Per l’articolo «Velo fra assolutismo e banalizzazione» sembrava che non ci fosse ragione per aprire un tema di discussione, ma l’arrivo
di un contributo critico, mi ha indotto a farlo. Passiamo quindi subito al merito della questione.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Antonio Capasso} ▲
Caro fratello Nicola, pace! Ho letto il tuo articolo sul velo e vorrei farti
partecipe alcune mie riflessioni sulla questione. Innanzitutto premetto che
sono favorevole a che le donne portino il velo in chiesa. Aggiungo che non
faccio della questione «velo» un motivo di rottura o di separazione nei
confronti di chi non la pensa così. Detto, questo voglio sottoporti alcune
questioni.
■ 1. Nel tuo articolo tu parli che il testo si riferisce alle mogli e non
a tutte le donne. La questione che solo le donne sposate debbano portare il velo
è molto antica, visto che già Tertulliano lo affrontò nel 2° secolo,
affermando che l’ingiunzione del velo era per tutte le donne e non solo per
quelle sposate.
■ 2. Se solo le donne sposate devono portare il velo, allora gli uomini non
sposati possono portare il capo coperto nella presenza di Dio?
■ 3. Se il testo si riferisce alle mogli e ai mariti, Cristo è capo
dell’uomo solo se è sposato?
■ 4. Il termine greco può essere tradotto sia mogli che donna, domando a te che
sei un esegeta, quali sono i parametri per decidere come si debba
tradurre il termine? (questo vale anche per la questione «interpretazione» o
«traduzione» ricordi?), e perché tutte le traduzioni hanno donna e non moglie?
Forse è il
contesto che fa optare per un senso o per un altro? Faccio solo
un’ipotesi non sono un esegeta.
■ 5. Come mai per duemila anni la chiesa ha sempre praticato questa
disposizione di Paolo? Solo oggi si è capito che le cose non stavano così?
■ 6. Concludo con una considerazione, che non è mia, ma che mi ha detto un
fratello. «Quando saremo nel cielo, Dio non ci rimprovererà, se abbiamo fatto di
più di quello, che c’è richiesto, ma sicuramente saremo rimproverati, se abbiamo
fatto meno di quello, che c’è richiesto».
E allora? Non dovrebbe bastarci il solo sospetto di dispiacere al Signore, per
mettere in pratica qualcosa che in fin dei conti non costa poi cosi tanto? Con
affetto in Cristo. {14 luglio 2009}
2.
{Nicola Martella} ▲
Avrei potuto rimandare il lettore per gli approfondimenti semplicemente a
«Generi e ruoli», dove spiego molte cose su «1 Corinzi 11» e «1 Corinzi 14»
[Nicola Martella,
Generi e ruoli 2 (Punto°A°Croce, Roma 1996), pp. 9-27. 28-41]. Mi
sforzo però di dargli alcune risposte, che potrà approfondire ancora con la
letteratura indicata. Seguo la sua numerazione.
■ 1. Tertulliano non può certo essere l’autorità in materia, essendo egli
appartenente a un gruppo di frangia alquanto integralista (i Montanisti) e con
idee alquanto singolari. [Per l’approfondimento sul montanismo si veda Nicola Martella (a cura di),
Escatologia fra legittimità e abuso.
Escatologia 2 (Punto°A°Croce, Roma 2007), pp. 42ss; cfr. anche p. 35 n. 3].
■ 2. Come si sa, i maschi entravano a far parte della qahal
(assemblea) d’Israele a circa 12 anni con la cerimonia detta bar mitzvah;
quindi a loro si applicavano, da lì in poi, le norme rituali per qualsiasi
Ebreo. Paolo affermò inoltre che il capo velato dai capelli è, per
natura, un onore per la «donna» (oltre che per la «femmina», quindi dalla
nascita in poi). Paolo affrontò qui però solo il caso della ghyne «donna
adulta, moglie» e dell’aner
«uomo adulto, marito»; è meglio non uscire dal seminato.
■ 3. Nel testo si parla dell’economia prevista da Dio: Dio → Cristo →
aner → ghyne. Ciò suggerisce che come Cristo è sottomesso al Padre, così la
moglie lo è nei confronti del marito (così anche in Ef 5); per questo lei deve
avere il capo velato durante le sue personali esternazioni ecclesiali (pregare e
profetare). Il greco ha altri vocaboli per la donna non sposata (neanìa,
nymfè...). Inoltre le questioni sono inerenti all’ordine nel culto,
alla preghiera e alla «profezia» (parlare estemporaneo sulla base della Parola
letta ai fini dell’edificazione) e a come esplicarli per aner e ghyne;
altre questioni non sono toccate qui da Paolo. [►
Profetare significa insegnare? Il ruolo della donna nel culto]
Lo spiedo si può anche facilmente girare. Se si intendesse qui qualsiasi
«femmina» (dalla nascita in poi) e non una ghyne, pensa il lettore che
una donna, sposata o non sposata, debba essere sottomessa a qualsiasi maschio
(p.es. uomo nella chiesa)? Questa ne sarebbe la logica, ed è ciò che reclamava
una persona di mia conoscenza, partendo da tale principio così interpretato. Gli
risposi che mia moglie ha il solo obbligo morale di essere sottomessa a me e a
nessun altro, sia nella società sia nella chiesa locale.
■ 4. Il problema è lo spettro di significati che ogni parola ha in una
lingua rispetto a un’altra. Cose che posso dire io in italiano o in tedesco in
modo semplice e diretto, non posso dirle allo stesso modo nell’altra lingua;
così è anche per l’ebraico e il greco. Facendo un esempio calzante col nostro
tema, faccio notare che in tedesco
Frau è o una «donna matura o una moglie» e mai una ragazza (Fräulein,
Mädchen, ecc.), meine Frau (mia donna) è «mia moglie»; in italiano non
diremmo mai così. Anche l’ebraico (’iššah) e il greco (ghyne)
hanno primariamente tale significato. [Cfr. in Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma
2002), gli articoli: «Donna», p. 149; «Uomo (maschio adulto), pp. 374s; cfr.
«Adulto – maturo virile (uomo ~), pp. 80ss.]
Una ’iššah (ebr.) o una
ghyne (gr.) era una donna da marito, una donna già fidanzata
(apparteneva già al promesso sposo) o una sposata. Quando s’intende una giovane
donna, come detto sopra, ci sono altri termini specifici. In Israele per
ogni persona una «fanciulla vergine» era, fin dal fidanzamento, già la «donna
del suo prossimo» (Dt 22,23s). Le «fanciulle vergini» in età di marito e
condotte nell’harem del re erano «donne» (Est 2,3.8.12.17). Altrimenti si
distingueva fra donne e fanciulle (Gr 51,22; Lm 5,11; Ez 9,6; 44,22; 1 Cor 7,34
la donna non maritata [= divorziata, vedova] e la vergine; 1 Tm 5,2). In
connessione con «uomo / marito) (ebr. ’iš; gr. aner), ella era una
donna sposata.
Sebbene sia ridicolo, oggigiorno si sente dire di un quarantenne: «È un bravo
ragazzo»; o fra quarantenni si dice: «Noi giovani». Ciò mostra come lo
spettro semantico si modifichi nel tempo. Così noi usiamo «donna» con uno
spettro semantico molto più vasto in italiano che in ebraico e in greco. Il
problema di 1 Corinzi 11 è che ci sono con ghyne e aner anche
allusioni ad Adamo e a Eva, rispettivamente il primo uomo e la prima donna.
Inoltre nel modo di tradurre gioca un certo ruolo anche la convenzione;
infatti i termini sono proprio gli stessi di Efesi 5. Una traduzione in tedesco
di ambedue i brani non crea difficoltà, poiché c’è sempre Mann e Frau
per «uomo / marito» e «donna / moglie». Il problema sta quindi nella nostra
lingua e nella convenzione di tradurre certi brani così da Diodati in poi o
probabilmente già dalla Vulgata in poi.
■ 5. Quella del velo generalizzato per ogni essere femminile è proprio una
pratica di 2.000 anni? Non basta certo Tertulliano per dirlo,
vista la sua appartenenza dottrinale singolare; la sua polemica mostra comunque
che c’erano già allora
altre posizioni. Tale livellamento c’è forse solo da quando la chiesa
di Roma
prese il sopravvento sugli altri patriarcati, divenne chiesa di Stato, una
potenza dogmatica uniformante sotto un clero e una grande livellatrice di
dottrine e costumi.
■ 6. È una bella frase quella citata. Rispondo però con una mia contro-massima:
«Dobbiamo sforzarci di fare la cosa giusta, invece di voler essere più giusti
di Dio». E questo specialmente se poi ciò coinvolge la metà del
cristianesimo (le donne), che deve portare tale «croce» in tutti i culti e in
tutte le stagioni dell’anno.
È proprio così che non costa tanto portare il velo oggigiorno? È la
tipica risposta del maschio, vero, che ne è esente? Inoltre, chi ci pensa alle
sorelle che portano in velo per tutto il culto in testa, nubili o sposate che
siano, mentre scivola di qua e di là, mentre il sudore d’estate cola loro dalla
testa alla schiena in sale spesso afose? E magari in quella chiesa non le fanno
nemmeno pregare. A ciò si aggiunga che il velo non fa più parte del normale
abbigliamento della donna in occidente, che diventa così solo un accessorio
cultuale; in altre culture esso viene messo al momento delle nozze (!) e
viene sempre portato come segno di distinzione sociale della maritata.
A parer mio, una sorella sposata deve avere tale segno di autorità in testa (se
non si vuole intendere la lunga chioma come velatura), solo quando è lei
stessa a pregare o «profetare»; quando non fa ciò, può stare anche senza
velo. Poi chi pensa di velarsi per tutto il culto, lo faccia. Così anche la
nubile che ritiene di farlo, lo faccia. Noi stiamo qui solo per cercare di
accertare la verità al riguardo, qualunque essa sia, quella verità che porta
libertà. Poi, statisticamente parlando, quella della velatura del capo non è una
dottrina, che sta ai primi posti nel «deposito della fede». Se ne
parliamo è per i motivi esposti dal lettore nell’articolo: esso è a volte una
causa di tale dissenso in alcune chiese, che viene usato come pretesto
per una scissione.
3. {Antonio Capasso} ▲
Caro fratello, pace. Se le cose stanno come dici tu, allora le donne
non sposate possono esercitare un
ministero di governo nella
chiesa. {2 agosto 2009}
4. {Nicola Martella} ▲
Devo ammettere che a volte mi meraviglio della capacità speculativa di
questo caro lettore e dei suoi sofismi. Perché mischiare qui pere con mele,
capre e cavoli? In 1 Corinzi 11 si tratta di pregare e proclamare,
non di condurre una chiesa. Bisogna attenersi strettamente a ciò che il
testo afferma veramente. Il governo della chiesa e il ministero di
insegnamento era precluso non solo alle donne in genere, ma anche
agli uomini, che non rispecchiavano le premesse di 1 Tm 3; Tt 1, di là dal loro
stato civile. Gli consiglio di leggere quindi in «Generi
e ruoli 2» gli articoli «Ministeri preclusi alle donne»
(pp. 83-102) e «Il ministero della nubile» (pp. 79-82).
5. {Antonio Capasso} ▲
Caro Nicola, non credo di fare dei sofismi, cerco di capire e di approfondire,
proprio perché non do niente per scontato. Io ho sempre pensato che le donne non
possono esercitare un ministero di governo, essendo l’uomo, il capo della
donna e quindi subordinata all’uomo. Se non è questo il motivo, allora quale?
Perché Paolo impone alle donne di non insegnare né di usare autorità
sull’uomo? Se le cose stanno così, devo concludere che in 1 Corinzi 11 si
parla di donne in generale e non di sole mogli. Dio ti benedica… P.S. Non ho il
tuo libro «Generi e ruoli». {4 agosto 2009}
6. {Nicola Martella} ▲
Per un autore è sempre un problema dover affrontare in breve ciò che ha
analizzato in un contesto più grande e doversi ripetere a «mozzichi e bocconi».
La cosa migliore è sempre che si legga prima «
Generi e ruoli», e poi si discuta nel merito.
In ogni modo, in 1 Corinzi 11 la questione della conduzione non era
contemplata. Il governo
famigliare era compito del marito. Il ministero di governo ecclesiale
era delegato soltanto a uomini, che rispecchiavano le prerogative morali
e spirituali (1 Tm 3; Tt 1); al riguardo non c’era una delega in bianco. L’uomo
era capo della sua donna e basta; nessun uomo avrebbe permesso che un
altro prendesse tale funzione in casa sua. La conduzione nella chiesa, essendo
solo una guida morale, non sostituiva tale funzione esclusiva del marito. Come
ho già mostrato in precedenza, molti problemi nascono dal fatto che in greco
aner non corrisponde allo spettro semantico del termine italiano «uomo»;
aner ha in italiano come corrispondenze sia «uomo (maschio)», sia «marito».
Per alcuni significati del termine italiano «uomo» il greco ha ánthrōpos
«essere umano».
In contesti, in cui compaiono i termini
aner e ghynè in combinazione, s’intende in genere sempre
marito e moglie. Nelle chiese del primo secolo, visto il clima culturale che
c’era, a nessuna donna sarebbe venuto in mente di condurre una comunità o di
insegnare in pubblico; quindi non era questo il problema, che l’apostolo Paolo
doveva affrontare. Dove parlò d’insegnamento in riferimento alla donna, ciò
riguardava gli equilibri matrimoniali nella comunità; qui lei poteva
sminuire l’autorità del marito, assediandolo di domande o d’osservazioni durante
il culto o ponendole a chi conduceva.
Per questo Paolo, dopo aver parlato dell’ordine ecclesiale della glossolalia (e
sua traduzione) e della profezia (e sua pubblica valutazione), disse ai Corinzi
quanto segue: «Come si fa in tutte le chiese dei santi, si tacciano le
donne nelle
assemblee, perché non è loro permesso di parlare, ma devono stare soggette,
come dice anche la legge. E se
vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro
uomini a casa; perché è cosa
indecorosa per una donna parlare in
assemblea» (1 Cor 14,34s). È chiaro che qui «donne e uomini» erano mogli e
mariti, a cui le prime dovevano stare soggette, come prescriveva la legge (sia
civile, sia religiosa).
Similmente Paolo dava le seguenti istruzioni a Timoteo: «La ghynè
impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla ghynè
d’insegnare, né d’usare autorità sull’aner, ma stia in silenzio» (1
Tm 2,11s); i versi seguenti parlano di Adamo ed Eva, la prima coppia. Qui la
Riveduta (vecchia e nuova)
traduce
aner con «marito»; così la vecchia Diodati. La traduzione della CEI ha
qui «uomo» per comprensibili motivi: il clero non è sposato. Nella Riveduta i
termini ebraici e greci «uomo e donna» (per persone sessualmente mature; sg. e
pl.) vengono tradotti 80 volte come «uomo e donna» (sempre distinti da bimbi,
fanciulli e giovani d’ambedue i sessi) e 49 volte come con «marito e moglie»,
quando i traduttori hanno visto un’attinenza matrimoniale fra di loro; come
abbiamo visto però i casi sono molti di più (p.es. 1 Cor 11). Nella Riveduta i
termini ebraici e greci «uomo» (maturo; sg. e pl.) viene tradotto in 162 versi
con «marito»; similmente «donna» ricorre in 441 (!) versi come «moglie».
Sarebbe ben ridicolo voler trarre una sottomissione di tutte le donne
credenti a tutti gli uomini credenti da brani come Efesini 5,22-28: «Donne,
siate soggette ai vostri uomini, come al Signore; poiché l’uomo è capo della
donna…
così devono anche le donne essere soggette ai loro uomini in ogni cosa.
Uomini, amate le vostre donne… Allo stesso modo anche gli uomini debbono amare
le loro donne, come i loro propri corpi. Chi ama la sua donna, ama se stesso».
Una tale interpretazione di questo testo nel senso che «uomini e donne»
intendesse «tutti e tutte» getterebbe un sospetto di istigazione velata alla
poligamia da parte di Paolo. In ogni modo, una tale androcrazia (dominio
dei maschi) generalizzata non era contemplata in quella cultura; nessun uomo
avrebbe permesso a un altro maschio di dettar legge sulla propria moglie,
neppure a un conduttore di chiesa, visto che la sua funzione era solo di natura
spirituale.
Ciò non è smentito neppure da 1
Pietro 5,5 — «Parimenti voi
più giovani, siate soggetti agli anziani»
— poiché qui Pietro riprese il discorso («parimenti») rivolto a tutti gli
anziani (quindi ai soli maschi): «Io esorto dunque gli anziani che sono fra
voi…» (v. 1). Pietro sembra che dicesse: Fra voi conduttori di chiesa quelli
più giovani siano sottoposti (hypotássomai) a quelli più anziani d’età;
poi però, per evitare fraintendimenti autoritari, addolcì la pillola così: «E
tutti rivestitevi d’umiltà gli uni verso gli altri».
7. {Sara Iadaresta Esposito} ▲
Io sono del parere che, sia che una chiesa approvi il velo o no, se le donne
fossero più sottomesse alle volontà della chiesa stessa, non ci sarebbero
tutti questi problemi. Cerco di spiegarmi meglio: penso che la questione del
velo non sia di tale importanza da far dividere chiese, ma se in una chiesa si
decide che le donne debbano avere il capo coperto, è giusto che le donne lo
facciano, senza pensare al fatto che con il velo si sciupa la pettinatura
(come delle volte ho sentito dire)! {19-09-2009}
8. {Gianni Siena} ▲
La velatura del capo femminile era un segno di «distinzione» onorevole:
presso greci ed ebrei nel 1° secolo. Questo «velo» è diventato (grazie alla
presenza di comunità islamiche) segno d’oppressione della donna.
Nella sezione dedicata (1 Cor 1,1-16) Paolo stabilisce un importante
principio di contegno nel culto, egli scrive circa la «donna che prega e
profetizza»: ancora oggi, in più d’una chiesa, l’obbligo del velo (chiamiamolo
così) vale per la durata del culto... «fine»! Dato che nel Nuovo Patto tutto il
popolo di Dio è profeta (Gioele 2,28-32), dunque, anche la donna vede
riconosciuto il suo diritto a pregare e ad esortare la comunità. Detto questo,
vorrei considerare la motivazione di questo dettame: «a causa degli angeli»
(v. 10). Non credo che questi angeli siano i «conduttori», bensì entità
angeliche. Gli angeli si sottopongono il mondo attuale (Eb 2,5), essi sono
spiriti servitori inviati a soccorrere i futuri redenti (Eb 1,14). Ma non sono
tutti così: occorre tenere conto del rovescio della medaglia. Eva cadde in
trasgressione, dopo essere stata tentata da un angelo (Gen 3,6), e l’uomo
intero fu colpito dalle conseguenze della maledizione. Va tenuto conto che la
donna fu colpita nella sua dimensione più intima (= femmina; ebraico:
ishshà la penetrata); vi sono entità angeliche che sovrintendono alle
interazioni sessuali? Non è da escludere. Il nostro corpo è ancora irredento e
una donna, suo malgrado, esercita un richiamo (= desiderio; Gen 3,16) su ogni
uomo: il velo era un segnale per identificare la donna sposata.
Il concetto di «nubile» esprime il senso di «avvolgibile in un velo»:
nell’antica Roma la ragazza che si fidanzava si vestiva con un velo lungo simile
a una nube. Oggi la stato civile della donna è indicato dall’anello
matrimoniale o di fidanzamento; mi sembra che l’apostolo dia quelle istruzioni
solo per ricordare alcune necessità comportamentali reciproche (parla anche
all’uomo).
Non parla di «gerarchia» e di sottomissione ad autorità tirannica da
parte della donna; dovrebbe valere l’atteggiamento avuto da Gesù per primo verso
le coeredi della medesima grazia. Abbiamo l’obbligo d’amare e rispettare le
donne, quando udiamo i censori, che gridano allo scandalo per l’eccessiva
libertà femminile, mandiamo costoro a rinfrescarsi le idee nelle pagine del
Vangelo.
Tuttavia, insieme al «velo» (= donna) e a una testa adeguatamente «rasata» (=
maschio), tenendo conto dei costumi locali, si dovrebbero sempre evitare
comportamenti e vestiti che possano richiamare l’interesse eccessivo
dell’altro sesso. È comico l’atteggiamento di certi uomini, che lanciano
occhiate di disapprovazione a chiunque guardi la loro donna... ma vestita in
modo da rendere inevitabile gli sguardi. Noi siamo cristiani e queste
provocazioni non ci appartengono, ben ha fatto l’apostolo Paolo a richiamare
questi doveri alla mente dei credenti di Corinto... sono per noi e per la nostra
edificazione. In quest’aspetto della natura siamo ancora come tutti gli altri
uomini e bisognosi di santificazione. Mi piace ricordare l’esperienza
d’un fratello, che fu interpellato da un altro credente: gli chiese di
accompagnare sua moglie a prelevare la figlia in uscita dall’ospedale, dato che
lui non poteva farlo. Nelle chiese succede anche questo e, grazie a Dio, per
queste testimonianze: Significa che possiamo vincere le nostre debolezze con
l’aiuti di Cristo e del suo Spirito. {22 settembre 2009}
9. {Nicola Martella} ▲
Come al solito, Gianni Siena mette molta altra carne al fuoco.
Avendo già scritto abbastanza su tale tema, tralascio d’intervenire su cose già
affrontate. Faccio solo riferimento ad alcune «pietre d’intoppo». Che nel NT
tutto il popolo di Dio sia «profeta» (= proclamatore), è giusto, ma
difficilmente si potrà dimostrarlo con Gioele 2,28-32, dove il profeta parla a
giudei di giudei (vostri / vostre, voi). Di questo ne abbiamo parlato altrove. [►
Confronto fra pentecostali, ex e non 1]
Quanto al termine anghelos, faccio notare che allora esso era
neutrale (come in ebraico male’ak) e dipendeva sempre dal
contesto se si intendeva un inviato terrestre o celeste. Che in Genesi 3 Satana
fosse, quindi, lì nella veste di un «angelo» (= un inviato) di Dio, è pura e
rischiosa congettura (cfr. Gv 8,44). Egli era un «essere celeste», ma non un
«angelo», né un serafino, né un cherubino. [Per l’approfondimento si veda Nicola
Martella, «esseri celesti»,
Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma
2002), pp. 157s.
Che esistano «entità angeliche che sovrintendono alle interazioni sessuali», è
pura congettura. Inoltre è rischioso suggerire che Genesi 3 abbia a che fare con
la sessualità; questa idea è tipica dello gnosticismo e bisogna assolutamente
separarsene. [Per l’approfondimento si veda in Nicola Martella, «Il ratto della
sessualità?»,Temi delle origini.
Le Origini 1 (Punto°A°Croce, Roma 2006), pp. 325-329.]
Che ’iššah «donna (nel senso di “uoma”)» intenda «la penetrata», è
pura costruzione, poiché è la forma maschile di ’iš «uomo». [Per
l’approfondimento si veda nel
Manuale Teologico dell’Antico Testamento, gli articoli «Donna», p. 149; «Uomo (essere umano)», pp. 373s.] Probabilmente si
è confuso con un termine in altra lingua.
10. {} ▲
11. {} ▲
12. {} ▲
►
La questione del velo (1 Corinzi 11,2-16) {Paolo Brancè - Nicola Martella} (T/A)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Velo_assolut_banal_S&A.htm
22-07-2009; Aggiornamento: 17-10-2012
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