrio: «E in nessun altro è la salvezza;
poiché non v’è sotto il cielo alcun altro nome che sia stato dato agli uomini,
per il quale noi abbiamo a esser salvati» (Atti 4,12).
■ 3. Inoltre i Gentili sono debitori a Israele, perché
i primi convertiti erano Israeliti ed essi hanno annunziato l’Evangelo. Io non
parlo qui solo della colletta che Paolo aveva organizzato, ma io intendo un
perenne debito. Se pensiamo che oggigiorno vivono in Israele circa 600.000
cristiani su 6.000.000 di popolazione, i credenti cristiani giudei in Israele
sono molto di più di quelli che ci sono in Italia. Israele vive sempre in guerra
e sotto minaccia, addirittura qualcuno parla di voler sterminare Israele dalla
faccia della terra. Se Dio non voleva distruggere Sodoma e Gomorra, se ci
fossero stati 10 giusti e noi cristiani stiamo a guardare o a discutere al posto
di metterci in ginocchio e pregare per il popolo d’Israele e specialmente per
tutti i fratelli che vivano in Israele. Dio per mezzo di Giacomo ci dice come dobbiamo trattare
un fratello e se quei fratelli che vivano in Israele hanno bisogno di noi, noi
gli diciamo cercati un’altra terra e vai in pace, oppure li soccorriamo come dei
veri seguaci di Cristo? «Che giova, fratelli miei, se uno dice d’aver fede ma
non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella sono nudi e
mancanti del cibo quotidiano, e un di voi dice loro: Andatevene in pace,
scaldatevi e satollatevi; ma non date loro le cose necessarie al corpo, che
giova? Così è della fede; se non ha opere, è per se stessa morta» (Giacomo
2,14-17). Forse i cristiani hanno dimenticato che per il rientro
d’Israele nella terra promessa saranno le nazioni che devono soccorrere Israele
con i loro beni: «Voi mangerete le ricchezze delle nazioni, e a voi toccherà
la loro gloria» (Isaia 61,6b; cfr. tutto il cap. 61). Inoltre in Isaia 62
Dio rivela il grande ministero che i cristiani hanno per la nazione d’Israele,
cioè il nostro compito è quello di riportare Israele nella terra promessa, se
vogliamo veramente essere chiamati da Dio un popolo santo: «Ecco, l’Eterno
proclama fino agli estremi confini della terra: Dite alla figliuola di Sion:
Ecco, la tua salvezza giunge; ecco, egli ha con sé il suo salario, e la sua
retribuzione lo precede. Quelli saranno chiamati “Il popolo santo”, “I redenti
dell’Eterno”, e tu sarai chiamata “Ricercata”, “La città non abbandonata”»
(Isaia 62,11s). I cristiani devono annunciare che la loro salvezza è vicina.
■ Conclusione: I cristiani farebbero molto bene a
mettere il loro dono spirituale a servizio del popolo d’Israele, perché in
Israele ci sono molti più credenti di quelli che pensiamo. Il credente deve
ricordarsi dei tempi d’Elia, come Dio aveva un vasto gregge in Israele che lo
serviva, così Dio ha fatto in ogni tempo e anche oggi, perché il loro garante è
Dio personalmente così come il nostro è Cristo. Dio ha detto in molte maniere a Israele che la sua
fedeltà sarebbe stata il loro baluardo (Salmo 89,31–37;91,4; 94,14;98,3; Ez
20,24; 36,22; Is 48,11; ecc.). Inoltre i cristiani devo sempre ricordarsi che il
nostro Signore Gesù Cristo è venuto sulla terra dalla razza di Giuda, quindi
come dice un vecchio proverbio: «Si rispetta il cane per amore del padrone».
Inoltre io ringrazio Dio che ha posto delle sentinelle
su Gerusalemme che vegliano giorno e notte (Is 6,26). Ringrazio Dio che manda
dei pescatori a pescare e dei cacciatori a cacciare per riportare Israele nella
terra promessa.
4.
{Nicola Martella} ▲
Lasciamo al lettore di valutare il contributo di Fausto Gaeta, che ringraziamo
per la partecipazione a questo tema. Ecco alcune domande che possono
aiutare il lettore nella sua valutazione. Ricordiamo che la tesi di questo
autore è che i cristiani abbiano un ministero per la nazione d’Israele.
▪ La citazione dei brani è sempre pertinente
rispetto al tema? Oppure gli autori intendevano nei singoli brani qualcos'altro
rispetto al tema? ▪ Esiste una continuità, come l'autore suggerisce, fra le
«nazioni» e i «cristiani»? In tali brani o in altri viene comandato qualcosa di
esplicito ai cristiani riguardo al riportare gli Israeliti in patria? ▪
In Romani 9
si parla veramente di Gentili che «s’insuperbiscono
contro Israele»? ▪ È proprio vero
che la percentuale dei cristiani giudei che vivono in Israele sia più elevata
rispetto ai cristiani giudei che vivono altrove? ▪ Isaia 62,11s si accorda
veramente con questa affermazione dell'autore: «...il nostro compito è
quello di riportare Israele nella terra promessa,
se vogliamo veramente essere chiamati
da Dio un popolo santo»? ▪ Le
affermazioni e le conclusioni dell'autore sono del tutto stringenti e
persuasive?
5. {}
▲
6. {}
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7. {}
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8. {}
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9. {}
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10. {}
▲
11. {}
▲
12. {}
▲
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/T1-MinisteroxIsraele_R34.htm
26-01-2007; Aggiornamento: 27-01-2010
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