Ho letto in rete lo
scritto di un giovane cristiano, che probabilmente sta attraversando una fase
particolare della sua vita. Essendo le sue argomentazioni singolari e
interessanti, gli ho scritto e chiesto se voleva un mio commento, e così è
stato. Da quanto ho capito dallo scritto e da altre cose lette sulla sua
bacheca, deve aver avuto un diverbio con qualcuno, presumibilmente con un
altro giovane della sua comunità; qui cerca di elaborare l’intera
vicenda, ma a modo suo, quasi per chiarirsi con se stesso e per mandare un
messaggio cifrato al suo contraente e alle altre persone coinvolte. Tale
«mistero» e il modo singolare di argomentare, elaborando i fatti accaduti,
provocano a seguire le varie tracce lasciate, ad analizzare gli
indizi dal punto di vista biblico e a svelare l’arcano. Preferisco lasciare
anonimo tale giovane, dandogli uno pseudonimo. |
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1. LE
ASSERZIONI (Remo Istrio, ps.): «Dove non c’è legge, non c’è
peccato». Di conseguenza, dove non c’è rimprovero, non c’è errore né
sbaglio alcuno. Quindi, se io sono consapevole e convinto di non aver
commesso errore, non si può pretendere da me una confessione, ossia senza
che io lo riconosca, o che io trovi in me un errore, che non vedo.
La relatività delle cose impone questo. A questo punto, se ci si è sentiti
offesi da una verità, è la verità stessa che giudica, non colui che l’ha
pronunciata, essendo la verità unica e immutabile; essa era prima dell’uomo. Non
essendo stata recata offesa, ma è stata pronunciata una verità che, seppur non
compresa, è tale; e uno si sente offeso o «toccato», allora è egli stesso che
si colpevolizza.
Uno non si
sente scemo, se non reputa se stesso tale; e la pronuncia di questo dato di
fatto o meno si concretizza, solo quando il ricevente decide d’interpretarla a
suo modo, in ambi i casi. Quindi, colui che invia, non è altro che un
ammonitore, non un giudice; il ricevente è libero d’interpretare il
messaggio come un giudizio oppure come un ammonimento. Per tanto chi si offende
in seguito a una dichiarazione più o meno veritiera, non è vittima del mittente,
ma di se stesso. O nel caso della Parola di Dio, essa stessa lo giudica.
Per cui io ho il dovere di denunciare la menzogna, ma essendo la Verità
proclamatrice di verità ed essa stessa afferma: non mentire. Tu se menti, sei
colpevole! Non perché lo dico io, ma perché riconosci di averlo fatto, riconosci
che Dio è verità e non c’è menzogna in Lui.
Un errata interpretazione non diventa offesa, resta ammonimento; ora un
semplice
ammonimento male inteso diventa un’offesa per il ricevente, sebbene non sia
inviata dal mittente; in pratica essa è inviata da se stessi a se stessi, perché
ci si reputa tali. {26-09-2015; formattazione redazionale}
2.
OSSERVAZIONI E OBIEZIONI (Nicola Martella)
■ Legge e peccato: La frase iniziale proviene da Paolo, che letteralmente
scrisse: «Dove non c’è legge, non c’è
neppure trasgressione» (Rm 4,15). Egli
parlava della legge mosaica e del fatto che essa nel nuovo patto è stata
abolita. Alla legge mosaica viene contrapposta la «giustizia, che viene dalla
fede» (v. 13). Perciò, «l’eredità procede dalla fede, affinché sia
secondo la grazia», ed è questo solo che rende sicura la promessa (v. 16).
Perciò, è sbagliato trarre
da ciò un alibi
per le proprie azioni. E questo perché è il frutto che mostra l’albero (Mt
7,16-20; 12,33), con tutte le conseguenze dell’albero infruttuoso (Mt 3,10;
7,19). È vero che nel nuovo patto si è senza legge mosaica, ma si è sotto la «legge
di Cristo» (1 Cor 9,21; Gal 6,2), detta anche la «legge dello
Spirito della vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2). Se
così non fosse, come giudicherebbe il Signore gli uomini? (At 10,42; Rm 2,16; 2
Tm 4,1; 1 Pt 4,5). E perché ci sarebbe un «tribunale di Cristo» per i
credenti, per stabilire i loro premi di fedeltà? (2 Cor 5,10; 2 Tm 4,8; Gcm
1,12; 1 Pt 5,4).
■
Rimprovero ed errore: Le conseguenze tratte dalle parole di Paolo
rappresentano un falso sillogismo. Si può peccare sia con la legge
mosaica, sia senza di essa (Rm 2,12); un certo senso morale è scritto nella
coscienza (v. 15). Dove i genitori non rimproverano i loro figli per le
cose sbagliate, c’è confusione morale prima dei genitori e poi dei figli.
Similmente dove in una comunità non c’è ammonizione, domina la falsa
tolleranza e la connivenza; col tempo si perde la sensibilità della
giustizia, del bene e del male e si crea un consenso colpevole, che porta al
giudizio. Perciò è scritto: «Guai a quelli che
chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la
luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!»
(Is 5,20). A Corinto sopportavano nell’assemblea una forma particolare di
fornicazione (1 Cor 51ss); tutti tolleravano per quiete vivere e perché
anch’essi erano in difetto di qualcosa, anzi, così facendo, si sentivano
moderni. Ecco la diagnosi dell’apostolo: «E siete gonfi e non avete
invece fatto cordoglio, perché colui che ha commesso quell’azione, fosse
tolto di mezzo a voi!... Il vostro vantarvi non è buono» (vv.
2.6).
■
Convinzione e realtà: Certo, sarebbe bene che questi due concetti
coincidessero in me e nei miei detrattori, ma non sempre è così. Perciò, a
volte si condannano persone innocenti; altre volte, però, il colpevole è
così indurito di cuore, che non ammette la sua colpa, anzi la rimuove del
tutto. Ci sono vie, che a un uomo paiono dritte, ma portano alla catastrofe
totale (Pr 14,12). L’uomo si indurisce al punto da perdere ogni sentimento
morale (Ef 4,19; cfr. Rm 1,28-32) e da ritenersi innocente anche dinanzi
alle evidenze oggettive (1 Gv 1,8.10; cfr. Gv 8,7).
Quindi, la livella è la verità, non la propria coscienza. Ben lo sapeva
Paolo, che per onestà scrisse: «Non ho coscienza
di alcuna colpa; non per questo però sono giustificato; colui che mi giudica è
il Signore» (1 Cor 4,4). Come mostra
Giovanni, ciò vale anche al contrario; parlando del fatto che è la verità a
rendere sicuri i cuori dinanzi a Dio, concluse: «Infatti, se il nostro
cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore, e conosce ogni cosa»
(1 Gv 3,20); ossia non possiamo basarci sui nostri sentimenti, ma su ciò, che sa
Dio, sulla verità da Lui affermata in modo esplicito.
■ Verità oggettiva e soggettiva: Non si comprende bene di quale «verità»
si tratta e di come essa sia stata detta, per aver creato nell’altro un
sentimento di offesa o di colpevolezza. Perciò, sarebbe importante sapere di che
cosa si tratta veramente. Certo, quando un chirurgo incide un bubbone,
per fare uscire il pus, non si può accusarlo di essere sadico e spietato;
tuttavia, lo può diventare quando, pur potendo lenire il dolore del paziente,
non gli fa l’anestesia.
Così è per la
verità: può essere un balsamo curativo (Pr 16,24; cfr. Sal 45,1), oppure
un coltello con cui ferire. Perciò, non dipende solo dalla reazione di
chi la riceve, ma anche dall’intento e dal modo di chi la pronuncia. La verità
in mano a uno stolto è come un arco, che ferisce tutti (Pr 26,10). Anche
la lingua bugiarda può servirsi della verità
per ferire (Pr 26,28). Quindi, è meglio fare attenzione alla gestione della
verità. Il NT ci comanda la verità nell’amore, e viceversa (1 Pt 1,22; 2
G 1,1; 3 G 1,1; cfr. 2 Ts 2,10; 1 Gv 3,18).
■
Apprezzamenti negativi: Non sarei tanto
sicuro che, se si dà dello scemo a qualcuno, ciò resti senza conseguenze.
Se i genitori danno continuamente dell’imbecille, del buono a nulla e
apprezzamenti simili a un figlio, questo ha molte conseguenze sulla psiche,
sulla condotta e sullo sviluppo del ragazzo. Lo stesso vale l’offesa diretta a
un’altra persona. Addirittura leggiamo questo riguardo ai rapporti fra fratelli:
«Un fratello offeso
è più inespugnabile di una fortezza; e le liti tra fratelli sono come le
sbarre di un castello» (Pr 18,19). Quindi
non bisogna minimizzare le conseguenze deleterie degli apprezzamenti negativi.
Gesù diede questa direttiva del regno: «Chiunque si adira contro suo fratello
[senza motivo], sarà sottoposto al giudizio; e chi avrà detto al proprio
fratello: “Rhaká!” [= stupido], sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà
detto: “Stolto!”, sarà sottoposto al Geenna del fuoco» (Mt 5,22).
Chi usa la
Parola di Dio a sproposito e per offendere, si rende comunque colpevole.
■ Spaccare il capello: Mi sembra di capire che l’autore di tale scritto
abbia detto qualcosa a qualcuno. Secondo l’autore, il suo interlocutore deve
aver mal interpretato le sue parole e si è sentito offeso. Sembra
che un chiarimento abbia aggravato ancor più le cose, poiché ognuno si è
mostrato
irremovibile sulle sue posizioni. Mi pare tutto come lana caprina. È
scritto: «Nessuna parola corrotta esca
dalla vostra bocca, ma una buona per la necessaria edificazione, affinché
conferisca grazia a quelli, che ascoltano. E non contristate lo
Spirito Santo di Dio, mediante il quale siete stati suggellati per il giorno
del riscatto. Sia rimossa da voi ogni amarezza e ira e collera e grido e
imprecazione, unitamente a ogni malizia. Siate invece benigni,
misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio
vi ha perdonato in Cristo» (Ef 4,29-32).
Al contrario, in questioni del genere si cola il
moscerino e si inghiotte il cammello. È così difficile scusarsi, non
per aver voluto offendere (Dio sa la verità!) ma, in ogni caso, almeno per aver
arrecato del dolore a un fratello? Invece di fare tale triplice salto mortale
con doppio avvitamento, con cui si cerca di tagliare il capello in
quattro e, come accade in questi casi, ognuno vuole la resa incondizionata
dell’altro, non è più semplice riconciliarsi, perdonandosi a vicenda per
aver contribuito a un malessere comune e forse collettivo e ricominciando un
cammino di luce, in verità e amore?
■ Piazza pubblica: Trovo altresì strano che i social network siano
diventati i moderni «sfogatoi» dei fraintendimenti. Gesù ci insegnò: «Se
poi il tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e riprendilo fra te e lui
solo» (Mt 18,15). E ancora: «Se
tu dunque presenti la tua offerta all’altare, e lì ti ricordi che tuo
fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti
all’altare e va’ via, prima riconciliati con tuo fratello; e poi torna
e presenta la tua offerta» (Mt 5,23s).
Oggigiorno, invece di
minimizzare le cose, tenendole segrete e lavando i panni sporchi in casa, si
mette tutto a piazza pubblica. Invece di risolvere le cose a tu per tu o con un
piccolo gruppo, si spettacolarizza ogni cosa, creando fazioni pro e contro. In
tal modo, anche coloro che hanno ragione, si rendono colpevoli dinanzi a Dio.
La Scrittura ci insegna in merito quanto segue: «Non odierai il tuo
fratello nel tuo cuore; riprendi pure il tuo prossimo, ma non tirarti
addosso una colpa per causa sua» (Lv 17,17).
Inoltre, oggigiorno non c’è
bisogno di andare «qua e là facendo il diffamatore fra il tuo popolo»
(Lv 17,16), basta mettere tutto in vista sui social network!
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Chi è a posto con la sua coscienza, non pecca? {Nicola Martella} (D)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Cosci_colp_UnV.htm
05-10-2015; Aggiornamento: |