Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Radici 5-6

 

Riuscire nella vita

 

 

 

 

Oltre alle parti introduttive (Bibbia, AT) e al Giochimpara finale, il libro contiene due parti distinte dell’AT: l’Epoca Babilonese e l’Epoca Persiana. In appendice ci sono tre excursus:
■ I nomi ebraici di Dio
■ Il patto, i patti e i testamenti
■ La Bibbia fra criticismo e modernismo.

 

◘ Ecco le parti principali dell’Epoca babilonese («Libri storici e profetici III»):
■ L’epoca babilonese in generale
■ Sofonia
■ Habacuc
■ Geremia
■ Lamentazioni
■ Daniele
■ Ezechiele
■ Il tempo dell’esilio. 

 

◘ Ecco le parti principali dell’Epoca persiana («Libri storici e profetici IV»):
■ L’epoca persiana in generale
■ Esdra-Nehemia
■ Ester
■ Aggeo
■ Zaccaria
■ Malachia
■ L’epoca intertestamentaria.

 

► Vedi al riguardo la recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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RIFLESSIONI SULLA SOFFERENZA

 

 di Ermenegilda Alunno Paradisi

 

1. Introduzione

2. La mia esperienza

3. Per sopportare la sofferenza

4. L’attitudine di Cristo di fronte alla sofferenza

5. 5. Guardare oltre

6. L’atteggiamento della chiesa

7. Conclusione

 

 

1. INTRODUZIONE: La sofferenza non è un argomento accademico sul quale imbastire discorsi più o meno ragionevoli. Di fronte alla sofferenza siamo spesso presi dall’orrore, dalla paura e da un atteggiamento di rifiuto. Ci scopriamo senza armi e senza risorse. Essa non si può circoscrivere, è come un oceano grande, profondo e ogni giorno rischiamo di esserne sommersi. Quale atteggiamento avere? Fuggire adducendo scuse? O chinarsi mostrando amore e compassione? Insomma imitare il famoso «buon Samaritano» o il sacerdote che si gira dall’altra parte? (Lc 10,30ss). La sofferenza è un’esperienza universale che prima o poi tutti siamo chiamati ad affrontare, fa parte del cammino di ognuno di noi. Essa però possiede anche un carattere autobiografico, perché ciascuno la vede attraverso la sua personale prospettiva, mai uguale a quella di un altro. Non si può quindi generalizzare e la mia è una lente particolare, che riflette il percorso che ho fin qui fatto, il modo particolare nel quale Dio mi è venuto incontro.

     La sofferenza che conta è sempre quella che ci tocca in maniera più diretta, perché quello che è lontano non risveglia la nostra attenzione. Oggi si cerca di rimuovere la sofferenza; la pubblicità esalta la forza, la giovinezza, la bellezza e la buona sorte, che sono presentate come condizioni alle quali si ha diritto. La sofferenza è qualcosa che fa paura, destabilizza le nostre certezze. Tendiamo perciò a cercare esempi che possano collegare il peccato alla sofferenza, dobbiamo individuare la colpa per rispondere al nostro bisogno di ordine e di spiegazioni.

     Parlare della sofferenza, comunque, significa stimolare una discussione che è profondamente personale, radicata nella nostra visione di Dio e di noi stessi.

 

 

2. LA MIA ESPERIENZA: La prima volta che ho veramente sofferto è stato quando è morto mio padre. Con lui moriva anche una parte della mia vita e il dolore è stato presente per anni, anche quando pareva dimenticato, riemergeva a un tratto con tutta la sua forza. Poi col tempo sono morti parenti cari, amici e la carta geografica della mia vita, con i suoi punti di riferimento affettivi, ha subito delle trasformazioni profonde.

     La sofferenza non è mai neutra e indifferente, lacera i nostri cuori, spezza i nostri corpi. Ci piomba addosso all’improvviso, ci lascia storditi, increduli. Intorno a noi restano solo detriti, macerie, vite bruciate. A volte ci si chiude in un silenzio di tomba, ma che ha lo stesso fragore assordante e tremendo di un terremoto, il cui boato resta all’interno delle viscere della terra. In altri casi c’è una rivolta, un rifiuto del dolore che invece esce all’esterno, come nel caso di Giobbe e di alcuni profeti, che manifestano una protesta aperta, chiara, consapevole e chiedono «perché succede tutto questo?». Sono tante domande che prorompono e anche nel Salmo 22 non si minimizza, ma viene fuori tutta l’amarezza.

     Nel 1989 ho subìto un grave incidente che mi ha resa paraplegica. Ho trascorso quasi nove mesi in vari ospedali, fra coma, operazione, risveglio e riabilitazione. Che strano effetto vedermi in sedia a rotelle, non riuscivo a crederci! Eppure quella faccia che mi rimandava lo specchio era proprio la mia. Vedevo la mia immagine spezzata, come una bambola di pezza gettata là senza nessun riguardo. Anche se interiormente mi sentivo come prima, con le mie capacità, i miei dubbi, le mie debolezze.

     Mi hanno detto chiaramente che il mio midollo spinale era tagliato e non avrei mai più potuto camminare, eppure mi sembrava come se parlassero di un’altra persona. Poi pian piano ho capito cosa significava essere paraplegici, essere ogni giorno, ogni momento di fronte a un limite. Quella è stata la mia morte, era come se vedessi scavare la mia fossa per esservi sepolta viva.

     Mi sentivo un po’ come un ostaggio in mano a un nemico che mi diceva: «Se hai un padre buono, come può averti ridotto così, lasciarti in questo stato?». In Lamentazioni 3,1-25 è scritto qualcosa che mi ha colpito e del quale riporto alcune espressioni: «Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione… Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre… Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha spezzato le mie ossa… Mi ha circondato di un muro perché non esca; mi ha caricato di pesanti catene. Anche quando grido e chiamo aiuto, egli chiude l’accesso alla mia preghiera. Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra, ha sconvolto i miei sentieri. È stato per me come un orso in agguato, come un leone in luoghi nascosti. Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato, mi ha reso desolato… Tu mi hai allontanato dalla pace, io ho dimenticato il benessere. Io ho detto: “È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!”… Ecco ciò che voglio richiamare alla mente, ciò che mi fa sperare: è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite, si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà! “Il Signore è la mia parte”, io dico, “perciò spererò in lui”. Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca».

     Ognuno è toccato dalla sofferenza (malattie, lutti, miseria, ingiustizie, depressioni, delusioni) e la sofferenza nel mondo è quotidiana: fame, violenze, guerre, catastrofi. Come riuscire ad accettare che tutto questo faccia parte della stessa condizione umana? Per alcune religioni (per esempio l’Induismo) la sofferenza non è un grande problema, mentre per la visione giudaico-cristiana la questione altroché se si pone. Perché se crediamo che Dio è buono e che si preoccupa di noi, allora la sofferenza diventa una contraddizione radicale.

 

 

3. PER SOPPORTARE LA SOFFERENZA: Nell’affrontare la sofferenza dobbiamo utilizzare, oltre alla fede, anche la nostra intelligenza naturale, cioè una specie di bussola interiore che ci aiuta ad affrontare i problemi; lucidità, coraggio e compassione mi sembrano importanti quanto il sostegno spirituale. Nella lotta spesso non si ha più un pensiero coerente, perché si vuole essere liberati a ogni costo. Abbiamo bisogno di capire quello che ci succede, trovare un senso per reagire in un modo saggio, non siamo pronti, siamo inermi e all’inizio non sappiamo assolutamente come rispondere al colpo ricevuto.

     Prendere atto della propria condizione, qualunque sia la realtà, è un vantaggio. D’altronde non abbiamo altra scelta: non possiamo negare quello che ci è successo! Intanto è meglio cominciare a prendersi cura di se stessi, la luce verrà a suo tempo. La meditazione e la preghiera rafforzeranno il nostro coraggio, la nostra resistenza e pazienza. La più grande fonte di aiuto è lo Spirito di Dio, perché è dall’alto che ci viene la nostra forza interiore.

     Possiamo dire no all’angoscia, non negando la realtà ma guardandola in faccia, nonostante sia dura. Possiamo superare il peso dell’avversità lasciando che il tempo la trasformi. Non siamo totalmente impotenti di fronte alla sofferenza.

     La nostra relazione con Dio nasconde delle enormi risorse contro la sofferenza, contro la confusione e la disperazione. Restiamo interiormente liberi, non assecondiamo le mosse dell’avversario, di colui che cerca da sempre e per sempre di dividerci da Dio, non permettiamo che la nostra mente sia ridotta di nuovo in schiavitù. Trasformiamo la nostra sofferenza in un risveglio. Dio non impedisce la sofferenza, ma impedisce che essa diventi per noi una forza negativa.

 

 

4. L’ATTITUDINE DI CRISTO DI FRONTE ALLA SOFFERENZA: Domande, domande e ancora domande sono quelle che noi poniamo a Dio, che spesso non fornisce un’evidente risposta, o almeno una risposta inseribile nei nostri schemi mentali. Dio però non considera mai le nostre domande come imprudenti, considera legittimo che ci interroghiamo sulla sofferenza. Ci offre esempi nella Scrittura del modo in cui si possono porre domande anche audaci, senza con ciò compromettere il rapporto con Lui. Dio non vuole sopprimere le nostre emozioni e i nostri sentimenti, vuole darci la capacità di convogliare queste energie in una nuova direzione, che non è silenziosa subordinazione, ma attiva cooperazione con Lui.

     Quella che gli Ebrei chiamano la šekinah («presenza» di Dio) è stata offuscata, quanto a splendore, dalla rottura fra creazione e Creatore, fra l’uomo e il suo simile, fra l’uomo e il suo linguaggio, fra le parole e il senso che esse nascondono.

     Gli esempi e l’approccio che troviamo nella Bibbia costituiscono un modo per vivere nella fede e al tempo stesso esercitare il candore del bambino. Col tempo emergerà il senso, si potrà vedere un disegno in quello che ci succede.

     Non ci sono mai parole adatte per parlare del dolore, quello degli altri e soprattutto del proprio. C’è un lungo cammino da fare per cercare di penetrare a fondo la complessità della condizione umana. Cristo stesso non ha dato una spiegazione completa della sofferenza e di quello che ci succede. Egli ci invita a esprimere il nostro dolore in tutta la sua brutalità, ci ascolta e sa che in quei momenti ci sentiamo abbandonati. Lui stesso, nelle circostanze della crocifissione, aveva detto: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46).  E ancor prima disse: «Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice! Ma pure, non come voglio io, ma come tu vuoi» (Mt 26,39). Aveva accettato questo percorso, ma Gesù vedeva oltre la propria sofferenza.

     La sofferenza e la morte sono uno scandalo, ma Gesù è venuto per vincerle. Non si è limitato a guardare, ma ha acceso una luce in mezzo a quelle tenebre. Ha operato, si è chinato con compassione, ha teso la sua mano per guarire e risuscitare. Ha riabilitato socialmente e nel corpo i miseri, i malati, gli handicappati. Ha decretato la vittoria dell’amore sul potere del male, mostrando segni concreti: «Ecco io sono con voi fino alla fine dell’età presente» (Mt 28,20).

     La croce, voluta dagli uomini, fu intessuta da Dio nell’arazzo della redenzione del mondo.

 

 

5. GUARDARE OLTRE: Quando ci sentiamo soli e abbandonati, sappiamo che Dio è là e ci dà la forza per affrontare la prova. Dio ci chiama a guardare oltre. La figura del Cristo appeso al palo faceva comprendere e vedere tutta la debolezza, il limite, la sofferenza del corpo. Insultato e preso in giro («Ha salvato altri e non può salvare se stesso», Mt 27,42), abbandonato dai suoi stessi amici attanagliati dalla paura. Ma in quel corpo martoriato c’era l’evidenza dell’estremo atto dell’amore di Dio: la morte finalmente vinta, nonostante l’apparenza contraria.

     Quando vediamo delle persone malate, trasfigurate, quasi irriconoscibili per le tante malattie, mutilate, in sedia a rotelle, persone con handicap vari che sono impotenti a difendersi, allora ricordiamoci che noi cristiani siamo invitati a guardare oltre, come il malfattore che appeso al palo non vide in Gesù solo un morente, ma intuì lo splendore della santità del Figlio di Dio. Non dobbiamo aver paura dell’altro, perché se anche il suo corpo e il suo spirito sono sofferenti, è uguale a noi di fronte a Dio, essendo anch’egli immagine di Dio. La mia esperienza è che anche se Dio non appare in modo evidente, anche se sembra muto e indifferente al nostro grido, lui resta là e non ci abbandona. Muove i suoi figli e anche quelli che crediamo non gli appartengano. Dio ci sostiene usando le braccia, le gambe e i cuori delle persone, perché il regno di Dio non è lontano: è dentro di noi e deve solo manifestarsi.

     La parabola degli uomini che sollevano il lettuccio dell’amico malato, per poi poterlo calare dal tetto e presentarlo a Gesù, è un bell’esempio di quello che si può fare per l’altro. Dio può fare cose meravigliose mediante persone che manifestano fede, amore e compassione. Io ho avuto di questi amici: mio marito, alcuni fratelli e sorelle in fede, una compagna di scuola, una ex alunna, alcuni amici e amiche che non mi hanno abbandonato, che non si vergognano di me. Vedo Dio in questi amici.

     La sofferenza non faceva parte dell’ordine creato da Dio: è un’intrusa. Dio avrebbe potuto certamente impedire il primo peccato e tutti gli altri successivi, ma proprio perché è un Dio d’amore deve lasciare agli uomini la libertà di decidere, di scegliere. Un mondo costantemente corretto dall’intervento divino, sarebbe diventato un mondo nel quale niente sarebbe dipeso dalla scelta umana e dalla sua responsabilità. Sarebbe stata una vita senza senso, senza importanza.

     Eppure anche questa spiegazione non basta e viene da chiedersi: perché Dio lascia morire in carcere Giovanni Battista? Perché viene ucciso Stefano, un giovane cristiano ripieno dello Spirito Santo che avrebbe potuto ben operare? (At 7). Perché la chiesa, riscattata dal sangue di Cristo, si comporta spesso in modo sconveniente? Perché il male si manifesta anche là dove dovrebbe esserci solo luce? Perché la zizzania deve sempre inquinare il grano? Sono domande alle quali è difficile dare una risposta pienamente soddisfacente.

 

 

6. L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA: Devo dire che spesso noi cristiani siamo impreparati: rimaniamo scossi, spiazzati di fronte alle persone con handicap o con altre difficoltà. È necessario però confrontarsi con il problema, non rinunciare a un cammino di solidarietà, di condivisione del dolore.

     Tutti noi facciamo parte di un’umanità handicappata, che ha bisogno di essere trasfigurata da Cristo. Ognuno ha qualche difficoltà, di fronte alla quale è tentato di tirarsi indietro; non affrontando l’ostacolo, si rinuncia a superarlo. Si tratta di una sfida, una chiamata alla quale siamo invitati a rispondere per radicare la nostra fede sull’esempio di Cristo: «In verità io vi dico che in quanto l’avete fatto a uno di questi minimi fratelli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

     Evitare il rifiuto e l’indifferenza come pure il pietismo, che è una forma di disprezzo più umiliante del rifiuto. Evitare l’emarginazione e promuovere un’integrazione partecipativa dei soggetti. Non avere stereotipi, ma lasciarsi sorprendere dai doni e dalle capacità che possono esprimere anche i più deboli. Il confronto con l’handicap aiuta ad abbandonare i sogni di onnipotenza e di controllo di tutte le situazioni. La presa di coscienza della fragilità corrisponde alla capacità di vedersi così come si è. Essa invita all’autenticità dei gesti e dei sentimenti: con chi ha un handicap è più difficile barare, perché più degli altri è sensibile al linguaggio del corpo, perciò i gesti devono essere in sintonia con le parole, altrimenti la relazione à compromessa.

     Colui che accetta la persona con handicap accetta di considerare la propria fragilità, che vede come in uno specchio. In questa relazione si ritrova senza il sostegno delle convenzioni abituali, appare allora nudo, vulnerabile.

     La paura della morte è inchiodata nel cuore dell’uomo. Più vicina e più banale è la paura di invecchiare, di dipendere dagli altri, di non sapersela più cavare da soli. Uno dei dati di fatto dell’uomo è il limite e la presenza di una persona con handicap lo ricorda continuamente. Bisogna andare oltre e non avere paura. C’è una frase scritta in un libro molto conosciuto, intitolato Il Piccolo Principe: «Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».

 

 

7. CONCLUSIONE: Il Signore ha messo tante risorse a nostra disposizione, ci ha dato dei talenti secondo le nostre capacità (Mt 25,14). Siamo chiamati ad agire oggi, non solo per fini egoistici, ma trovando un equilibrio fra l’amore per se stessi e l’amore per chi ci sta intorno. Anche la chiesa deve investire in risorse umane, fare tutto il possibile perché ognuno dia il meglio in tutto quello che fa. Mi piace ricordare le parole di Martin Luther King, pastore battista ucciso perché impegnato nella lotta antisegregazionista. Nel libro La forza di amare ribadisce che ogni persona possiede dei talenti, nessuno è inutile o di poca importanza. Riporta poi una frase significativa di Douglas Mallock, che credo si adatti bene sia alle persone con handicap sia alle persone «normali»: «Se non potete essere un pino sulla vetta del monte, siate un’erica nella valle, ma siate la migliore piccola erica sulla sponda del ruscello. Siate un cespuglio se non potete essere un albero. Se non potete essere una via maestra siate un sentiero, se non potete essere il sole siate una stella: non con la mole vincete o fallite, siate il meglio di qualunque cosa siate».

     È vero che un bel corpo pieno di energia, prestante e vigoroso è importante per il proprio benessere fisico e rappresenta un lasciapassare che facilita l’accettazione sociale. Avere un aspetto esteriore perfetto non credo, però, che sia la cosa più importante. Ci sono persone provate nel corpo che non lasciano avvizzire la speranza, ma combattono, hanno il coraggio di affrontare onestamente i propri sogni infranti, cercano con tutti i mezzi di trasformare la perdita in acquisto.

     Noi siamo più che solo i nostri corpi.

 

L’handicap alla luce della Bibbia {Franco Liotti}

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A2-Riflessioni_sofferenza_R56.htm

2007; Aggiornamento: 30-12-2008

 

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