La questione è
la seguente: A chi pecca per ignoranza o per errore, non si può imputare una
colpa? Chi si sente a posto con la propria coscienza, significa che non ha
peccato? Partiamo da ciò, che mi ha scritto un lettore. Poi, faremo seguire le
nostre analisi.
1. LE QUESTIONI: Ciao Nicola, di recente è venuto fuori questo
argomento, parlando con un fratello, che ha sicuramente una preparazione biblica
migliore della mia. È una persona stimata da molti, fuori e dentro l’assemblea,
spesso attiva nella predicazione o nella guida di studi. Stavo quindi cercando
di ritrovare sulla Parola quali fossero i versi, che parlano del peccato per
ignoranza, e stavo riflettendo sulla cosa e sulle conseguenze, a cui può
portare questo pensiero. Proprio valutando le conseguenze, mi è venuta in mente
«Fede controcorrente» e ho pensato sarebbe buono sviscerare pubblicamente il
problema, perché anche altri si potranno trovare davanti a questo pensiero.
Venendo all’argomento, faccio una breve premessa: stavo parlando con questo
fratello e cercavo di fargli notare un suo comportamento di maldicenza, a
mio avviso molto grave, che ha avuto nei confronti di un altro fratello. Non
entro oltre nel merito del nostro discorso, né m’interessa ora valutare, se io
avessi ragione o torto sul suo comportamento, basta sapere questo. La sua
risposta è stata la seguente: «Io sono a posto in coscienza mia. Se io ho
agito, rimanendo a posto con la mia coscienza,
allora non ho peccato». Ha poi spiegato la sua posizione dicendo che: «Ad
esempio, chi è nel cattolicesimo e venera Maria, non sta peccando, perché
lo fa per ignoranza, ma fa la cosa giusta in coscienza sua».
Le affermazioni mi hanno lasciato, sul momento, veramente allibito. E ho
risposto alla prima affermazione, dicendogli che il peccato lo commettiamo
contro Dio, non contro la nostra coscienza. È una mancanza che abbiamo
nei confronti di Dio, non possiamo basarci sulla nostra coscienza, che è
corruttibile e ignorabile. Poi, al suo esempio ho risposto che si tratta di «idolatria»,
che è chiaramente peccato. Purtroppo l’argomento si è chiuso velocemente e non
abbiamo potuto proseguire.
Riflettendo sul discorso, ho poi capito che, se uno giudica il peccato in questo
modo, rischia di crearsi una sua propria legge, una sua realtà; e gli verrà
quasi impossibile ammettere errori, se questi coincidono con le leggi
della sua coscienza. Tanto più mi chiedo come questo si possa conciliare con il
piegare le proprie ginocchia davanti a Dio, riconoscendosi mancanti nei
suoi confronti, non nei nostri. Mi sembra una
relativizzazione del concetto di peccato, e quindi di errore, che non è
più assoluto, perché commesso nei confronti di Dio (o di una legge
esterna), ma relativo, perché deve rispondere soltanto alla propria
coscienza. Io credo che tutto questo possa portare realmente a conseguenze
pericolose.
Per sdrammatizzare e semplificare un po’, mi chiedo cosa succederebbe, se una
persona facesse questo ragionamento a un
vigile: «Lei ha tenuto una velocità di 90km/h in questo centro abitato, le
devo ritirare la patente». «Ma, davvero, io non lo sapevo che fosse un centro
abitato; ero tranquillo in coscienza mia, quindi la patente me la tengo».
Nicola, cosa ne pensi, sto per caso
sbagliando qualcosa io nel mio giudizio? Come potrei rispondere con
efficacia? E quali conseguenze pensi potrebbero risultare da questo
pensiero?
Ho pensato che questo argomento potesse essere utile alla discussione
collettiva. Spero che possa essere di tuo interesse e possa portare beneficio
anche ad altri eventuali lettori. {Davide Neri; 26-01-2011}
2. OSSERVAZIONI E OBIEZIONI
2.1.
ALCUNE LINEE GENERALI: Un proverbio
recita: «La legge non ammette ignoranza»; questo vale per ogni legislazione
umana e altresì, biblicamente parlando, anche per quella divina. Questa potrebbe
già essere la risposta. Già vedo dinanzi a me alcuni casi biblici, sia per il
peccato, sia per l’impurità, che smentiscono le tesi di tale credente. La legge
mosaica trattava esplicitamente ogni «peccato per errore», sia del
singolo, sia della collettività (Lv 4); dove ciò accadeva, si necessitava di
espiazione, oltre a dover rifondere il danno (maggiorato del 20%) e a
ottenere il perdono divino. Bisogna, inoltre, distinguere fra la trasgressione,
che può essere inconsapevole, e la colpa, che comunque viene addebitata.
Dio può essere longanime, ma non ritiene l’empio per innocente. Quando uno
diventa (o viene reso) consapevole di una colpa, egli è comunque
responsabile e, quindi, colpevole. La gravita del peccato e dei suoi frutti
era così drammatico agli occhi di Mosè, che pregò: «Tu metti le nostre
iniquità davanti a te, e i nostri peccati nascosti, alla luce della tua
faccia» (Sal 90,8). Similmente fece Davide: «Chi conosce i suoi errori?
Purificami da quelli che mi sono nascosti. Trattieni pure il tuo
servitore dai peccati volontari, e fa’ che non signoreggino su me; allora
sarò integro, e puro di grandi trasgressioni» (Sal 19,12s; cfr. 69,5, Ger
16,17).
2.2.
L’INSICURA COSCIENZA: La coscienza non è un «organo» dell’animo
umano, che abbia come base una specie di DNA
spirituale o morale inerente all’uomo e comune a tutti, come le membra del
corpo. Non è neppure precisamente definibile. Il termine «coscienza» è
strettamente connesso a «conoscenza» («scienza» per gli antichi). Essa si
basa su vari elementi: educazione familiare, convenzioni morali,
religiose e culturali, tradizioni, scelte morali personali, carattere, indole e
altri elementi. La coscienza si sviluppa all’interno del contesto, in cui
si vive, sia esso contadino o cittadino, di bassa o alta acculturazione, di
onestà morale o di depravazione, fra i vegetariani e fra i cannibali, fra i
pacifisti e fra i guerrafondai, fra i cosiddetti «onesti cittadini» e fra i
mafiosi, fra gli onesti imprenditori e fra concussi e corruttori, e così via.
Ecco un paradosso: un vegetariano sessualmente promiscuo e un cannibale
monogamo e fedele, ambedue si possono appellare alla propria coscienza. Anche i
mafiosi reclamano una coscienza, in quanto «uomini d’onore»; sebbene
abbiano ucciso, senza pietà, coloro che hanno «sgarrato» o gli avversari,
mostrano a parer loro un senso morale nel condannare chi ha toccato la moglie di
qualcuno o un pedofilo, che ha abusato di bambini. Se si chiede ragione a
persone appartenenti a tali categorie, tutti avranno una ragione o almeno
una scusante per i loro atti. Non pochi di loro diranno che sono a posto
(in pace, ecc.) con la loro coscienza. Altri faranno scaricabarile,
daranno la colpa alla società, parleranno della loro triste infanzia o
addurranno altre plausibili spiegazioni, relativizzando le loro responsabilità.
Paolo scrisse, per concessione, riguardo ai «senza legge»:
«Ciò, che la legge comanda, è scritto nei loro cuori per la
testimonianza, che rende loro la coscienza, e perché i loro pensieri si
accusano o anche si scusano a vicenda»
(Rm 2,15). Da una parte, ciò mostra soltanto che tutti gli uomini sono esseri
morali; dall’altra, risulta che nella coscienza non c’è nulla di oggettivo,
di solido, di duraturo, eccetera, poiché tutto è in movimento, ora accusandosi,
ora scusandosi.
La coscienza viene rafforzata dalla verità biblica, e sulle cose rivelate non
mente, laddove viene ispirata dallo Spirito Santo, che conduce alla chiara
verità scritturale (cfr. Rm 9,1). Sul piano personale, se si vuole rimanere
realisti e veraci, si può dire con Paolo: «Non ho coscienza di
colpa alcuna», ma bisogna aggiungere: «Non
per questo però sono giustificato»,
indicando Dio come ultima istanza, che dovrà giudicare ognuno (1 Cor 4,4).
Stando così le cose, avere e curare una buona coscienza (1 Tm 1,5), è una cosa
salutare, e la sua testimonianza è importante (2 Cor 1,12). Tuttavia, essa non è
un’istanza sicura per il credente. Infatti, altrimenti perché, quando si è
accusati o trattati ingiustamente, si cercherebbero conferme, raccomandandosi
alla coscienza altrui nel cospetto di Dio? (cfr. 2 Cor 4,2). A ciò si
deve pure «la richiesta di una buona coscienza fatta a Dio»
(1 Pt 3,21), nel momento della conversione e del battesimo; ciò mostra che essa
non è innata, né è un’istanza oggettivamente stabile e sicura. Stare a posto con
la propria coscienza, non significa essere senza peccato in una data
cosa, né che questo sollevi dalle responsabilità oggettive, da una colpa e,
quindi, dalle conseguenze.
La coscienza può essere debole o contaminata (1 Cor 8,7.10). Oppure,
può avere dubbi su ciò, che si fa o si osserva (cfr. Eb 9,9). Nell’AT la
coscienza è chiamata con i termini «cuore» e «reni». Sul fatto che
il cuore sia ingannevole e seducibile, oltre che ingannatore, fraudolento,
inclinato al male, corrotto e traviato, la Scrittura non lascia dubbi (Dt 11,16;
Is 44,20; 47,10; 49,16; Gr 17,9; Ez 28,17; Os 10,2; Ab 1,3). Addirittura il
cuore si può ottenebrare (Rm 1,21; Ef 4,18 intelletto), e la coscienza si può
cauterizzare con la menzogna, rendendola così insensibile (1 Tm 4,2).
Anche la donna adultera può affermare, di avere la
coscienza apposto, intendendo di non aver ancora ucciso nessuno. «Tale
è la condotta della donna adultera: essa mangia, si pulisce la bocca, e dice:
“Non ho fatto nulla di male!”» (Pr 30,20).
Chi si confronta solo con se stessi, cade sempre in piedi! (cfr. 2Cor 10,12).
La coscienza si basa spesso sulla consuetudine
(usanza, tradizione, conformità) delle cose all’interno di una certa sfera
socioculturale, sul consenso da parte degli altri e sulla
consapevolezza soggettiva di se stesso. Essendo la coscienza un’istanza poco
definibile con criteri oggettivi e troppo debole e precaria, si fa bene a non
renderla arbitro della legittimità e della giustizia, né soggettivamente né
oggettivamente.
2.3.
PECCARE PER ERRORE O IGNORANZA: In tutti i casi, in cui una persona
pecca per errore, senza esserne consapevole, per ignoranza, senz’accorgersene e
quant’altro, egli era comunque colpevole, avendo infranto un preciso
precetto divino. Perciò, l’enfasi non era posta sulla
percezione personale delle cose, né sulle intenzioni o sui
sentimenti del trasgressore, ma sul fatto oggettivo: l’infrazione di una
precisa norma divina.
■ Errori morali del singolo: Nella legge mosaica furono trattati i casi,
in cui un singolo «avrà peccato per errore
e avrà fatto alcuna delle cose, che l’Eterno ha vietato di fare» (Lv 4,2),
ossia un sacerdote (v. 3), uno dei capi (v. 22) o un Israelita qualsiasi (v.
24). Comunque sia stata commessa la trasgressione, in modo consapevole o no,
quindi anche «per errore, senz’accorgersene» (v. 12) verso «tutte
le cose che l’Eterno, Dio suo, ha vietato di fare, e si è così reso colpevole»
(vv. 2.22.27). In tali casi era previsto un sacrificio corrispondente allo
status della persona in questione (vv. 4-12.23-26.29-35).
Ciò riguardava anche i giuramenti fatti sbadatamente, alla leggera, di
cui poi ci si pentiva. «Quando uno giura con le
labbra, parlando senza riflettere, di fare qualcosa di male o di bene,
proferendo con leggerezza uno di quei giuramenti, che gli uomini sono
soliti pronunciare, quando viene a saperlo, è colpevole delle sue azioni»
(Lv 5,4). Ciò rendeva colpevoli e si necessitava di confessione e di un
sacrificio adatto al caso (vv. 6s).
■ Errori morali della massa: Ciò valeva anche nel caso, in cui «tutta
l’assemblea d’Israele ha peccato per errore, senz’accorgersene,
e ha fatto alcuna delle cose che l’Eterno ha vietato di fare, e si è così resa
colpevole» (Lv 4,13). Sebbene la trasgressione fosse stata commessa per
errore e si fosse ignari al riguardo, ecco il meccanismo che bisognava adottare:
«Quando il peccato, che ha commesso, venga a essere conosciuto, l’assemblea
offrirà, come sacrificio per il peccato, un giovenco…» (v. 14). Qui erano i
capi, che nell’azione rituale si esponevano a rappresentanza dell’intero
popolo (vv. 15-21).
Si noti che solo dopo la presa d’atto della trasgressione commessa
inconsapevolmente o per errore (vv. 14.23.28), dopo la confessione (venivano
imposte le mani alla vittima; vv. 24.29.33) e dopo il relativo sacrificio, il
peccato veniva perdonato (vv. 20.26.31.35).
■ Infrazione di norme cerimoniali: Quando uno,
senza saperlo, toccava una qualsiasi fonte di contaminazione (animale
impuro, impurità umana, ecc.), non solo diventava egli
stesso impuro, ma era altresì colpevole (Lv 5,2s). Quindi, quando
veniva a saperlo, per non incorrere nell’ira divina, era in obbligo di ricorrere
ai sacrifici prescritti. L’ignoranza o l’inconsapevolezza non era
un’attenuante, avendo commesso un’infrazione, che rende colpevole e necessita di
espiazione (Lv 5,17ss).
■ Trasgressioni cultuali: Tali norme non valevano solo per errori morali,
ma anche per errori cultuali, ossia per chi «commetterà una infedeltà
e peccherà per errore relativamente a ciò, che dev’esser consacrato
all’Eterno» (Lv 5,15ss). In questo caso non era previsto solo un sacrificio
di riparazione (v. 15), ma anche un risarcimento al santuario (v. 16). Solo
allora «gli sarà perdonato» (v. 16).
■ Norma generale: Il principio fu esplicitato con molta chiarezza e a
scanso di equivoci per tutti i casi: «E quando uno peccherà facendo, senza
saperlo, qualcuna delle cose, che l’Eterno ha vietato di fare, sarà
colpevole e porterà la pena della sua iniquità» (Lv 5,17). Anche
qui solo dopo il cerimoniale relativo al sacrificio per «l’errore commesso
per ignoranza», esso «gli sarà perdonato»; ma non era una
trasgressione di «serie B», visto che «quel tale si è realmente reso
colpevole verso l’Eterno» (vv. 18s).
Una forma sintetica delle norme relative ai peccati commessi per errore si
trovano in Numeri 15,22-29. La stessa norma era prevista per il tempio
futuro (Ez 45,20).
2.4.
ASPETTI CONCLUSIVI: Sebbene la legge mosaica non sia più in vigore,
essendo stato inaugurato il nuovo patto, si possono trarre da essa i principi
della legittimità e l’ammaestramento
spirituale e morale (Rm 15,4; 1 Cor 10,6.11; cfr. 2 Pt 2,6).
Anche al tempo del NT, l’ignoranza non rendeva meno colpevoli, era solo
una clemente concessione in vista della conversione (At 3,14-19; 17,30s). La
vita passata dei credenti nel paganesimo era vista come un tempo passato
nell’ignoranza (1 Pt 1,14; cfr. Ef 4,18; 1 Pt 2,15).
Quindi, affermare: «Io sono a posto in coscienza mia. Se io ho agito,
rimanendo a posto con la mia coscienza, allora non ho peccato», significa
imbrogliare se stesso e gli altri. La Bibbia non conosce l’espressione «essere a
posto con la propria coscienza», ma tutt’al più «avere una coscienza pura». Il
peccato è definito una illegalità
(gr. anomía), ossia una
violazione della specifica legge (1 Gv 4,3),
non della propria coscienza. Quindi, la trasgressione non si misura con la
propria consapevolezza, altrimenti la coscienza dell’individuo sarebbe
l’ultima istanza nel giudizio finale, e tutti troverebbero una propria
giustificazione; ma l’uomo verrà giudicato dal Signore (1 Cor 4,4s; 2 Tm 4,8; Eb
10,30; Gd 1,14; Ap 6,10; 18,8), dinanzi al suo tribunale (Rm 14,10; 2 Cor 5,10),
e cioè da ciò che c’è scritto oggettivamente nei libri (Ap 20,12).
Tale soggettivismo è certo grave verso se stessi, rendendo moralmente ciechi
verso le proprie azioni (p.es. di maldicenza). È altresì grave, perché porta a
deviazioni dottrinali, basando la trasgressione spirituale (p.es. nel caso di
idolatria e polisantismo) non sul chiaro comandamento divino (1 Cor 6,9ss; Ef
5,5; Ap 21,8; 22,15), ma sulla percezione soggettiva delle cose, basata sul
«fare la cosa giusta nella propria coscienza». Con tale principio
arbitrario e anti-scritturale ognuno potrebbe
salvarsi a modo suo, secondo il proprio gusto religioso e morale; e
potremmo giustificare così il più grande stragista, ogni stupratore seriale, e
così via. In effetti, in tale tesi c’è il tarlo dell’apostasia religiosa,
spirituale e morale.
Giustamente Paolo metteva in guardia Timoteo che «verrà il tempo che non
sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito di udire
si accumuleranno insegnanti secondo le loro proprie voglie e
distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno ai miti»
(2 Tm 4,3s). Una di tali «favole» dottrinali è appunto quella di non aver
commesso il peccato, non percependo alcun rimorso o sentendosi a posto con la
propria coscienza. Una tale scusa ideologica Dio non la farà valere, né per
sé, né per altri!
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24-07-2014; Aggiornamento: |