Testi biblici:
Giovanni 20,1-10; 1 Corinzi 15,1-34.
«Resurrecturis» è la scritta
che il visitatore legge, quando entra nel Cimitero Monumentale di Verona. È un
termine latino che richiama subito alla memoria la parola italiana
«resurrezione». Il tema della resurrezione costituisce per i cristiani il
fondamento della fede, è uno dei dogmi fondamentali della rivelazione biblica.
Fin dai primi anni dell’era cristiana, la morte è vista dai credenti con gli
occhi della fede come terminus a quo, ossia come punto di partenza della
vita infuturata, oltre il tempo dell’esistenza mondana. È innegabile
che la
morte è lo spauracchio dell’uomo. Se da una parte, per il sentire cristiano
la morte è percepita come il passaggio dalla vita caduca dell’esistenza terrena
a quella eterna, suggellata dalla risurrezione di Cristo, tuttavia è onesto
ammettere che il pensiero della morte causa nell’uomo profonda inquietudine e
disperazione. E al riguardo non vale nulla la riflessione filosofica, che cerca
di lenire il turbamento causato dalla morte, come l’aforisma di Epicuro,
secondo il quale la morte non sarebbe un’esperienza spaventevole per l’uomo
perché, fino a quando l’uomo vive, la morte non c’è e, quando la morte
sopraggiunge, l’uomo non è più. Di fatto, la morte è tragicamente presente nella
vita dell’uomo perché prevale in lui la percezione in vita della paura del
morire. Giustamente Lattanzio, un autore cristiano latino del 4° secolo
d.C., fa notare che la morte in sé può non essere una infelicità, ma lo è
l’avvicinamento alla morte: cioè essere consunti dalla malattia, subire una
ferita, essere trafitti da un’arma, essere arsi dal fuoco, essere sbranati. Sono
queste le fonti del timore, e non perché portano la morte, ma perché portano un
gran dolore. Né vale la pietosa consolazione che il poeta Ugo Foscolo
suggerisce con l’affermare che solo chi non lascerà eredità di affetti, poca
gioia ha dell’urna, consegnando soltanto alla memoria l’illusione della
sopravvivenza dell’uomo dalla terrificante realtà del morire. Per l’uomo
la morte è il
male supremo che toglie il valore supremo della vita: l’uomo diventa un
corpo freddo, privo dell’alito di vita, che è il respiro: non può più pensare,
né amare, né odiare, né lavorare, né oziare, né curare i suoi affari, né
speculare, né giocare, né ridere, né piangere, né sposarsi, né generare figli,
né godere il frutto della propria fatica. È tragico pensare che l’uomo è cibo
per i vermi e concime per i fiori. Ora, però, è
come se nelle oscure viuzze delle città della Galilea e della Giudea un
oscuro falegname di Nazareth facesse sentire ancora oggi l’eco della sua
voce possente e rassicurante: «Io sono la Risurrezione e la Vita; chi crede
in me, anche se muore, vivrà». Questo umile artigiano ebreo morì di una
morte ignominiosa appeso ad una croce, accusato ingiustamente di
vilipendio della religione e di sedizione armata, su una collina che sovrasta
Gerusalemme, in seguito a una predicazione etico-messianica, che rivoluzionava
non solo il sistema religioso esistente con i suoi riti esteriori e le sue leggi
formali, ma anche modificò il sentire etico comune. Dopo alcuni giorni dalla sua
morte, avvenuta intorno agli anni trenta dell’era cristiana, i suoi discepoli
annunziarono coraggiosamente e con convinzione che egli era
risuscitato dalla morte riconoscendolo come Dio. L’evento
storico della resurrezione di Gesù rivoluzionò senz’altro il modo tragico
dell’uomo di relazionarsi con la morte. Che cosa accadde nel periodo che
intercorre tra la sua tragica morte e l’annuncio apostolico della gioiosa
speranza della resurrezione? Il testo di Giovanni dà alcuni dettagli rilevanti
ai fini di una accurata riflessione sul mistero della tomba vuota; nei primi
versetti del cap. 20 è possibile rilevare interessanti tratti psicologici dei
protagonisti del racconto giovanneo. Innanzitutto, cogliamo lo stupore di
Maria di Magdala alla visione del tutto inattesa del sepolcro aperto e la
dolorosa meraviglia di constatare che la tomba era vuota. In Maria non c’è
stata una minima reazione gioiosa, che avrebbe fatto pensare alla resurrezione
di Cristo. Anzi, lei corre spaventata da Pietro e da Giovanni per
metterli al corrente che la tomba era stata manomessa e il corpo di Gesù
trafugato. Qual è la
reazione dei due discepoli? Li cogliamo in un momento di forte trepidazione
e
irrequietudine. Corrono affannosamente verso il sepolcro. Giungendo per
primo Giovanni, egli sostò davanti all’uscio, notando che le bende erano per
terra, mente Pietro, sopraggiungendo alcuni attimi dopo, entrò, notando
anch’egli le bende per terra e a parte il sudario piegato in un luogo a parte.
Proseguendo nel racconto, il testo dice che entrò anche Giovanni e vide e
credette. Che cosa indusse Giovanni a credere e qual era l’oggetto della sua
fede?
Prima di
dare le adeguate risposte a tali domande è opportuno accennare brevemente all’usanza
orientale della sepoltura di un defunto all’epoca di Gesù. Con molta
probabilità il corpo di Gesù è stato avvolto con bende di lino, spruzzando nelle
pieghe i grani degli aromi. La testa fu avvolta da un pannilino, lasciando
scoperta la faccia e il collo. Ciò che
indusse Giovanni a credere fu il fatto di avere visto le bende e il sudario
afflosciati: il corpo risorto di Gesù ha attraversato le bende e il
sudario senza scomporle, ma essi si erano afflosciati, venendo a mancare il
corpo. Il discepolo notò questi particolari: le bende afflosciate, come se il
corpo fosse passato oltre le bende e il sudario, conservando la loro
forma concava, ma sgonfiati. (vv. 5-7) Giovanni aveva osservato questi
importanti particolari, richiamando alla memoria ciò che Gesù aveva detto
durante la sua vita terrena (v. 29). Quello che
colpisce i lettori degli Evangeli è che i discepoli non erano preparati
all’evento, che avrebbe cambiato il pensiero umano intorno alla morte. Gli
Evangeli presentano il gruppo come gente smarrita, disillusa, rassegnata; e non
vale la teoria, secondo cui i discepoli avrebbero trafugato il corpo di
Gesù, per annunciare, in seguito, la sua resurrezione. Allo stesso modo è
strampalata l’ipotesi dello scrittore tedesco Holger Kersten, il quale
nel suo libro «Jesus lived in India», del 1986, afferma che Gesù non è mai
risorto perché non è mai deceduto durante la crocifissione. La «favola» della
risurrezione in realtà, secondo lo scrittore tedesco, era una messinscena
architettata da Gesù stesso con la complicità di alcuni discepoli e soldati. La
morte apparente sarebbe stata causata da una sostanza narcotica che Gesù avrebbe
ingerito, diluita nell’aceto che bevve sulla croce. Sopravvissuto alla
crocifissione, Gesù sarebbe fuggito in India, terra già familiare a lui per il
suo soggiorno giovanile (cfr. Nicolai Notovich, La via sconosciuta di Gesù
Cristo, del 1894). In India, accompagnato dalla anziana madre, la quale morì
a Taxila nel Pakistan, Gesù sarebbe morto e seppellito nella città di Srinagar
nel Kashmir in veneranda età. Senza dare
alcun credito storico a tali fandonie (purtroppo esse fanno presa sulla gente,
la quale crede più negli extraterrestri che nella risurrezione di Gesù), i
discepoli avevano tutt’altro stato d’animo che quello di chi inganna e
vuole frodare. No, i discepoli erano affranti. I discepoli di Gesù che tornavano
ad Emmaus erano addolorati. (Lc 24,16-24). Nei discepoli non si coglie niente,
che faceva pensare che essi avrebbero aspettato il Risorto, che secondo Kerster
non era risorto. Era gente sconfitta. Ciò che li ha rianimati e ha infuso in
loro il coraggio sono state le auto-rivelazioni di Gesù. La storia della
resurrezione è la storia di eventi che richiamano la fede e si sottrae a quella
che è lo studio della critica storica, tesa a raccogliere i documenti, a
verificarli, ad analizzarli e a classificarli e a renderli noti come si fa con
un cadavere in anatomia, il quale viene sezionato, studiato, i cui risultati in
seguito assumono una validità scientifica. Dio si sottrae alle analisi della
critica storica e alla sua determinazione. La resurrezione è un evento storico
che si sottrae all’evidenza storica. Sono eventi storici, che appartengono alla
auto-rivelazione di Dio
ai credenti, che sono stati in stretto contatto con Gesù. D’altra
parte, la resurrezione di Gesù è stata oggetto di disputa in una delle
chiese cristiane, con cui Paolo ebbe intensamente a che fare, travagliata da
dissensi interni e dal disordine etico-teologico. La
chiesa di Corinto è la chiesa più tristemente nota tra le chiese del
proto-cristianesimo. È una chiesa in gran parte formata da cristiani di origine
pagana, i quali portavano con sé la cultura greco-ellenistica. È probabile che
un buon numero di Corinzi negavano la risurrezione
corporale di Cristo sulle basi filosofiche gnosticizzanti, il cui pensiero
affermava che l’anima immortale sopravvive alla caducità dell’esistenza terrena
e che il corpo, essendo un elemento corruttibile, non partecipa all’immortalità
dell’anima. È questo il terreno religioso, su cui si snoda la forte critica di
Paolo per ribadire la fede nella risurrezione corporale dell’uomo, di cui
Cristo è il primogenito. Quali sono le argomentazioni di Paolo a favore della
risurrezione dei corpi? Egli ribadisce che la morte di Cristo era
necessaria per espiare i peccati dell’intera umanità, e che il corpo di Cristo
fu realmente seppellito e che il primo giorno della settimana fu
risuscitato (cfr. il greco egergetai, che è un verbo passivo e indica
l’azione del Padre nel risuscitare il Figlio). Paolo continua nella sua
testimonianza che Gesù apparve a Cefa e poi ai dodici e a cinquecento
discepoli. Nell’esperienza dell’auto-rivelazione del Risorto Paolo fu l’ultimo
ad essere un autorevole testimone: «Ultimo fra tutti apparve anche a me
come all’aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli e non sono degno
neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio».(1
Cor 15,7-9). Paolo è
veramente convinto che Gesù era stato risuscitato e che questo evento è
l’elemento fondante la fede cristiana. Infatti, egli è un testimone oculare
come lo è il resto della cerchia ristretta dei discepoli di Gesù, anche se egli
non è annoverato tra coloro che hanno condiviso l’intima amicizia con il Gesù
terreno. Paolo per la fede nel Risorto
ha affrontato ogni sorta di traversie: egli, suppongo, con emozione afferma: «Perché
noi ci esponiamo al pericolo continuamente? Ogni giorno io affronto la
morte, come è vero che voi siete il vanto, fratelli, in Cristo Gesù nostro
Signore! Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le
belve, a cosa mi gioverebbe?
Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo perché domani moriremo» (1
Cor 15,31-32; cfr. Is 22,13). E ribadisce: «Ma Cristo è risuscitato
dai morti, primizia di coloro che sono morti...» (1 Cor15,20). Non si può
negare che le affermazioni di Paolo sono vitalizzanti per tutti quei credenti
che stanno cedendo alla critica modernista, che nega la resurrezione
della carne e la sua veridicità storica. A questi critici, redivivi e novelli
Celso e Porfirio [= antichi oppositori pagani al cristianesimo, N.d.R.], noi
chiediamo per quale insensata ragione uomini come Pietro, Paolo, Giacomo e altri
martiri cristiani hanno versato il sangue
per un evento che sarebbe stato un non-evento? E per quale motivo cristiani di
oggi — come Rita Stump e Anita Grunwald massacrati da Al Kaeda nello Yemen —
avrebbero offerto la loro vita per rendere testimonianza a quel Cristo che è
stato proclamato il Signore Risorto dai morti, se Cristo non fosse stato
risorto? No, non sono le deboli cattedrali di pensiero moderniste e
disfattiste a mettere in discussione il grande evento della risurrezione di
Gesù, che richiede la fede. Il cristiano fa suo il grande detto di Gesù: «Io
sono la Risurrezione e la Vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; e
chiunque crede vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu questo?».
►
Io credo che risorgerò! Parliamone {Nicola Martella} (T)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/A2-Io-credo_risorgero_OiG.htm
27-05-2010; Aggiornamento: 30-05-2010 |