1 Corinzi 14,28
è un verso che suscita spesso
falsi alibi ideologici ai fautori della glossolalia, specialmente a coloro
che fanno parlare in lingue tutti insieme o permettono che lo si faccia
senza tradurre. Si afferma che, se non c’è chi traduce, chi parla in
altra lingua rispetto alla propria, può continuare a farlo in assemblea,
parlando a bassa voce. Era questo che intendeva Paolo? Facciamo quindi
bene a considerare tutto ciò più da vicino nel suo contesto.
«…e se non c’è il traduttore, si taccia nell’assemblea, a sé poi parli e a
Dio». Più o meno, così traducono varie traduzioni italiane. Ad esempio,
la traduzioni tedesca Elberferder traduce, invece: «parli per sé e per Dio»,
ossia riservatamente; ma la sostanza non cambia, vista la proibizione assoluta
di parlare in lingue nell’assemblea, quando manca un traduttore.
Si noti che diermēneutēs è il «traduttore, l'interprete (di lingue)»; si
trattava quindi di lingue vere. Le lingue servono per comunicare con i
propri simili e con Dio. Quando una lingua viene tradotta, può essere compresa,
comunica un messaggio e, quindi, può edificare.
La locuzione «si taccia nell’assemblea» proibisce un loro
intervento pubblico in altra lingua. Lo stesso verbo nella forma dell’imperativo
compare nel v. 30 e intendeva che il proclamatore (gr.
profētēs), che parlava senza ispirazione, doveva tacersi e far posto a chi
possedeva una rivelazione sulla base della Scrittura. Nel v. 34 questo verbo è
usato a proposito del lalein (parlare) delle donne in pubblico, e si
riferiva con molta probabilità al giudicare il proclamare
(gr.
profētein) altrui in assemblea (vv. 29-33), essendo un’attività, che
implicava insegnamento.
Al glossolalo non rimaneva che quest’alternativa: «a sé poi parli e a Dio»
(heautō dè laleítō
kaì tō Theō), che si può anche tradurre a senso «parlino fra sé e
Dio», ossia a tu per tu, in privato. La forma verbale laleítō
«parli!» è imperativo, quindi un comando, come nel v. 29. Ora, secondo gli
studiosi la particella heautō «per [o a]
se stesso» intende «a casa propria» (così Fritz Rienecker; Hans
Lietzmann) e forma il contrasto con «nell’assemblea». Al riguardo è visto un
parallelo con i vv. 18s, dove «nell’assemblea» Paolo preferiva proferire «cinque
parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra
lingua». Un uso differente è considerato da lui come infantile e non da
«uomini maturi» (v. 20).
La sequenza di tacersi in assemblea e parlare a casa propria ricorre anche nei
versi 34s; Paolo non prevedeva qui che si potesse parlare sottovoce,
bisbigliando al marito o all’amica. L’espressione «a sé poi parli e a Dio»,
è da vedere in contrasto con il «si taccia nell’assemblea»; non
intendeva, quindi, il farfugliare sottovoce in assemblea, ma il pregare
nell’intimità personale con Dio a casa propria, a tu per tu. Ciò ricorda
le parole di Gesù: «Tu, quando preghi, entra nella tua cameretta, e serratone
l’uscio fa’ orazione al Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede
nel segreto, te ne darà la ricompensa» (Mt 6,6).
Il principio «senza traduttore si taccia nell’assemblea» bisognerebbe applicarlo
anche per gli stranieri, che ci visitano e che vogliono pregare nella
loro propria lingua. È difficile dire «amen» a ciò, che non si comprende. Nella
nostra comunità ci sforziamo di far pregare solo quegli stranieri, che possiamo
tradurre.
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Senza traduttore parli a sé e a Dio {Nicola Martella} (A)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A1-Senza_traduttore_taci_Mt.htm
23-09-2011; Aggiornamento: 08-10-2011 |