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SENZA TRADUTTORE PARLI A SÉ E A DIO

 

 di Nicola Martella

 

Questo articolo è un ulteriore approfondimento di un articolo precedente, dal titolo: «Senza traduttore si tacciano nell’assemblea». Si legga prima quest’ultimo per capire meglio il seguente scritto.

 

 

1.  LA TRADUZIONE: In 1 Corinzi 12, Paolo aveva messo la proclamazione ispirata (profēteía) tra i doni maggiori, mentre il parlare in lingua (glōssa, glossolalia) faceva da fanalino di coda; al riguardo evidenziò pure che, come non tutti erano in grado di «profetare», non tutti erano altresì capaci di parlare in lingue (1 Cor 12,29-31; cfr. Ef 4,11ss dove la glossolalia non compare per nulla).

     In 1 Corinzi 14 Paolo mostrò lungamente la superiorità della proclamazione sul parlare in lingua, per il carattere edificatorio della prima rispetto alla seconda (v. 5). Poi, passò a regolamentare l’uso delle lingue nella pubblica assemblea, ingiungendo quanto segue: «Se c’è chi parla in lingua, [lo facciano] in due o al massimo in tre e uno dopo l’altro; e uno traduca [gr. diermēneuō]. E se non c’è il traduttore [diermēneutēs], si taccia nell’assemblea, a sé poi parli e a Dio» (1 Cor 14,27s).

     La parte, che qui ci interessa, è quella finale del verso 28, che in greco recita: «ἑαυτῷ δὲ λαλείτω καὶ τῷ θεῷ» (heautō dè laleítō kaì tō Theō), e che letteralmente recita: «a sé poi parli e a Dio». Le varie traduzioni recitano più o meno anche così.

     ■ Latino: «sibi autem loquatur et Deo» (Vulgata).

     Inglese: «and to himself let him speak, and to God» (Young; e a se stesso lascialo parlare, e a Dio); «and let him speak to himself and to God» (Darby; King James; Webster; Tyndale; e lascialo parlare a se stesso e a Dio).

     Tedesco: «rede aber sich selbst und Gott» (vecchia Elbelfelder; ma parli a se stesso e Dio); «rede aber für sich und für Gott» (nuova Elbelfelder; ma parli per sé e per Dio); «rede aber sich selber und Gott» (Lut.; ma parli a se stesso e Dio).

     ■ Italiano: «e parli solo a se stesso e a Dio» (CEI); «e parlino a se stessi e a Dio» (Riv, NR); «e parli a sé stesso, e a Dio» (D); «ma parli a se stesso e a Dio» (ND).

 

 

2.  L’INTERPRETAZIONE: Qui riportiamo solo le citazioni di commentari esegetici, tralasciando quelli popolari e quelli confessionali. Ho tradotto in italiano le citazioni, che in origine sono in lingua straniera; ho indicato in grassetto la parte, in cui gli autori interpretano tale verso in esame.

 

2.1.  ORDINAMENTO IN ASSENZA DI UNA TRADUTTORE: Gli esegeti si occupano dell’ordinamento apostolico relativo al numero dei glossolali e all’evenienza, in cui non ci fosse un traduttore.

 

     ■ «Se qualcuno parlava in lingue, doveva esserci uno, che spiegava o traduceva, affinché l’assemblea fosse edificata. Inoltre, non era bene che durante un’assemblea più di due o tre parlassero in lingue; ma se mancava il traduttore, allora nessuno doveva fare uso di questo dono nell’assemblea (vv. 27-28)». [Hermanus Cornelis Voorhoeve, Der 1. Brief an die Korinther (Verlag R. Müller-Kersting, Zürich-Höngg 1950; link)]

 

     ■ «Parlare in lingue non era proibito, ma secondo i versetti 27 e 28, era severamente regolamentato, e se non c’era un traduttore, non era permesso che accadesse». [Frank Binford Hole, Der 1. Brief an die Korinther (link)]

 

     ■ «Dapprima si occupa delle lingue. Se qualcuno parla in una lingua, questo deve accadere da parte di due o tre al massimo. Al riguardo bisogna anche osservare una procedura ordinata, e dev’esserci qualcuno per tradurre. Quando non era presente un traduttore, questo dono non doveva essere esercitato». [Hamilton Smith, Der erste Brief an die Korinther (link)]

 

     ■ «A coloro, che parlano in lingua, sono posti dei limiti (“due o al massimo tre”), e devono prendere la parola, solo se è anche possibile una traduzione». [Gottfried Voigt, Gemeinsam glauben, hoffen, lieben - Paulus an die Korinther I (Göttingen 1989), p. 130]

 

2.2.  SOLO NELLA DEVOZIONE PRIVATA: Gli esegeti interpretano la fine del verso e il significato del parlare a se stessi e a Dio. Essi concludono che in assenza di un traduttore la glossolalia non doveva esercitarla in alcun modo nell’assemblea, neppure sottovoce, ma Paolo comandava (λαλείτω [laleítō] è un imperativo!) a chi esercitava la glossolalia di praticarla assolutamente solo all’interno della sua devozione privata, a casa propria.

     ■ «14,28 Che parli - Quella lingua, se la trova vantaggiosa per se stesso nelle sue devozioni private». [Wesley’s Notes].

 

     ■ «28. Lascialo [parlare] - chi parla in lingue sconosciute.

parlare a se stesso e a Dio - (cfr. 1 Cor 14,2.4) - privatamente e non mentre altri possono ascoltare». [Jamieson-Fausset-Brown Bible Commentary]

 

     ■ «In caso si parli una lingua sconosciuta, ordina che non più di due o tre dovrebbero farlo in una riunione, e questo non insieme, ma in successione, uno dopo l'altro. E anche questo non doveva essere fatto se non c’era qualcuno per interpretare (vv. 27-28), qualche altro interprete oltre a lui, che ha parlato; dire in una lingua sconosciuta ciò, che lui stesso successivamente interpretava, non poteva che essere un atto di ostentazione. Ma, se era presente un altro, che poteva interpretare, due doni miracolosi potevano essere esercitati in una sola volta, e quindi la chiesa era edificata, e la fede degli ascoltatori era confermata allo stesso tempo. Ma, se non ci fosse stato qualcuno a interpretare, egli doveva rimanere in silenzio nella chiesa ed esercitare il suo dono solo tra Dio e se stesso (v. 28), la qual cosa è (come credo) in privato, a casa; tutti coloro, che sono presenti al pubblico culto, dovrebbe adeguarsi a esso, e non portare le loro devozioni private nelle pubbliche assemblee. Devozioni solitarie sono fuori tempo e luogo, quando la chiesa è riunita per il culto sociale». [Matthew Henry’s Whole Bible Commentary]

 

     ■ «La glossolalia dev’essere interpretata (cfr. v. 5); se non è possibile, deve avvenire allora nella preghiera domestica del singolo, ma non nella riunione di chiesa». [Heinz-Dietrich Wendland, Die Briefe an die Korinther (Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1948), p. 78].

 

     ■ «ἑαυτῷ cioè a casa, cfr. vv. 18.19; Lietzmann 75». [Fritz Rienecker, Sprachlicher Schlüssel zum griechischen Neuen Testament (Brunnen Verlag, Giessen-Basel 198016), p. 378] La fonte citata è: Hans Lietzmann, An die Korinther I, II (Tübingen 19232), p. 75.

 

     ■ «Se lo stesso glossolalo, o altri, non è in grado di interpretare in forma comprensibile l’intervento, allora chi ha questo carisma “faccia silenzio nell’assemblea”. Nulla impedisce, aggiunge Paolo, che egli se ne serva nel contesto della sua preghiera in privato». [Rinaldo Fabris, Prima lettera ai Corinzi (Paoline, Milano 1999, 2005 edizione riveduta e corretta), p. 185]

 

     ■ «Se non c’è traduttore o se chi parla in lingua non può tradurre da sé il suo discorso (cfr. vv. 5.13), allora deve tacere a priori nella comunità e pregare estaticamente Dio a casa propria (v. 2)». [Friedrich Lang, Die Briefe an die Korinther (Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1994), 198]

 

     ■ «V. 28: Certo, il rapporto tra chi parla in lingua e il traduttore non è chiaro: Chi traduce? Direttamente uno di coloro, che parlano in lingua (v. 13!)? Si può tradurre: “Ma se non è presente un traduttore” (Lietzmann) oppure: “Ma se egli non è un traduttore” (Weiss), cfr. da una parte il v. 5, dall’altra 12,10. L’ordinamento, secondo cui egli deve parlare in lingue “a casa” (αυτ), corrisponde al v. 2». [Hans Conzelmann, Der erste Brief an die Korinther (Göttingen 1981), p. 297]

 

 

3.  ASPETTI CONCLUSIVI: Abbiamo visto che gli autori di commentari esegetici si occupano dell’ordinamento apostolico, evidenziando dapprima il numero permesso dei glossolali (due, e al massimo tre) e che cosa bisognava fare nel caso, in cui non ci fosse stato un traduttore. Poi, gli esegeti passano a interpretare l’espressione «a sé poi parli e a Dio», evidenziando che si trattata di un atto di devozione privata, esercitata a casa propria, durante la preghiera solitaria. In mancanza di un traduttore il glossolalo doveva, quindi, tacersi nell’assemblea, non doveva parlare in lingue in alcun modo, neppure sottovoce. In tal caso, Paolo comandava (λαλείτω [laleítō] è un imperativo!) al glossolalo di esercitare le lingue solo all’interno della sua devozione privata, a casa propria.

     Con questo ordinamento Paolo intendeva mettere decoro e ordine (cfr. v. 40) a una prassi, tipica della chiesa di Corinto, che stava sfuggendo di mano e che assomigliava sempre più a quella dei numerosi riti ellenistici, in cui la glossolalia era frequente in vari culti estatici. Tale ordinamento, limitando a «due e al massimo tre» glossolali, solo in successione (v. 27) e soltanto nel caso che vi fosse traduzione, di fatto riduceva tale fenomeno estatico, rendeva la glossolalia autentica paragonabile alla proclamazione ispirata (profēteía) e come quest’ultima diventava uno strumento di edificazione (vv. 5.12s). Questo dato di fatto non è trascurabile. Ciò sottraeva tale fenomeno alle mani di coloro, che erano «fanciulli per senno» e lo limitava a coloro che, quanto a senno, erano «uomini maturi» (v. 20), i quali, come Paolo, nell’assemblea preferivano «dire cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua» (v. 19).

     In tal senso la glossolalia autentica era paragonabile al caso, in cui nell’assemblea veniva in visita uno straniero: egli parlava nella sua lingua d’origine e un altro lo traduceva. La differenza stava nel fatto che chi parlava in altra lingua nella chiesa di Corinto, non era sempre uno straniero, ma un credente locale, e, perciò, questi non parlava una lingua a lui stesso comprensibile; in tal caso, poteva parlare in assemblea in quell’altra lingua, soltanto quando c’era un traduttore di tale specifico linguaggio. Se così non fosse, l’apostolo comandò che tacesse in assemblea e usasse tale lingua soltanto nella sua devozione privata, a casa sua.

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A1-No-tradutt_parli-a-se_Car.htm

08-10-2011; Aggiornamento:

 

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