«Nel recarsi a
Gerusalemme, Gesù passava sui confini della Samaria e della Galilea. Come
entrava in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, i quali si
fermarono lontano da lui, e alzarono la voce, dicendo: “Gesù, Maestro, abbi
pietà di noi!”. Vedutili, egli disse loro: “Andate a mostrarvi ai sacerdoti”. E,
mentre andavano, furono purificati. Uno di loro vedendo che era purificato,
tornò indietro, glorificando Dio ad alta voce, e si gettò ai piedi di Gesù con
la faccia a terra, ringraziandolo; ed era un samaritano. Gesù, rispondendo,
disse: “I dieci non sono stati tutti purificati? Dove sono gli altri nove? Non
si è trovato nessuno che sia tornato per dar gloria a Dio tranne questo
straniero?”. E gli disse: “Àlzati e và; la tua fede ti ha salvato”» (Luca
17,11-19).
Salvare la propria
identità o accettare il diverso? È un dibattito vivo anche oggi, ma Gesù
aderisce e non aderisce ad ambedue le tesi, perché coglie il positivo che c’è in
ogni convinzione. Quando, come in questo caso, opera miracolosamente a favore
d’un non giudeo, lo costringe sempre a una qualche forma di rinnegamento del
proprio paganesimo e d’accettazione del Dio d’Israele. Il samaritano poté
infatti essere guarito perché accettò d’andare, insieme agli altri per lo più
giudei, a mostrarsi ai sacerdoti di Gerusalemme (non a quelli della religione
samaritana), ai quali spettava di certificare la guarigione ed eseguire i
rituali prescritti (cfr. Luca 5,14 e Levitico 14).
Quando però il non giudeo accetta di stare all’ultimo posto (cfr. per esempio la
donna cananea in Matteo 15,21-28 e il centurione in Luca 7,1-10), finisce che
Gesù lo avvicina a sé, dandogli il primo posto e mettendo in pratica la parabola
degli invitati alle nozze (Luca 14,7-11).
Giudei e samaritani avevano rapporti che assomigliano a quelli che hanno oggi
gli israeliani e i vicini musulmani, ma quando si è colpiti dalla lebbra e si ha
bisogno di salvezza le differenze passano in secondo piano, così fra quei dieci
lebbrosi le barriere religiose erano saltate. Oggi ci sono ebrei e musulmani che
scoprono d’avere nell’anima un cancro morale che solo Gesù può guarire. Dopo
aver sperimentato l’efficacia della fede in Gesù, sentono che ciò che li unisce
è più importante di ciò che li divide: è un fenomeno cominciato da poco, ma così
prezioso che ogni cristiano dovrebbe esserne informato e gioirne.
Gesù sapeva che la casa del Padre suo l’avevano fatta diventare «un covo di
ladroni» (Matteo 21,13), sapeva che a insegnare purtroppo c’erano scribi e
farisei ipocriti (Matteo 23,1-13), sapeva che nemmeno a Gerusalemme si sarebbe
più adorato veramente Dio (Giovanni 4,21-23). Non invitava perciò ad andare
verso Gerusalemme per quello che la città era in concreto, ma per ciò che
rappresentava.
Credo che anche oggi Gesù ci chiami ad avvicinarci col nostro spirito a
Gerusalemme per ciò che rappresenta, perché lì ci sono le rovine della casa del
Padre suo (e perciò della sua casa, Luca 2,49), perché lì aspetta di
poter tornare quando lo invocheranno come «Colui che viene nel nome del
Signore»
(Luca 13,35).
Il nostro Movimento Pro Israele è appunto un «movimento», un muoversi,
avvicinandoci sì a Israele, ma non perché approviamo tutto ciò che quella
nazione è o fa, ma per il significato che ha agli occhi di Dio e agli occhi del
mondo, che ha dimenticato le promesse fatte da Dio al suo popolo e ha bisogno di
rimettere le cose al giusto posto. Gerusalemme è per noi soprattutto il segno
della Nuova Gerusalemme che attendiamo (Apocalisse 21,10) e verso la quale
vogliamo incamminarci, certi che lungo la via Dio vorrà benedire anche noi.
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/Proiezioni/903-Verso_Gerusalemme_Mt.htm
06-12-2007; Aggiornamento:
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