Nell’articolo «Il
ricco, Lazzaro e i generi letterari», che qui discutiamo, siamo
partiti dalle tesi di Paolo
Palmieri, che ha convinzioni distruzioniste, tipiche dell’avventismo (e
del da esso derivante geovismo) e di tutti i movimenti dei «neo-sadducei»,
secondo cui l’Ades sarebbe solo la tomba e alla morte l’intero essere sarebbe
distrutto, per essere poi interamente ricreato alla risurrezione. Quindi, non
esisterebbero un Ades trascen-dentale, né un Paradiso.
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Le conseguenze di tale tesi sono che, per coerenza, anche Gesù sarebbe
stato distrutto alla sua morte, per essere ricreato tre giorni dopo, alla sua
risurrezione! Quindi, alla sua morte, non sarebbe andato personalmente nella
trascendenza ad annunciare la sua vittoria ai santi dell’AT, ma essendo
distrutto come persona, di lui sarebbe rimasto solo il suo corpo nella tomba...
Quando alla comprensione corretta del testo sul ricco e Lazzaro (Luca
16,19-31), abbiamo visto che
è di massima importanza partire dalla comprensione del suo giusto «genere
letterario». Quindi, è stato importante capire, se si tratta di una
«parabola» a sfondo morale, come afferma Paolo Palmieri, oppure se si tratta di
una narrazione di fatti reali con elementi di rivelazione annunciati da Gesù,
visto che nessun uomo può guardare nella trascendenza.
Se si pone male il fondamento, tutta la casa interpretativa verrà storta. Allora
si cercherà di far apparire diritto il muro storto, mediante i tipici
artifici ideologici: un pizzico di spiritualizzazione, un po’ di
interpretazione allegorica, una presa di falso sillogismo, un quid di
soggettivismo arbitrario, una spruzzata di retorica e un po’ di contorno
ideologico, e al testo viene fatto dire tutt’altro.
Qui, nella discussione, si aggiungono altri interessanti elementi. Ad esempio,
vengono chiamate per nome alcune persone: Abramo e Lazzaro. La domanda è
la seguente: Se Lazzaro è solo una figura allegorica, come affermano i
«nuovi sadducei», che dire di
Abramo, il «padre della fede» (Rm 4,11s)?
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre esperienze, idee e
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1. {Ivaldo
Indomiti}
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Contributo:
Sono contento che tu abbia dato questa più che condivisibile valutazione. In
tutte le parabole il Signore Gesù non ha mai fatto riferimento a nomi propri
(come Lazzaro appunto), ma a nomi comuni (il seminatore, il moggio, l’albero
della senape, la rete, la zizzania e il grano, la massaia e altro), oltre a dire
la locuzione «è simile». Pertanto è una rivelazione del Signore,
con la quale specificava quale era la situazione dell’aldilà, ancor prima di
morire in croce e risorgere dopo tre giorni. {29-06-2015}
■
Mario Lombardo: Ho fatto una
ricerca su internet, e i commenti che ho trovato (sia di matrice riformata che
cattolici)
la classificano come parabola. Molto approfondita l’analisi, che ho
trovato a questo indirizzo:
Cathopedia.
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Nicola Martella:
Non è tutto oro ciò, che luccica. Molti ripetono opinioni basate su un consenso,
oramai radicato, e su luoghi comuni. Tutto ciò è dovuto alla falsa traduzione
del termine greco
hadēs (lett. «[luogo] invisibile») con «Inferno» già all’interno del
cattolicesimo (Vulgata: inferus». Lutero ha continuato così nella
sua traduzione con «Hölle» (Inferno), appoggiandosi sulla Vulgata. Diodati
si appoggiò su Lutero (così la cosiddetta «Nuova Diodati»), seguendo tale
consenso. Altresì si confonde «Paradiso» con il «Cielo», dove sta il
santuario e il trono di Dio. Perciò, c’è un grande equivoco di traduzione
interpretativa. Oltre a ciò, faceva dottrinalmente comodo interpretare tale
brano come «parabola», poiché intanto c’era stata l’invenzione del cosiddetto
«Purgatorio».
■
Stefano Borgomastro: È
infatti una
descrizione, non una parabola o allegoria o metafora, di quello che
succede dopo la morte. {30-06-2015}
■
Ivaldo Indomiti:
Metafora: «dal lat. metaphŏra(m), che è dal gr. metaphorá,
propr. “mutamento”, deriv. di metaphérein
“trasferire”, comp. di metá “oltre” e phérein “portare”» (N.d.R: fonte?).
Portare oltre.
Allegoria: «dal
lat. tardo allegorĭa(m), dal gr. allēgorìa, comp. di állēi
“in altro modo” e agoréuein “parlare”» (N.d.R: fonte?). Parlare in altro
modo. Oppure: dico dell’altro. {30-06-2015}
▬
Nicola Martella: Una «allegoria» è
una «metafora continuata» e come tale intende un «linguaggio traslato»,
ossia che va oltre a ciò che sta realmente scritto (p.es. similitudine del
seminatore). In questa narrazione del ricco e Lazzaro nulla va oltre a
ciò, che sta veramente scritto, essendo le cose descritte da Gesù quelle che
Egli voleva narrare e rivelare.
2. {Stefano
Scavitto}
▲
■
Contributo:
Caro Nicola, la tua analisi porta alle mie stesse conclusioni e a quelle di
molti altri studiosi biblici.
Noto però che non hai citato un dettaglio, secondo me importante da citare a
favore del fatto che la narrazione del ricco e Lazzaro non sia parabolica: i
nomi. Generalmente infatti Gesù non usava nelle parabole nomi propri di
personaggi, ma rimaneva nell’ambito dell’ipotesi: «il regno dei cieli è simile a
un padre con due figli»; «il regno dei cieli è simile a un seminatore»; e via
così. In questo caso invece Gesù fa tanto di nomi e cognomi, direi non
casuali.
Inoltre, nell’ottica
dell’ispirazione plenaria della Scrittura non dovremmo considerare un caso che
un Lazzaro fu nel regno dei morti. È un altro Lazzaro fu resuscitato.
Opterei per dire che si tratti della stessa persona. {29-06-2015}
■
Davide Marazzita: Stefano
Scavitto, sei in errore. Lazzaro è il nome greco di Eliazar, che nella
lingua aramaica del tempo di Gesù aveva un duplice significato: poteva essere un
nome di persona oppure indicare uno sfortunato. Pertanto una lettura
interpretativa del testo nel nostro tempo si potrebbe benissimo intendere come
«povero diavolo», dove per povero non s’intende un nome e diavolo un cognome.
Poi, azzardare che il Lazzaro del racconto di Luca sia lo stesso di
quello di Betania risuscitato dal Cristo, è davvero assurdo e inconcludente. In
merito al resto della discussione mi pronuncerò dopo. {29-06-2015}
▬
Nicola Martella:
Stefano Scavitto, nelle similitudini vengono riportati anche fatti reali
o di cronaca (p.es. Lc 19,12ss effettivamente accaduto a un discendente di
Erode, che andò a Roma), ma essi vengono stereotipati, perché non è la
storia in sé al centro, ma il suo significato morale o spirituale (qui
addirittura escatologico; cfr. v. 11).
Riguardo a Lazzaro, hai ragione: una parabola non fa
nomi! (cfr. Lc 19,12 «un uomo nobile»). Comunque, Gesù non fece «nomi e
cognomi», ma solo il nome: «Lazzaro», aggiungendo particolari
identificativi: «un povero [uomo]» (Lc 16,20), ossia un mendicante malato e
affamato.
Che questi fosse il
Lazzaro da Betania, amico di Gesù, c’è da dubitarne, perché
quest’ultimo era abbastanza benestante, avendo una casa, i cui vivevano le sue
sorelle, e la possibilità di ospitare Gesù e i suoi discepoli (Gv 12,1s). Questo
Lazzaro si ammalò, ma non faceva il mendicante. Maria sua sorella aveva unto il
Signore con un costosissimo olio odorifero (Gv 11,1s; 12,3ss).
■
Stefano Scavitto: Davide, ti
ringrazio per la risposta al mio commento. Mi spiace che ti poni già sulla
posizione della ragione, questo non facilita lo scambio di opinioni. Ti do
la mia risposta alle tue osservazioni.
Non so che versione della Bibbia utilizzi, ma quelle in mio possesso hanno tutte
tradotto Lazzaro come nome di persona. Quindi, a meno che non mi dimostri
una conoscenza del greco koinè maggiore dei nostri traduttori, considero la tua
osservazione utile e interessante, ma non definitiva.
Riguardo il mio
accenno che si tratti della stessa persona, che il Cristo resuscitò,
credo che tu abbia sottovalutato il principio d’ispirazione plenaria
della Scrittura. Essa è una qualità della Parola di Dio, che ritengo necessaria
mantenere ferma in favore di una corretta ermeneutica. {29-06-2015}
▬
Nicola Martella:
1. Davide Marazzita, il testo recita letteralmente così: «C’era un
certo povero di nome Lazzaro» (Lc 16,20). Ciò indica chiaramente che
si trattava di una persona ben conosciuta sul posto e ben identificata con un
nome proprio. Vedi similmente altre espressioni, in cui compare la stessa
costruzione con onómati «con o di nome”: «un uomo cirenaico di nome
Simone» (Mt 27,32); «uno dei capi sinagogali di nome Iairo» (Mc 5,22); «un certo
sacerdote di nome Zaccaria» (Lc 1,5); ecc. Quindi, si trattava qui
effettivamente di una persona concreta e ben conosciuta localmente, e non
di un «Pasquale» (Pierino, ecc.) stereotipato qualsiasi. Inoltre, come ho
accennato all’inizio, qui viene menzionato per nome anche Abramo, il
«padre della fede» (Rm 4,11s); che significato allegorico bisognerà cercare per
lui?
2. Concordo con le premesse di Stefano Scavitto. Chi ha buoni argomenti
biblici ed esegetici (e altri, se utili al chiarimento), non ha necessità di
attaccare la persona.
Che i due «Lazzaro»
non siano coincidenti per me, ho portato sopra i miei argomenti, a cui rimando.
■
Stefano Scavitto: «Nome e
cognome» era solo un modo di dire. Interessanti i dettagli sulla situazione
economica di Lazzaro «il risorto», che lo rendono un altro Lazzaro.
Grazie dell’edificante confronto. {29-06-2015}
3. {Nunzio
Nicastro}
▲
■
Contributo:
Ecclesiaste 12,9 recita: «...prima che la polvere torni alla terra com’era
prima, e lo spirito torni a Dio che l’ha dato». Che cosa s’intende
per «spirito»? È lo stesso spirito, menzionato da Stefano in Atti 7,59?
{29-06-2015}
▬
Nicola Martella:
Nel pensiero ebraico, l’uomo si compone di due elementi fondamentali: il
corpo (o polvere) e lo «spirito» (ebr. rûach «respiro, vento,
spirito») o «soffio (di vita)» (ebr. nešāmāh «alito,
soffio»); insieme formano «l’anima vivente», ossia la persona (Gn 2,7
divenne). Paolo parlò dell’«uomo esteriore»
e dell’«uomo interiore» (2 Cor 4,16). Alla morte tale unità chiamata
«anima vivente» cessa e questi due componenti hanno un destino diverso: il
corpo torna alla terra, mentre lo spirito («l’uomo interiore») va
nella trascendenza (cfr. Ec 12,9), dove attende la risurrezione del corpo (1 Cor
15,42).
Sì, è lo stesso «spirito», di cui parlò Stefano
in Atti 7,59, intendendo se stesso dopo la morte.
Per l’approfondimento
si veda in Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’Antico Testamento
(Punto°A°Croce, Roma 2002), gli articoli: «Antropologia 3: componenti
principali», pp. 89s; «Uomo: parti e funzioni», pp. 376s.
4. {Daniele
Mancuso}
▲
■
Contributo:
Premettendo che è molto difficile stabilire cosa ci aspetta dopo la morte, do
poco credito all’inferno
come è stato insegnato spesso dalla tradizione cattolica con tormenti
fisici e diavoli con pentoloni (se l’anima è immateriale, come fa a
patire dolore fisico?). Effettivamente questi elementi si riscontrano di più
nelle mitologie pagane (e anche in quelle platoniche) che bibliche.
Insomma, l’inferno dantesco mi sembra poco probabile. Ovviamente sono
miei pensieri, che sono incompetente. {29-06-2015}
▬
Nicola Martella:
Non importa ciò, che credi tu o io, oppure che cosa dica la tradizione o Dante
Alighieri, ma bisogna partire da ciò, che asserisce la sacra Scrittura.
Lo «stagno di fuoco» o «fuoco eterno» è stato creato proprio per il
diavolo e i suoi angeli, perché essi siano lì tormentati (Matteo 25,41). Ciò
significa che anche i «corpi pneumatici» delle creature trascendentali
hanno la capacità di soffrire. Non saranno i demoni a infliggere pene
agli umani, ma saranno essi stessi a essere tormentati per sempre. «E il
diavolo che le aveva sedotte fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove
sono anche la bestia e il falso profeta; e saranno tormentati giorno e notte,
nei secoli dei secoli» (Apocalisse 20,10; cfr. 19,20; 20,14s; 21,8).
Ciò non ha nulla a che fare con le concezioni trascendentali dei pagani o
di Dante Alighieri.
Qui il tema è
circoscritto all’articolo. Leggilo interamente sul sito, se non l’hai ancora
fatto, e poi intervieni solo nel merito.
■
Daniele Mancuso: Appunto,
Nicola, quello che è stato insegnato per secoli e forse ancora oggi, non ha
nulla a che vedere con la Scrittura! {30-06-2015}
5. {Davide
Marazzita}
▲
■
Contributo:
Nicola Martella, non devo insegnarti io che il testo, che leggiamo, è già di per
sé un’interpretazione. Una versione del testo recita così: «E c’era un
mendicante chiamato Lazzaro», del tipo: «E c’era un mendicante chiamato
sfortunato». Inoltre il testo di Luca è inserito in una serie di parabole,
che Gesù raccontava, e si noti che lo stile di Luca, che ricordiamo non
visse alcuno di quei momenti ma collezionò tutte le informazioni, catalogandole
al meglio per il suo amico Teofilo, era quasi identico per tutti i racconti,
compreso quello del ricco e del Lazzaro. Quindi, interpretare il racconto
come una parabola, non lo ritengo né falso né deviante. Credo che spesso
nella lettura e nell’ermeneutica dei testi biblici non si tenga conto del
contesto, nel senso che ci si deve chiedere sempre a chi era indirizzato per
prima il testo, e cosa avrebbero dovuto comprendere quei lettori prima, e dopo
noi, uomini del XXI secolo.
Tutto l’articolo proposto, giustamente vuole sollevare da ogni dubbio che
esiste una vita dopo la morte, che l’anima non è mortale, che esistono dei
luoghi precisi dove si passerà l’eternità. Ma il testo del racconto del ricco e
del Lazzaro affronta il tema dell’incredulità e dell’amore per le ricchezze
a spese dei poveri (basta leggere i passi poco precedenti). L’uso del
linguaggio post mortem è riferito a ciò, che sapevano al riguardo,
sia dai testi veterotestamentari che dalla tradizione rabbinica (vedi il seno di
Abramo). Al tempo di Gesù, ancora non c’era una conoscenza del dopo morte
completata dai testi del Nuovo Testamento, sopratutto da quelli paolini; perciò
si parla di Ades o soggiorno dei morti, sheol nell’ebraico. Quindi, nulla da
eccepire sulle conclusioni degli articoli, anche se secondo me ci sono ampi
spazi di discussione, perché non tutto è chiaro, altrimenti a che
servirebbe la fede. Inoltre il mio precedente intervento non era assolutamente
un attacco a Stefano Scavitto, e se così è stato percepito, me ne scuso, ma solo
un libero intervento su proposta di Nicola Martella. {30-06-2015}
■
Stefano Scavitto: Davide,
concedimi una riflessione sulla tua posizione. Quanti sono i nomi propri
della Bibbia che esprimono un concetto? Credo che tu sappia che tutti i nomi
propri di persona della Bibbia hanno anche un significato nella loro
lingua originale. Molto spesso, quel significato esprime, anche profeticamente,
aspetti del loro carattere o situazioni che avrebbero vissuto nella loro vita.
Luca scrive a Teofilo, dobbiamo quindi dare per certo che Teofilo sia
solo un espediente letterario e non un vero destinatario, perché significa
«amante di Dio»? Giacobbe prese la primogenitura, che spettava a Esau, il
suo nome significa «soppiantatore». Siamo quindi di fronte a un mito e non a un
fatto reale?
Vedi, a mio modo di vedere, una moda interpretativa degli anni novanta del
secolo scorso, forse prima, ha portato molti credenti ad applicare una
critica letteraria
come strumento di studio della Parola di Dio. La stessa critica mette in dubbio
l’autenticità dello scritto, gli autori, gli eventi in esso contenuti.
Questa
ermeneutica storico-critica si è resa affascinante agli occhi di molti
evangelici, che trovavano (e trovano ancora oggi) in essa la chiave magica, con
cui scoprire il vero significato del testo biblico.
Ognuno è
libero di scegliere come interpretare il testo e quindi trarne
considerazioni e riflessioni, ovviamente. Io, dopo averne vagliato molti aspetti
e conseguenze, mi sono trovato a mio agio per un’interpretazione più classica. È
una modalità, che mi permette di considerare il testo come divinamente
ispirato, infallibile, attendibile e molto più semplice da interpretare.
Giacobbe, Teofilo, Lazzaro, Giovanni per me sono tutti personaggi esistiti.
Non mi piace pensare che Dio abbia lasciato all’uomo un testo, che per esser
bene inteso necessitava di conoscenza della critica letteraria.
Ritengo ovviamente utili le analisi di questo genere d’interpretazione. Di certo
offrono spunti di riflessione interessanti, che aggiungono contenuto anche
spirituale a ogni meditazione biblica. Ma diffido quando invece queste
diventano indispensabili, necessarie alla comprensione del testo.
Credo quindi che la nostra differenza di vedute si basi principalmente su questa
presa di posizione iniziale.
Comunque credo che Nicola abbia nel suo sito fornito molti elementi testuali
molto validi a conferma della «nostra» posizione. {30-06-2015}
▬
Nicola Martella: Grazie, Davide Marazzita,
per il tuo tentativo di dare spiegazioni a noi «moderni». È vero che Gesù
costruiva sulla conoscenza dell’AT e sul consenso culturale del
giudaismo circa l’aldilà (p.es. «seno di Abramo» = «a tu per tu con Abramo»,
spesso usato per l’intima relazione a tavola tra due persone vicine; cfr. Gv
1,18). Tuttavia, qui non si tratta di una similitudine, che serve per
dire altro, ad esempio sulla ricchezza; e quale sarebbe la logica derivante
dal testo stesso? Chi è ricco in terra, sarà tribolato nell’Ades, mentre chi ha
sofferto in terra godrà in Paradiso? (cfr. Lc 16,20). Ciò sarebbe ben grave
per la dottrina di Gesù e per la salvezza per grazia mediante la fede. Inoltre,
le parole precedenti a tale narrazione parlano di ripudio, non di
ricchezza (v. 18), di cui si parla molto prima. Visto che nel testo in esame (Lc
16,19ss) non si parla però di tale tema, bisogna prendere atto che Gesù
introdusse un nuovo tema, solo tenuamente legato al precedente. Qui si
tratta di un nuovo tema e di una rivelazione; infatti nessuno può narrare
fatti avvenuti nell’aldilà.
Non condivido che l’espressione letterale «Or c’era un certo povero di nome
Lazzaro» (Lc 16,20) significhi qui «E c’era un mendicante chiamato
sfortunato»: questa è eisegesi, non esegesi. Come ho mostrato sopra,
la stessa e
simile espressione (costruzione con onómati «con o di nome») si trova
altrove con nomi di persone reali, non si comprende perché qui debba fare
eccezione. Una costruzione simile si trova anche per l’altro Lazzaro, il
cui brano dal greco recita letteralmente: «Or c’era un certo ammalato,
Lazzaro di Betania» (Gv 11,1). Sarebbe veramente singolare tradurre qui,
seguendo la tua coerenza: «Or c’era un certo ammalato, uno sfortunato di
Betania».
Quindi, permettimi di dissentire sia dall’interpretazione del genere
letterario, sia sulla valutazione del nome «Lazzaro» (gr. Lázaros); come
accennato, viene menzionato anche Abramo! Infine, faccio notare che Luca da
studioso non è stato meno scrupoloso degli altri evangelisti, che studiosi
non erano, sebbene Matteo e Giovanni furono testimoni oculari, e sebbene Marco
(troppo giovane allora) riportasse le narrazioni di Pietro, come afferma la
tradizione.
■
Davide Marazzita: Stefano
Scavitto, rispetto la tua posizione e addirittura la condivido pienamente. Credo
che i nomi
dei personaggi biblici, che hanno anche dei significati, a volte attribuiti a
questioni profetiche e altre a situazioni contingenti, siano realmente
esistiti. Non credo però che altri personaggi, che abbiano solo un senso
allegorico, intacchino la divina ispirazione del testo biblico. I libri
della Bibbia sono divinamente ispirati e senza errore nei testi originali; tutte
le nostre riflessioni di interpretazioni non sono ispirati e senza
errori, benché a essi noi cerchiamo l’aiuto dello Spirito Santo per
comprenderli. Che Nicola abbia fornito molti elementi utili, non significa che
tutto sia sempre da riconoscere come verità, solamente perché è in linea con
ciò, che noi crediamo. Io ho un profondo rispetto per Nicola, ma non sempre sono
allineato con il suo pensiero. Ripeto, il concetto utile e vero è che Dio ha
previsto un reale luogo di tormento prima per l’avversario e i suoi
angeli e, purtroppo, anche per i peccatori impenitenti, e anche un reale
luogo di beatitudine per chi invece si pente e si ravvede. Questa è la
verità, su cui si basa la dottrina, l’evangelo, la verità. Se affermo che il
testo di Luca, a mio parere, non è da interpretare letteralmente ma
simbolicamente come i testi subito precedenti, non metto in dubbio la
dottrina dell’evangelo, né metto in dubbio la veridicità del testo biblico, né è
un elemento indispensabile per una corretta comprensione del testo biblico.
{30-06-2015}
■
Stefano Scavitto: Concordo
con tutto quanto hai esposto, ma non è questo il punto. Una diversa
analisi testuale di un brano biblico influenza alcune conclusioni
dottrinali, in questo caso di ordine escatologico in prima battuta.
La discussione infatti prende in esame il testo di Luca, ne analizza gli
elementi per dimostrare che non si tratta di una parabola, quindi trae
una conclusione dottrinale. Al contrario invece, la tua presa di posizione, cioè
che si tratti di una parabola, sembra una presa di posizione che ignora
quegli elementi.
Hai fornito una riflessione sul nome, che io ho «contestato», ma in
risposta mi hai assecondato. Quindi onestamente, dal punto di vista delle
analisi testuali, mi sembra più pretestuoso voler accettare la storia
come una parabola rispetto a volerla accettare come una storia vera.
Il pericolo più grande di tutta questa discussione è dato dall’effetto
farfalla: un errore ermeneutico così «banale» può produrre effetti
devastanti su tutta la dottrina. Perché dico questo? Perché dalla «parabola» di
Lazzaro cambiamo l’escatologia. Dall’escatologia reinterpretiamo tutte le
Parole di Gesù sul futuro del mondo. Dalle parole di Gesù reinterpretiamo il
piano di Dio, ecc. ecc.
Penso che il modo migliore, per esporre la tua posizione, sia quello di
mostrare evidenze testuali a favore dell’ipotesi che il testo si riferisca a
una parabola.
P.S.: Giusto per chiarezza, la mia tesi sullo «stesso Lazzaro» era
un’ipotesi, una possibilità, che non mi avrebbe stupito in virtù del principio
dell’ispirazione. Gli elementi testuali, che hai condiviso, sono a prima vista
più che sufficienti a bocciare la mia tesi. Dico a prima vista, perché
non ho approfondito al riguardo. {30-06-2015}
6. {Adriano
Carmelo Bartolomeo}
▲
■
Contributo:
Sono d’accordissimo col tuo pensiero, che hai esposto, Nicola. Non vi è altro da
aggiungere, se non che secondo me manca il fatto che Gesù ha menzionato dei
nomi, quindi è qualcosa di reale, che era successo.
Un altra cosa, che
conferma che il Paradiso non si trova in cielo, è che alla croce Gesù disse al
ladrone: «Oggi, sarai con me in Paradiso». E noi sappiamo dalla
Parola del Signore che Cristo, nei tre giorni della sua morte, andò a
predicare ai morti, che attendevano la sua venuta; e questo luogo non si
trova in cielo. A proposito dei cieli nello scritto apocrifo di Enoc vengono
descritti sette cieli; e nel nostro gergo comune si dice «sono al settimo
cielo». {30-06-2015}
▬
Nicola Martella: La questione dei nomi,
menzionati da Gesù, l’abbiamo già discussa sopra. Gli innamorati, che sono
al settimo cielo, scendono presto e in fretta sul terreno della realtà,
appena il «miele» cala.
J
Gesù disse a Maria
Maddalena di non essere ancora salito al Padre (Gv 20,17); quindi, dopo
la sua morte, andò in Paradiso (o terzo cielo), non nel cielo superiore, dove si
trova il santuario e il trono di Dio Padre.
■
Adriano Carmelo Bartolomeo:
Sì, questo l’ho capito, caro Nicola. Quello che volevo dire, è che oltre al
terzo cielo vi sono ancora dei cieli superiori e nel libro apocrifo di Enoc
ve ne sono descritti sette. Poi, quanti ve ne siano, almeno io non lo so,
ma un fratello a me vicino mi ha detto che sono tre. {30-06-2015}
▬
Nicola Martella: Il terzo cielo è il
Paradiso (2 Cor 12,2s), non il cielo superiore. Quindi ce ne sono più di tre.
Al «libro di Enok» non darei tanto credito, sebbene abbia molto influenzato il
giudaismo.
■
Ivaldo Indomiti: Quali sono
Nicola i
riferimenti biblici per il cielo superiore? {30-06-2015}
▬
Nicola Martella: In Apocalisse 4 Giovanni
non fu rapito al terzo cielo, ma proprio presso il santuario, dove vide il trono
di Dio e Lui seduto maestosamente su di esso. Tutte le scene di Apocalisse
avvengono in tale cielo. Anche Isaia (6,1ss) e Daniele (7,9ss)
ebbero il privilegio di vedere tale visione delle cose, che avvennero sopra la
«distesa» (o mare di vetro). Ezechiele, invece, vide nella visione dei
cherubini specialmente ciò, che avvenne sotto la distesa (Ez 1,22s), vedendo la
scena del trono solo da sotto (v. 26ss; Ez 10,1s).
7. {Gianni
Cascato}
▲
■
Contributo:
«Io conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa (se con il corpo o
fuori del corpo non lo so, Dio lo sa), fu rapito fino al terzo cielo. E so che
quell’uomo (se con il corpo o senza il corpo, non lo so, Dio lo sa), fu rapito
in paradiso e udii parole ineffabili, che non è lecito ad alcun uomo di
proferire» (2 Cor 12,2-4). {01-07-2015}
▬
Nicola Martella: Gianni Cascato, che cosa
volevi dirci con tale brano? L’ho citato sopra, affermando che il «terzo cielo»
è il Paradiso.
■
Gianni Cascato: Ho voluto
solo mettere i versi completi, che parlano di quanto detto.
Il fuoco dell’inferno,
fuoco della Geenna, stagno di fuoco, è un fuoco reale, oppure vuole
descriverci la sofferenza, che provano nel vivere per l’eternità lontano
dalla presenza di Dio? L’inferno descritto nella Bibbia dovrebbe essere un
luogo di attesa con le anime perdute, mentre il «seno di Abramo» è il
paradiso. {02-07-2015}
▬
Nicola Martella: Grazie dei versi completi.
■ La Scrittura parla di un fuoco reale, quindi non dobbiamo dubitarne, né
cercare di
psicologizzare tale fuoco con altri significati. Anche Satana e i suoi
angeli, sebbene siano esseri spirituali, hanno un «corpo pneumatico», che
soffrirà in tali fiamme; lo stesso dicasi dei corpi resuscitati degli
increduli e impenitenti.
■ Non è l’Inferno a essere un luogo di attesa per le anime perdute, ma
l’Ades, dove esse attendono il giudizio finale. Lo «stagno di fuoco» (o
Inferno) è il luogo definitivo; lì c’è poco da aspettare un cambiamento.
■
Gianni Cascato: Ancora non
mi è tutto chiaro, se lo «stagno di fuoco» e l’Inferno sono
la stessa cosa. Infatti, in Apocalisse 20,14 è scritto che «la morte e
l’Ades furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda».
In alcune traduzioni come la Giovanni Diodati (1576-1649) è scritto: «E
la morte e l’inferno furono gettati nello stagno del fuoco. Questa è la morte
seconda». L’Ades e l’Inferno non sono la stessa cosa?
Ho notato che in
alcune traduzioni delle Bibbie tedesche vi è scritto soggiorno dei morti, oppure
inferno.
{02-07-2015}
▬
Nicola Martella: La Diodati e la
Nuova Diodati fanno male a tradurre il termine greco hadēs (lett.
«[luogo] invisibile») con Inferno in Apocalisse 20,14 e in altri brani. Questo è
dovuto al fatto che Diodati si appoggiò a Lutero, che falsamente tradusse
il termine greco hadēs con «Hölle» (Inferno) in tutto il NT, creando solo
confusione. La Elberferder, ad esempio, lascia in tedesco «Hades».
L’Ades è il luogo momentaneo, mentre l’Inferno (Stagno di fuoco,
Geenna) è il luogo definitivo. Dopo il «giudizio universale», l’Ades (luogo
momentaneo) verrà gettato nello «Stagno di fuoco» (luogo definitivo) con tutti i
suoi inquilini.
8. {}
▲
9. {}
▲
10. {}
▲
11. {Vari e
medi}
▲
12. {Vari e
brevi}
▲
■
Andrea Angeloni: Grazie,
Nicola, per le precisazioni date nell’articolo, delle quali faccio tesoro.
{30-06-2015}
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/T1-Ric_Laz_MT_AT.htm
02-07-2015; Aggiornamento: 18-07-2015 |