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I contributi sul tema
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1.
{Nicola Martella} ▲
Un caro fratello, che giorni fa avevo incoraggiato per una situazione simile, mi
ha scritto: «In questi giorni mi sono sentito come uno che è stato colpito a
tradimento dai suoi migliori amici. Leonardo Sciascia disse: “Non ci sono che
maschere, non siamo che maschere”. Vale questo anche per i cristiani? […] Avevo
tante idee e progetti per la testa, adesso invece è completamente vuota. L’uomo
propone ma è Dio che dispone. Adesso devo stare attento alle porte che il
Signore lascia aperte».
Come si vede, per chi serve il Signore la delusione per
gli uomini e la fiducia nelle vie di Dio si trovano l’una accanto all’altra. A
questo fratello ho scritto quanto segue.
Il tuo sentimento di tradimento lo conosco molto bene, specialmente quando gli
argomenti sono piamente mimetizzati. Bisogna guardare al Signore e andare
avanti. Magari Sciascia parlava di maschere per esperienza personale, anche di
se stesso, ma non è tutta maschera e non tutti lo sono; esistono una «comunione
di Spirito» e una «tenerezza d’affetto» (Fil 2,1) che lui probabilmente non ha
mai sperimentato e non ha potuto comprendere.
Tu dici che avevi tante idee e progetti per la testa, mentre adesso invece è
completamente vuota? Ah, mio caro, come conosco fin troppo bene questo
sentimento. Basta una mosca per rovinare il miglior profumo! (Ec 10,1). Di
mosche «guasta piani» ne ho conosciute parecchie! I più pericolosi sono gli
«aggregati» (Nu 11,1ss), che non sono né carne e né pesce, sono anime o stelle
erranti, gusci vuoti e lumi spenti... (cfr. Gd 1,12s), ma abili a mettere il
bastone fra le ruote a coloro che vogliono servire Dio, a mettere in forse i
piani migliori e a catalizzare dietro a sé la gente nella lamentela (cfr. Nu 12;
16). Bisogna stare molto attenti a loro, poiché si presentano sotto maschere pie
e spiritualeggianti (cfr. Col 2,18s). Mosè ha conosciuto tale sentimento di
atterramento, causato da parte di quelli di fuori e di dentro (Maria e Aaronne;
Nu 12), poi fu il turno di Aaronne (Nu 16s). E così arriva il turno di tutti i
servi del Signore (cfr. Davide, Elia, Geremia). Possiamo solo confidare che Dio
è fedele. Nessuno degli aggregati e degli istigatori del tempo di Mosè superò il
tempo del deserto, ma i servi di Dio sì (Nu 26,65; 32,12). «Chi semina
iniquità miete sciagura» (Pr 22,8). «Non v’ingannate; non ci si può
beffare di Dio, poiché quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà»
(Gal 6,7).
2.
{Argentino
Quintavalle} ▲
È molto calzante l’esempio che il fratello
Nicola ha portato in riferimento alla protesta del popolo contro Mosè nel
deserto. I servitori di Dio di tutti i tempi hanno fatto un’esperienza analoga,
e forse più di una volta nella loro vita. Sembra che sia inevitabile che si
verifichino dei contrasti e delle incomprensioni tra conduttore e resto
dell’assemblea. I pretesti sono vari, ma spesso hanno una caratteristica in
comune, la materialità, magari travestita piamente
come detto da Nicola.
Come Israele, anche noi siamo nel
deserto di questo mondo e dobbiamo imparare a percorrerlo in lungo e in largo.
Dio provvede ai credenti del cibo spirituale tramite il sacrificio, lo studio,
il tempo, il costo anche economico, di altri credenti che dedicano la loro vita
a Dio; e questa è una cosa molto semplice, ma nello stesso tempo eccezionale.
Essi non devono far altro che raccogliere questa manna che Dio provvede per il
loro sostentamento.
Ad un certo momento, però, queste
persone, anzi una parte di esse, gli «aggregati», cominciano ad annoiarsi di
questo cibo invariabilmente uguale, cominciano quasi a disprezzare questo pane
che hanno ottenuto senza sudore. I loro pensieri vanno nostalgicamente al mondo,
a quel mondo in cui sono stati schiavi per molto tempo, ma che è pieno di luci
che attraggano l’attenzione come l’esca fa con il pesce. E quando un servo di
Dio mette in guardia, le lamentele aumentano, i mormorii anche, e allora non gli
resta che portare il peso, rivolgersi a Dio, chiedere ispirazione e aiuto.
Ma resta il fatto di questa massa
materialista ed egoista che per non voler fare un minimo di sacrificio,
dimentica in un momento tutti i benefici ricevuti da Dio. Allora il servo di Dio
sente quanto grande è ancora l’impreparazione di chi dice di credere in Dio, e
come Mosè, deve dire apertamente a costoro la loro grave colpa, quella di aver
disprezzato il Signore e di desiderare il ritorno in Egitto (nel mondo).
Otterranno quello che desiderano,
otterranno la carne invece della manna, soddisferanno il loro appetito, ma
troveranno nel soddisfacimento delle loro voglie il meritato castigo, saranno
vittime della propria avidità e voracità.
Quale grande insegnamento
nell’episodio delle lamentele del popolo nel deserto! Non vediamo in esso il più
chiaro segno di quella ingratitudine e di quell’atteggiamento ostile verso Dio e
verso i suoi servi che sarà purtroppo come la nota che ha accompagnato tutta la
storia d’Israele e della chiesa? Non vediamo l’incomprensione dei «credenti»
verso quei valori dello spirito a servire i quali erano stati chiamati?
C’è qui un po’ la storia e la
psicologia di molti che non sono né carne né pesce, di molti che misconoscono il
grande motivo della loro chiamata, di coloro che antepongono i propri appetiti,
i propri interessi, a tutti i valori ideali del cristianesimo. C’è qui la storia
dell’inadeguatezza di molti, di troppi «credenti», alla loro chiamata a essere
discepoli del Signore; c’è la storia dell’ingordigia, dell’ingratitudine, del
materialismo che prende il sopravvento e schiaccia le cose più alte e sublimi.
È questo il vero credente? O è
piuttosto come Simon mago, che corre il rischio di perire vittima delle proprie
colpe? Il vero credente è altrove, è sui pochi, è su coloro che sanno scegliere
il pane del povero con il sale della parola di Dio; è su coloro che sanno di
essere ricchi per ciò che danno; è su coloro che sanno provare le rinunce per le
conquiste dello spirito, perché sanno che un giorno, dopo aver attraversato il
deserto, avranno tutto.
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