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1.
Entriamo in tema
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2.
La sofferenza quale «megafono di Dio»
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3.
La sofferenza quale «stigmate»
del peccato
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4.
Il vero problema dell’uomo
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5.
L’handicap dell’antipatico
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6.
L’evangelista handicappato
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7.
Il peggior handicap |
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1.
ENTRIAMO IN TEMA:
Questa è dapprima una nota redazionale. Sono stato per quasi sei anni volontario
in una comunità per handicappati nelle Marche, durante i miei studi di scuola
superiore, e conosco da insider il vasto spettro della problematica del
fattore «H» (Handicap).
Franco Liotti è stato uno studente dell’Ibei (Istituto Biblico
Evangelico Italiano) e ha continuato a essere legato alla Scuola Biblica anche
come membro del consiglio dell’associazione. Egli conosce a fondo il fattore
«H», essendo legato egli stesso a una carrozzina. Ma ciò non gli ha
impedito di metter su famiglia e di esercitare, negli ultimi decenni, un
ministero benedetto nella sua chiesa di appartenenza (Colle Val d’Elsa, SI) e
laddove viene chiamato come predicatore ed evangelista. Il suo buon umore e la
sua vena umoristica sembrano inaffondabili e «trasudano» anche in ogni sua
predicazione.
Franco Liotti ha tenuto conferenze sull’handicap in
varie circostanze, sia dinanzi alla comunità civile (alla presenza di
autorità locali e di rappresentanti di varie associazioni di mutilati,
invalidi e disabili), sia in conferenze cristiane. Egli è disposto a
intervenire, laddove fosse invitato, per trattare questo tema dal punto di
vista biblico e cristiano. Chi lo ha conosciuto e «vissuto», non lo
dimenticherà facilmente. Siccome per lui scrivere è come scalare l’Everest,
il seguente articolo è stato una vera impresa. Lasciamo sostanzialmente così
com’è il suo linguaggio parlato, alquanto vivo e pittoresco. Una
prima versione è apparso nel dicembre del 2003 nel mensile
«Il Cristiano».
{Nicola Martella}
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2.
LA SOFFERENZA QUALE «MEGAFONO DI DIO»:
Ogni tanti anni viene indetto un anno della
disabilità, il 2003 fu dedicato dall’Unione Europea a questa problematica.
La mia impressione (come persona disabile) è che l’Europa (incluso il nostro
Paese) non abbia fatto un gran che verso questa categoria di cittadini
considerati praticamente di serie «B». Naturalmente questa non è l’unica
ingiustizia di cui soffrono dei cittadini italiani (ed europei). Io però col
seguente articolo mi sono prefissato una mèta che dubito sia oggetto di
attenzione da parte governo italiano o di qualche governo europeo. Infatti
desidero vedere l’handicap non tanto nell’ottica politica o
socio-previdenziale-assistenziale (lascio tale compito a chi ha ricevuto il
mandato per assolverlo) ma alla luce della Bibbia, soprattutto del Nuovo
Testamento.
Come punto di partenza faccio riferimento a ciò che
ha scritto il noto scrittore britannico C. S. Lewis nel suo libro «Il
problema della sofferenza» (ed G.B.U., pag. 79): «La sofferenza
richiama sempre attenzione. Dio sussurra nei nostri piaceri,
parla nelle nostre coscienze ma grida nelle nostre sofferenze; il dolore
è il suo megafono per svegliare un mondo sordo» (n.b.: il grassetto
è mio).
Non posso fare a meno di condividere questo suo
pensiero, infatti quando tutto ci va bene difficilmente pensiamo a Dio (ciò
è vero soprattutto per il non credente). Quando poi il dolore invade e
devasta la nostra esistenza o quella dei nostri cari (conta poco sotto quale
veste: incidente, malattia o altro), allora è come svegliarsi di soprassalto
da un bel sogno mentre le orecchie ci rintronano spaccandoci i timpani
perché il dolore, la sofferenza sono esplosi nella nostra tranquilla vita
dove tutto era morbido, soffice, vellutato. È proprio vero che la sofferenza
richiama sempre attenzione e fa porre
interrogativi inquietanti.
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3.
LA SOFFERENZA QUALE «STIGMATE» DEL PECCATO:
Ne sanno qualcosa gli stessi discepoli del Signore i quali, quando si
trovarono davanti a un uomo che era nato cieco, non poterono fare a meno di
chiedersi – e di chiedere a Gesù: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi
genitori, dato che è nato cieco?»
(Gv 9,2).
Probabilmente la domanda dei discepoli è stata
posta a bassa voce, forse anche con qualche imbarazzo poiché si trovavano
davanti a qualcosa che era più grande di loro e a cui tentavano (secondo una
certa logica) di dare una spiegazione razionale.
È da notare che, benché la domanda dei discepoli
rifletta un atteggiamento classico, fa comunque evidenziare una tremenda
realtà, e cioè che l’handicap, la disabilità, la malattia, la sofferenza, la
morte sono tutte
conseguenze (dirette o indirette) del peccato dell’umanità.
Infatti in Genesi 2,16-17 è scritto: «Dio diede all’uomo questo
comandamento: “Mangia con la massima libertà il frutto di ogni albero del
giardino; ma il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non
lo mangiare; perché nel giorno che tu lo mangerai, sicuramente morirai”».
Infatti l’uomo muore in conseguenza della sua disubbidienza a Dio e della
sua caduta nel peccato. Ma la sua morte quasi mai ha un cammino dolce; quasi
sempre il percorso che conduce l’uomo alla sua morte è costellato di dolore,
di sofferenze e di handicap vari.
Quindi la domanda dei discepoli: «Chi ha
peccato, lui o i suoi genitori, dato che è nato cieco?»,
è legittima per certi versi. Infatti quel cieco portava in sé le «stigmate»
del peccato, ma non di un suo peccato particolare oppure di un peccato
specifico dei suoi genitori, bensì lui aveva nel suo corpo (in maniera più
evidente che in altri) le conseguenze del monito di Dio ad Adamo e a Eva
(Gen 2,16-17). Ma ciò nonostante, il Signore – nella sua immensa
misericordia – si serve anche di una grave disabilità per manifestare la
grazia e le opere di Dio.
Infatti, Gesù così risponde alla domanda dei suoi discepoli: «Né lui
peccò, e neanche i suoi genitori; ma è così
[cioè quell’uomo è nato cieco] affinché le opere di Dio siano manifestate in
lui» (Gv 9,3). Infatti Dio manifestò la sua opera in quel cieco in due
maniere:
guarì – attraverso Gesù – l’uomo che era nato cieco (Gv 9,6-7) e poco
dopo – sempre mediante il Suo Figliuolo – lo
salvò (Gv 9,35-38). In altre parole, in quest’uomo nato cieco avvenne
un duplice miracolo: fisico e spirituale.
Ma qual fu il miracolo di portata eterna? Quello
fisico o quello spirituale? Sicuramente quello spirituale! Infatti il
«nostro» ex cieco un giorno potrebbe avere avuto nuovamente seri problemi di
vista a causa della vecchiaia… invece la salvezza che aveva avuto in dono,
credendo nel Signore Gesù, quella non la perse neanche con la vecchiaia,
perché quando Dio salva una persona, la salva per sempre!
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4.
IL VERO PROBLEMA DELL’UOMO:
Un altro caso in cui il Nuovo Testamento ci parla di handicap,
riguarda un uomo paralizzato agli arti inferiori che fu portato –
letteralmente di peso – da Gesù. Questo mi fa pensare a qualcosa che avviene
anche oggi: dinanzi a una persona gravemente handicappata, non di rado ci sono
persone che hanno atteggiamenti di compassione mista a pietà, soprattutto coloro
che sono più vicini al disabile, e quasi sempre si tratta di parenti o di amici
(a volte di volontari). In genere queste persone tentano di venire incontro alle
esigenze dell’invalido cercando di intuire i problemi di quest’ultimo e di
trovare la soluzione migliore per lui (e ciò è indubbiamente positivo). Questo è
quello che dovettero pensare alcune persone che portarono da Gesù un uomo
paralizzato, e lo portarono con una sorta di «barella»
(Mc 2,1-12). Quelle quattro persone ebbero un bel da fare per introdurre
il paralitico alla presenza di Gesù, ma – anche se in maniera rocambolesca –
riuscirono nel loro intento (Mc 2,4).
Quando il paralitico fu davanti a Gesù, coloro che
faticosamente lo avevano portato e tutti quelli che assistevano a quella
scena non certo comune (un paralitico che scende dal tetto calato su una «barella»)
si aspettavano ovviamente un miracolo da parte di Gesù a favore del
paralitico, invece il Signore che fece?
Sorprese ancora una volta tutti, rivolgendo
all’uomo paralizzato delle parole che forse nessuno si aspettava ma che
erano cariche di affetto e di compassione: «Figlio, i tuoi peccati ti
sono rimessi [perdonati, cancellati]» (Mc 2,5).
Le parole di Gesù avevano centrato il vero problema
di quel disabile: il perdono dei suoi peccati. Ma i religiosi
benpensanti dell’epoca contestarono (nei loro pensieri) Gesù, accusandolo di
bestemmiare perché solo Dio può rimettere i peccati (Mc 2,6-7). Allora Gesù
disse loro: «Secondo voi che cosa è più utile dire al paralitico: “I tuoi
peccati ti sono cancellati”, oppure dirgli: “Alzati, prendi il tuo lettino e
cammina”?» (Mc 2,9). Probabilmente ci sarà stato qualche attimo di
pesante silenzio in cui forse la maggior parte dei presenti avrà pensato che
per quel paralitico la cosa migliore sarebbe stata quella di poter camminare
con le proprie gambe.
Forse anche oggi tanti penserebbero così, perché
oggi più che mai si vive per il corpo, che deve essere bello, funzionale,
perfetto, statuario, trascurando molto spesso quello che non si vede, lo
spirito. In tal modo si tenta di eliminare o ridurre ai minimi termini
l’handicap, la malattia, la sofferenza. Questi tentativi possono certamente
apparire come encomiabili, però non risolvono il vero problema dell’uomo:
il perdono dei propri peccati e la riconciliazione con Dio.
Ora, bisogna ancora dire che Gesù non ha mai
disprezzato il corpo, ma ha messo ogni cosa al posto giusto centrando
il vero problema sia per quel disabile che per ogni persona normodotata,
cioè: il perdono dei propri peccati. Gesù dimostrò poi il suo potere sia
guarendo fisicamente il paralitico (quindi prendendosi cura del suo corpo),
sia perdonandogli i suoi peccati (prendendosi in tal modo cura dell’anima di
quell’uomo). Ma è da notare che Gesù innanzitutto lo guarisce
spiritualmente, perché quella era la necessità veramente importante,
solo dopo lo guarisce anche fisicamente.
Questo ci fa capire che il vero problema che ogni
uomo deve risolvere non è il benessere fisico o la guarigione del suo corpo,
ma il suo benessere spirituale e la salvezza eterna della sua anima,
e tutto ciò passa esclusivamente attraverso il sacrificio di Cristo che ha
dato sé stesso per la nostra salvezza.
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5.
L’HANDICAP DELL’ANTIPATICO:
Davanti a una persona come Zaccheo
difficilmente la gente si muoveva a compassione. Infatti lui era una persona
totalmente autonoma: parlava, vedeva, sentiva, era dotato anche di
un’intelligenza piuttosto vivace. Il suo più che altro era un handicap
interiore,
benché avesse anche quello che per lui era indubbiamente un «handicap»
esteriore: la mancanza di altezza. Potremmo dire che il suo handicap era legato
più che altro all’apparire, all’auto-accettazione, ed è un handicap comunissimo
nella nostra epoca in cui più che essere si deve apparire (stando ai cosiddetti
mezzi di comunicazione di massa: televisione e riviste in primo luogo). Così
anche oggi tanta gente – soprattutto adolescenti e giovani, ma anche ultra
cinquantenni – non si auto-accetta per come è («Sono troppo alto, troppo
basso, grasso, magro, gambe storte, naso storto, orecchie a sventola, viso
lentigginoso, calvo, capelli ricci, capelli lisci, voce stridula, pancetta...»).
A volte questo tipo di handicap conduce la persona a rendersi ridicola o a
compiere gesti inconsulti perché si è auto-convinta che nessuno la accetta,
nessuno la ama: è il classico complesso di inferiorità.
Per quanto riguarda Zaccheo, il suo complesso di
inferiorità lo notiamo quando Gesù arrivò nella sua città e lui – che
probabilmente era piuttosto curioso – pur di vederlo fu costretto a rendersi
ridicolo e (come una scimmietta) si arrampicò su un albero (Lc 19,1-4). Ora,
se su quell’albero si fosse arrampicato un agile e scultoreo atleta (tipo
Tarzan), sicuramente sarebbe stato ammirato, ma, dato che ad arrampicarsi su
quell’albero fu «la scimmietta-Zaccheo»,
molto probabilmente si beccò chissà quante battute sarcastiche per la sua
«impresa».
Zaccheo insomma non godeva le simpatie dei suoi
concittadini, e ciò probabilmente era dovuto non tanto alla sua disabilità –
era piccolo di statura (Lc 19,3) – quanto al mestiere che esercitava: «era
capo dei pubblicani ed era ricco» (Lc 19,2). In altre parole, era un
capo esattore delle tasse (per conto dei Romani) e sicuramente si era
arricchito disonestamente alle spalle dei contribuenti. Di certo Zaccheo
non era amato dai più e chissà quante volte avrà pensato di non essere
amato neanche da Dio. Ma Dio lo amava e lo dimostra il fatto che Gesù
addirittura si auto-invitò a casa sua, scatenando le critiche dei religiosi
dell’epoca: «Come Gesù arrivò in quel luogo, alzò gli occhi [verso
l’albero] e disse a Zaccheo: “Scendi subito, perché oggi devo albergare in
casa tua”. Zaccheo scese subito e lo accolse con allegrezza. Veduto ciò,
tutti mormoravano dicendo: “È andato ad albergare da un peccatore”» (Lc
19,5-7).
Il Signore non pose attenzione alle critiche della
gente e sicuramente ebbe una conversazione molto proficua con Zaccheo.
Questo lo si deduce dal fatto che Zaccheo visse un cambiamento radicale
della sua vita perché fu salvato dal Signore. Ciò lo si comprende dal
fatto che «Zaccheo si presentò al Signore dicendo: “Ecco, Signore, la
metà dei miei beni la do ai poveri; e se ho frodato qualcuno di qualcosa,
gli rendo il quadruplo”. E Gesù gli disse: “Oggi la salvezza è entrata in
questa casa… poiché il Figlio dell’uomo [Gesù Cristo stesso] è venuto per
cercare e salvare ciò che era perduto”» (Lc 19,10).
Dato che il Signore conosceva quello che c’era nel
cuore dell’uomo, sapeva bene che Zaccheo non stava bleffando, non stava
cercando di fare «una buona impressione» su Gesù.
È da notare ancora che quando Zaccheo si convertì a
Cristo, la sua vita cambiò solo interiormente; esteriormente
(fisicamente) rimase come era, ossia piccolo di statura, ma gigantesco
spiritualmente.
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6.
L’EVANGELISTA HANDICAPPATO:
Quando guardiamo all’apostolo Paolo e alla sua vita estremamente
impegnata e movimentata, facciamo fatica a vedere in lui una persona
handicappata. Ci piace vederlo come una sorta di condottiero per l’Evangelo. Non
per niente qualcuno lo definì: «Il leone di Dio», e ciò proprio per il
coraggio, la tenacia, la determinazione che (come pochi) ha messo al servizio
del Signore.
Quando pensiamo a questo apostolo facciamo fatica a
scorgere in lui un handicap fisico, considerando i suoi molteplici viaggi
per mare e per terra: un impegno che non è durato solo per qualche mese ma
per molti anni. Si calcola che dalla sua conversione a Cristo fino al giorno
della sua morte a Roma, egli abbia servito il Signore per un periodo di
tempo che va dai 25 ai 35 anni compiendo tantissimi viaggi in situazioni
spesse volte disagevoli – soprattutto considerando i mezzi di trasporto
dell’epoca. Eppure questo grandissimo uomo di Dio aveva anche lui un
handicap: si suppone che si trattasse di un serio problema legato alla
vista o che comunque fosse sicuramente visibile e non tanto piacevole da
guardare. Infatti in una delle sue lettere (Gal 4,13-14) egli così scriveva:
«Voi sapete bene che fu a motivo di una [mia] infermità della carne che
vi evangelizzai la prima volta; e quella mia infermità fisica – che era per
voi una prova – voi non la disprezzaste e non l’aveste a schifo; al
contrario, mi accoglieste come un angelo di Dio, come Cristo Gesù stesso».
Queste parole ci fanno vedere – da un lato – che l’handicap (in un credente)
può divenire un mezzo efficace per evangelizzare. Da un altro lato,
queste parole di Paolo ci fanno comprendere quale deve essere il nostro
atteggiamento verso la persona handicappata: deve essere accolta, accettata,
ben voluta, non tanto perché è handicappata, ma perché è una persona.
Altrimenti come ascolterà l’Evangelo quel disabile che magari oggi evitiamo
solo perché ci sentiamo a disagio in sua presenza o perché la sua disabilità
ci fa schifo? Oltre tutto, la persona che oggi è giovane, bella,
perfettamente funzionale, domani potrebbe essere ripugnante, brutta e
handicappata o a causa della vecchiaia, o per malattia o incidente, e quella
persona potresti essere un giorno tu. Vorresti che gli altri ti evitassero
lasciandoti marcire nella solitudine della tua vecchiaia o nella tua
disabilità?!?
Comunque nonostante la sua disabilità, l’apostolo
Paolo è stato un uomo di cui Dio si è servito in maniera incredibile: ha
viaggiato più di tutti gli altri apostoli, ha fondato numerose chiese, ha
scritto quasi la metà del Nuovo Testamento, ha portato l’Evangelo in quasi
tutto l’Impero Romano (Roma inclusa) e per rimanere fedele a Cristo è stato
ucciso a Roma.
Ma l’apostolo Paolo come ha vissuto il suo
handicap? Non certo con rassegnazione o fatalismo. Ebbe ugualmente una vita
intensissima e testimoniò che l’handicap era stato usato da Dio per
renderlo umile, per non farlo «insuperbire, dato che aveva avuto [da
Dio] delle rivelazioni eccezionali»
(2 Cor 12,7). Disse anche di aver pregato il Signore (per la sua
guarigione o per un miracolo) non una volta ma in ben tre diversi momenti
della sua vita (2 Cor 12,8) ma era consapevole che il Signore non è
obbligato a guarire nessuno, quindi accettò senza recriminazioni o
amarezze la risposta del Signore: «La mia grazia ti basta, perché la
mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza» (2 Cor 12,9).
L’apostolo Paolo accettò a tal punto questa risposta del Signore che disse
ancora: «Molto volentieri mi glorierò delle mie debolezze, affinché la
potenza di Cristo riposi su me. Per questo io mi compiaccio nelle
debolezze, nelle offese, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie
per amore di Cristo; perché quando sono debole, allora sono forte» (2
Cor 12,9b-10).
L’atteggiamento dell’apostolo Paolo verso il suo
handicap non fu quindi di rassegnazione, di amarezza, di vittimismo o di
fatalismo, ma lo accolse come qualcosa che Dio gli aveva inviato affinché
fosse la grazia di Dio a risaltare nella sua vita, e non le sue
capacità intellettuali o i suoi talenti naturali. Inoltre, non fece appello
al fatto di essere un apostolo per «ricattare Dio» imponendogli un
miracolo o una guarigione nei suoi riguardi. Dio non è obbligato a guarire
nessuno e non è in debito con nessuno, neanche con un apostolo del calibro
di Paolo. Quando il Signore guarisce o fa un miracolo, sta agendo ancora una
volta nella sua grazia, non perché il «guarito»
o il «miracolato» abbiano acquisito qualche merito. Davanti al
Signore non ci sono meriti di sorta, e noi dobbiamo imparare ad accettare
la sua perfetta volontà, anche quando non la comprendiamo!
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7. IL PEGGIOR HANDICAP:
Se facessimo un sondaggio chiedendo a un gruppo variegato di persone
qual è (secondo loro) il peggiore handicap, sicuramente verrebbero fuori
risposte tipo: cecità, sordità, paralisi, ritardi mentali, ecc.; tutti handicap
legati in qualche maniera all’aspetto fisico o psichico della persona. Se poi
facessimo vedere – sempre alle stesse persone – il filmato di un giovane molto
religioso, fisicamente perfetto, bravo e onesto, capace di sostenere
egregiamente una conversazione, magari anche con un sostanzioso conto in banca,
ritengo che ben pochi direbbero che quel giovane è affetto dal peggiore handicap
che possa esistere.
Eppure, questo tipo di giovane – così gravemente
handicappato – esiste e lo troviamo descritto in un racconto riportato nel
Vangelo di Marco (10,17-27). Vi si racconta che un giovane – apparentemente
non è affetto da alcun handicap – si precipitò davanti a Gesù, si
inginocchiò alla sua presenza e gli pose la domanda: «Maestro buono, che
devo fare io per ereditare la vita eterna?» (Mc 10,17). La domanda è
quella che vorremmo sempre sentire, però nella sostanza non è corretta,
perché lui riteneva di poter fare qualcosa per essere salvato, quando
in realtà non poteva fare assolutamente nulla per ereditare la vita eterna.
Gesù comunque intavola un serio dialogo con lui e – per fargli notare la sua
impossibilità di ereditare (come premio, come merito) la vita eterna – gli
chiede di mettere in pratica alcuni comandamenti (che da bravo religioso
ovviamente conosceva): «Non uccidere, non commettere adulterio, non
rubare, non dire falsa testimonianza... onora tuo padre e tua madre» (Mc
10,19).
Se questo giovane si fosse esaminato onestamente
prima di rispondere a Gesù, avrebbe preso atto del suo reale fallimento,
invece di dire: «Maestro, tutte queste cose io le ho osservate fin
dalla mia giovinezza» (Mc 10,20). È come se avesse detto: «Maestro,
mi deludi; da te mi aspettavo qualcosa di diverso, da te mi aspettavo
qualcosa di più alto, mi aspettavo una sorta di 11° comandamento e non la
solita tiritera di comandamenti a me arcinoti». Allora Gesù pose il dito
nella sua piaga toccando il suo invisibile ma grave handicap che – in questo
caso – era un vero e proprio idolo:
l’amore per il denaro. Ecco perché Gesù gli disse: «Vai, vendi tutto
ciò che hai e dallo ai poveri, così avrai un tesoro nel cielo, poi vieni
e seguimi» (Mc 10,21).
La reazione di questo giovane ricco e religioso fu
molto triste, infatti egli «fu rattristato da quelle parole di Gesù e
se ne andò addolorato, perché aveva grandi beni» (Mc 10,22). Il suo
grave handicap spirituale lo aveva paralizzato più di una paralisi fisica.
Infatti ai fini della salvezza se l’uomo confida in se stesso, nella propria
bontà e onestà, nelle proprie ricchezze, nella propria religione, non sarà
mai salvato, ecco perché Gesù disse, a commento di quest’incontro: «Quanto
difficilmente entreranno nel regno di Dio coloro che confidano nelle
ricchezze... È più facile a un cammello passare attraverso la cruna di un
ago che a un ricco [che confida in sé stesso, nella propria religiosità e
nelle sue ricchezze] entrare nel regno di Dio» (Mc 10,23.25).
I discepoli di Gesù nel sentire queste parole
rivolte al giovane ricco restarono stupiti e dicevano fra di loro: «Ma
allora,
[se neanche un religioso ricco può salvarsi]
chi può essere salvato?» (Mc 10,27). A questa angosciosa domanda
dei suoi discepoli, Gesù rispose in maniera inequivocabile: «Agli uomini
è impossibile salvare
[sia se stesso che gli altri] ma non a Dio, perché tutto è possibile a Dio»
(Mc 10,27).
L’uomo non può auto-salvarsi; l’uomo non può
neanche aiutare Dio, per ottenere la propria salvezza o per quella degli
altri. L’uomo può solo arrendersi a Dio e farsi salvare da Gesù Cristo,
perché Dio ama l’uomo, non importa se quell’uomo è normodotato o
handicappato, ricco o povero, bianco o nero, vecchio o giovane, perché «Dio
ha tanto amato il mondo [l’essere umano] che ha dato
il suo unico figlio, affinché chiunque crede in lui
non perisca ma abbia vita eterna» (Gv 3,16).
Probabilmente tramite la lettura di questo articolo
Dio ha sussurrato dolcemente nelle tue orecchie, dicendoti che ti ama e che
ti vuole salvare. Ascolta la sua voce che ti chiama a salvezza, non
costringerlo a gridare nelle tue orecchie. Ma se già sta gridando nel tuo
dolore, se sta gridando nella tua sofferenza, se sta gridando
nel tuo handicap, lo fa per svegliarti, affinché anche tu accetti Gesù
Cristo come tuo Salvatore e Signore.
Non fare come il giovane ricco e religioso che è
andato via da Gesù profondamente rattristato sotto il peso del peggiore
degli handicap: la separazione da Dio. Non essere sordo alla Sua voce!
►
Riflessioni sulla sofferenza {Ermenegilda Alunno Paradisi}
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A2-Handicap_BB_MeG.htm
Aggiornamento: 26-04-2007 |