Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Le diversità possono essere una risorsa oppure diventano un problema.

 

Ecco le parti principali:
■ Entriamo in tema (il problema)
■ Uniti nella verità
■ Le diversità quale risorsa
■ Le diversità e le divisioni
■ Aspetti connessi.

 

Il libro è adatto primariamente per conduttori di chiesa, per diaconi e per collaboratori attivi; si presta pure per il confronto fra leader e per la formazione dei collaboratori. È un libro utile per le «menti pensanti» che vogliano rinnovare la propria chiesa, mettendo a fuoco le cose essenziali dichiarate dal NT.

 

► Vedi al riguardo la recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CONDUTTORI DI CHIESA GRETTI D’ANIMO? PARLIAMONE

 

 a cura di Nicola Martella

 

Le prerogative per essere un conduttore di chiesa sono molto precise e «pesanti» (1 Tm 3; Tt 1). Certo si presuppone che egli abbia anche il «frutto dello Spirito» (Gal 5,22s) a monte di tutto ciò. Chi conosce le chiese italiane, sa che non sempre è così. Non sempre i conduttori hanno tutte le caratteristiche elencate dall’apostolo Paolo. Sul piano morale si nota, a volte, un alto tasso di commistione fra carne e spirito. Sul piano pratico non sempre hanno la saggezza richiesta, e spesso neppure la conoscenza biblica adeguata. A volte assomigliano più a degli addomesticatori che a degli allenatori; ossia sanno solo rimproverare, ammonire e comandare, invece di incoraggiare, animare e stimolare allo sviluppo.

     Nel primo contributo, Argentino Quintavalle, partendo dalla sua esperienza fatta in alcune chiese, ritiene che a ciò si aggiungano in certi conduttori anche una certa dose di altri elementi negativi, quali irriconoscenza, invidia e stoltezza. Sebbene non si possa e non si debba generalizzare ciò, che egli afferma, rappresenta una buona base di riflessione e discussione.

    Ricevo lettere di lettori, che parlano, con animi feriti e infelici, del modo come sono stati trattati dai loro insensibili conduttori. Nel loro sfogo mi danno, a volte, l’impressione che siano come quegli uccelli, a cui sono state tagliate le penne, per non permettere loro di volare; e ciò certamente ferisce e umilia chi vorrebbe volare alto.

 

     Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre esperienze, idee e opinioni?

Partecipate alla discussione inviando i vostri contributi al Webmaster (E-mail)

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I contributi sul tema

(I contributi rispecchiano le opinioni personali degli autori.

I contributi attivi hanno uno sfondo bianco)

 

1. A. Quintavalle

2. Nicola Berretta

3. Tonino Mele

4. Andrea Viel

5. Nicola Martella

6. Erik Benevolo

7.

8.

9.

10.

11.

12.

 

Clicca sul lemma desiderato per raggiungere la rubrica sottostante

 

 

1. {Argentino Quintavalle}

 

La «riconoscenza» è un sentimento d’affetto e di gratitudine per un bene ricevuto. La si vede soprattutto nelle cosiddette piccole cose della vita quotidiana. È un atteggiamento e si manifesta in tanti modi, dal «grazie», al saluto, alla «disponibilità», alla cortesia, eccetera.

     Essa dovrebbe sgorgare spontaneamente soprattutto nel contesto di chiesa. Chi non è riconoscente con i propri fratelli, difficilmente lo potrà essere con gli altri. S’impara a essere riconoscenti, fin da bambini. Riconoscenti in tanti modi, come il nostro cuore ci suggerisce. Ogni responsabile di chiesa dovrebbe dare l’esempio e insegnare questo nobile sentimento. Nell’orgoglio e nell’ipocrisia, però, esso sparisce. L’ipocrita, esteriormente, può far credere d’essere soddisfatto e forte, ma interiormente è povero, bisognoso, vulnerabile e sempre sull’orlo della miseria spirituale.

     Quando si scade nella mentalità dei «caporali», l’irriconoscente pensa che tutto gli è dovuto e dimentica il bene ricevuto. Ma la riconoscenza può scaturire solo da profonde riflessioni su quello che siamo e su ciò che gli altri sono per noi. Prendere coscienza che, da quando siamo nati, sono molte di più le cose che abbiamo ricevuto di quelle che abbiamo dato, è importantissimo; eppure per gli ipocriti l’indifferenza domina sovrana nella propria vita.

     L’invidia, l’orgoglio prevaricatore, l’arroganza e l’egoismo sono quasi sempre il frutto dell’ingratitudine, la quale a sua volta è indice di mancanza di fede, poiché solo la fede sa riconoscere i benefici ricevuti.

     A volte le chiese possono essere amministrate da persone dalle fattezze di clericali ipocriti, di addomesticatori, di tiranni o di «caporali», le cui mani s’occupano solo di loro stesse, spiriti dediti al predominio e all’arbitrio, privi d’ogni forma di comunione; laddove ciò accade, in quel momento la sacralità e la dignità del fratello vengono sacrificate sull’altare dell’ingratitudine. Il loro pane quotidiano è l’invidia, e nella Bibbia l’invidia è associata alla vendetta e alla malvagità. Giuseppe fu perseguitato dai fratelli perché «erano invidiosi di lui» (Gn 37,11). Gesù fu messo in croce «per invidia» (Mt 27,18).

     Ma gloria a Dio! È meglio non avere certe cose, vivendo con la coscienza a posto, piuttosto che possedere molto in una situazione di conflitto. È meglio essere felici, avendo meno, che essere miserabili, possedendo di più. La mancanza d’amore non paga: prima o poi l’iniquità del «caporale» gli tornerà addosso come un boomerang. Chi ha cercato di trarre vantaggio a scapito degli altri, non ne avrà alcun profitto; non è altro che vanità. Se nella chiesa non c’è amore, non c’è neanche Cristo.

     Dalla caduta primordiale in poi, il bene fu confuso con il male; allora l’uomo lotta per cercare di separare l’uno dall’altro e per distinguere tra saggezza e stupidità. Ahimè, ci sono chiese condotte da uomini che non sono in grado d’afferrare la saggezza. È per loro troppo sfuggente, rimane solo la stupidità. Eppure resto sorpreso perché a volte accade quello che non m’aspetto, una sorte iniqua: l’immeritato successo dello stolto. Ma il suo successo è destinato a diventare per lui una trappola.

     La cosa importante non è tanto ciò che si è riusciti a ottenere e per quali azioni verremo ricordati; ma sapere chi siamo veramente. «Chi bada al vento non seminerà; chi guarda alle nuvole non mieterà» (Ec 11,4). Chi non vuole essere generoso perché ha paura del vento, allora non seminerà né mieterà per via di quel timore ridicolo e anche pericoloso, perché può causare una carestia. La paura d’essere generosi con il fratello, come misura prudenziale per evitare una perdita, condurrà a perdere tutto.

     Purtroppo in queste cose chi ci guadagna è l’avversario (ebr. satan). Se siamo in 10, egli cerca di metterci magari cinque contro cinque; se siamo in 4, cerca di metterci due contro due; se siamo in 2, cerca di metterci uno contro uno; e se siamo in 1, cerca di far sì che la nostra condizione sia peggiore di quella che ci ha preceduta. C’è tristezza quando i conduttori non si rendono conto di questo.

 

 

2. {Nicola Berretta}

 

Nota redazionale: Visto che anche Nicola Berretta è attualmente un conduttore di chiesa, l’ho invitato a esprimere il suo punto di vista sulla questione. Dati i suoi impegni pressanti al momento, ha abbozzato alcune riflessioni e domande, rimandando un contributo più esauriente a un secondo momento. Le sue domande possono essere una buona base di discussione. Egli scrive quanto segue.

 

Caro Nicola, i punti espressi da Argentino fanno meditare sul compito estremamente delicato dei conduttori. Chi agisce nei modi espressi da Argentino certamente sta sbagliando. Il punto però è un altro: come deve comportarsi un credente che si trova in una chiesa condotta in quel modo? In che modo può sollecitare e aiutare i conduttori a migliorare il loro ministero? Come può fare questo senza cadere egli stesso nella carnalità, agendo senza amore e sottomissione? Deve per forza generare fratture nella chiesa e andarsene altrove, oppure anche isolarsi, pensando a se steso come all’«ultimo dei moicani», solo e incompreso, in un deserto spirituale di generale infedeltà al Signore?

     Dico questo perché, senza nulla togliere alle responsabilità dei conduttori, di cui dovranno rendere conto al loro Signore come servi infedeli (Luca 12,41-48), spesso anche chi subisce queste situazioni diviene responsabile di reazioni carnali e presuntuose, non dettate dall’amore fraterno. {05-06-2008}

 

 

3. {Tonino Mele}

 

Caro Nicola, prima d’entrare nel merito delle cose scritte da Argentino, devo rilevare l’originalità della sua tesi. È la prima volta che sento parlare d’ingratitudine dei conduttori di chiesa. Normalmente, l’ingratitudine, il malcontento, ecc. vengono addebitati ai membri di chiesa, i quali, per un motivo o per l’altro si pongono in una condizione conflittuale verso i conduttori. Anche se Argentino cerca di dare un connotato generale al suo scritto, non posso non pensare che le sue considerazioni nascono da qualche vicenda personale da lui vissuta. Ed è proprio l’originalità della sua tesi che mi fa ritenere questo. Del resto, anche tu sembri alludere a questo fatto, quando dici nell’introduzione che egli «parte dalla sua esperienza fatta in alcune chiese».

     Personalmente ritengo che esiste certamente, in vari casi, un problema legato al modo in cui viene gestito l’incarico della conduzione d’una chiesa, tuttavia esiste anche una percezione del problema, che può essere dettata non da un’analisi oggettiva della situazione, ma da considerazioni molto soggettive, di persone che sono parte in causa. Nicola Berretta ha fatto bene iniziando a registrare l’altra faccia della medaglia e credo che un tema di questo tipo vada affrontato in questo modo, rilevando le ragioni d’entrambe le parti «in conflitto». L’analisi del problema va depurata da tutte le distorsioni che genera una percezione soggettiva e pregiudiziale per giungere a identificare l’essenza reale del problema stesso. Anche in questo caso esiste una causa più grande di quella delle «parti in causa», che è quella dell’accertamento della verità, che prelude al buon andamento delle nostre chiese e all’avanzamento del regno di Dio..

     Nel Nuovo Testamento possiamo trovare esortazioni rivolte sia agli anziani di chiesa (1 Pt 5,2-3), che ai semplici membri di chiesa (Eb 13,17). Allo stesso modo, si trovano esortazioni rivolte sia ai mariti che alle mogli, sia ai genitori che ai figli, sia ai padroni che ai servi; ed è necessario che in tutte queste situazioni di «naturale conflitto», ognuno, svolga al meglio il proprio ruolo, anche se si trova nel mezzo d’un problema reale o percepito. Ed è interessante che in alcune situazioni deprecabili come il marito insubordinato alla Parola (1 Pt 3,1) o il padrone «difficile» (1 Pt 2,18), l’esortazione del Nuovo Testamento è quella di continuare a svolgere il proprio dovere, come «dinanzi a Dio» (v. 19). Questo concetto non nasce da una sorta di stoicismo o di rassegnazione, ma dalla forte consapevolezza che Dio è sovrano e al controllo d’ogni situazione, e ognuno di noi dovrà rendere conto a Lui. Una certa parte dei salmi sono nati da una situazione in cui il salmista [Davide, N.d.R.] era letteralmente perseguitato dall’unto del Signore «in carica», il re d’Israele [Saul, N.d.R.]; ed è per questo che, colui che limitava sé stesso e i suoi soldati dal «mettere le mani addosso… all’unto dell’Eterno» (1 Sm 26,9-11, affidava i suoi sentimenti feriti e la sua sofferenza ingiusta a queste composizioni, così preziose anche per noi oggi. Certamente, questi sono casi estremi, che registrano anche reazioni estreme (cfr. i cosiddetti «salmi d’imprecazione»), ma fanno meditare.

     Dalla mia esperienza posso dire che in passato sono stato una delle «parti in causa», e da un po’ di tempo mi trovo per lo più nella parte opposta: è dunque molto probabile che gli «errori» che ho visto ieri, sono quelli che faccio io oggi o farò domani. Bisogna però riconoscere che chi sta in «prima linea» e di per sé, «davanti a tutti», e quindi più esposto alle critiche, tanto più se, come talvolta succede, devi «mettere mano» nella vita altrui. Non dimentichiamo poi che siamo tutti figli dell’individualismo e della privatezza del nostro tempo, e questo non fa che acuire la conflittualità in oggetto. Insomma, non esiste solo una «mentalità da caporali», ma anche una «mentalità da ammutinati», dove, la chiesa finisce troppo spesso per essere il Bounty [leggendaria nave, in cui avvenne il famoso ammutinamento, N.d.R.].

     Ma non voglio fare una nuova associazione di categoria, la «Conf-Anziani» contrapposta al «sindacato dei membri di chiesa». Vorrei piuttosto ricordare una frase molto enigmatica, che Argentino usa nel suo scritto e che, mi pare, scopra il punto nodale della questione e aiuta a capire meglio situazioni di questo tipo. La frase è la seguente: «La paura d’essere generosi con il fratello, come misura prudenziale per evitare una perdita, condurrà a perdere tutto». Questa frase mi pare enigmatica, perché sembra rimandare a una situazione precisa, di cui sarebbe interessante capire meglio di quale tipo di «generosità» e di quale «perdita» si sta parlando. Per quel che ne so io, posso dire che spesso, i comportamenti deprecabili della conduzione, non derivano affatto da una sorta di «inebriamento del potere», ma esattamente dalla «paura», da una «prudenza» malamente intesa, che rende lo stesso conduttore una persona quasi diversa da quello che era prima o che è normalmente, al di fuori dell’«esercizio del suo potere». Così, ha ragione Argentino nel parlare di «misura prudenziale per evitare una perdita». Se di «grettezza» si vuol parlare e di mancanza del «frutto dello Spirito», credo che si debba partire da qui. E ho la vaga impressione che il tutto sia legato a una certa «sacralizzazione» dell’anzianato, che gonfia perversamente questo senso di «perdita», generando poi i comportamenti deprecabili in oggetto. E questo vale, di rimando, anche per le reazioni scomposte dei membri di chiesa. Di questo però se ne può riparlare. {12-06-2008}

 

 

4. {Andrea Viel}

 

Caro fratello, mi permetto d’esporre il mio pensiero relativamente ai gretti d’animo. Il tuo commento introduttivo e l’analisi spietata di Quintavalle (che dire... la stragrande realtà in effetti) portano a considerazioni direi globali.

     In effetti i conduttori gretti hanno avuto giocoforza un passato di pecorelle del Signore, quindi il loro modo di fare non è un atteggiamento improvvisamente acquisito insieme con la carica (la chiamata? chissà chi li ha chiamati se sono così...), ma è stato sviluppato nel tempo, consolidato a volte in una scuola biblica che ha rafforzato la presunzione, evidenziato alfine nella cura d’una comunità.

     Questo per dire che è troppo facile parlare di conduttori grezzi.

     Parlerei di conversioni insincere, di cammino di fede senza fede, d’apparenza cristiana ma pratica pagana, di santità strillata ma indecenza segreta, di conoscenza scritturale presuntuosa mancante di misericordia, di giudizio che non comincia da se stessi.

     Condotti così nel tempo, confusi nella incerta pratica cristiana dei più, ci vuole poco a trovare l’occasione di separarsi, di giudicare, di derubare, di parlare contro, di «io farei meglio».

     Il problema più grande di chi balza al comando, è che non sa che le capacità positive vengono sfidate, ma le realtà negative e tenute segrete vengono irresistibilmente messe in evidenza senza ritegno.

     Molti dei conduttori di chiesa, non hanno avuto la pazienza di fare il vice per almeno un paio d’anni accanto al conduttore, anche se non erano completamente d’accordo con lui. Non hanno imparato ubbidienza, come potranno riceverla nell’esercizio della conduzione?

     Non ricevendola, non portano frutto, e la cosa naturale è dare colpa a loro, le disgraziate pecorelle che hanno avuto la sfortuna di seguire un pastore che non è pastore ma che deve convincere tutti che lui è il miglior pastore.

     Beh, non voglio spingere troppo. È facile parlare male.

     Io non mi farei molte domande sui conduttori grezzi, ma sul livello d’appartenenza al regno di Dio di coloro che così tanto facilmente si nominano del nome di Cristo, quello sì.

     Scusate se sposto il tiro. Ma una conversione sincera, porta a un cambio di vita convinto. Magari non avviene tutto in una notte, e neanche dopo cento notti, ma il cammino va chiaramente in una direzione sicura, fatta di decisioni sofferte e sincere, evidenziando che sono fonti da cui non esce acqua dolce e acqua amara, non si chiamano peri e danno mele.

     Credenti così sono un esempio e una calamita, attirano simili che s’identificano nelle lotte e nelle vittorie, formano comunità che crescono nell’amore, nella fede e nel mutuo soccorso. Il momento che s’evidenzia una chiamata, vi è l’aiuto comune per la riproduzione, non il dolore della divisione.

     Forse i conduttori cristiani dovrebbero fare sincera autocritica, e domandarsi perché non si cresce per poter andare e proclamare la buona notizia in tutto il mondo, e perché il messaggio che le loro chiese danno, non è così desiderabile da un mondo assetato e affamato di giustizia.

     Di sicuro Dio non è in crisi. Il cristianesimo come è concepito a tutt’oggi, per me, sì. Molte parole, spesso gridate, dichiarazioni e profezie che non hanno seguito, poche azioni di riferimento, pochi incoraggiamenti a seguire il Signore essendone un esempio.

     Esci per un momento dalla nuvola evangelica e dei conduttori grezzi o meno, e t’accorgi che nessuno sa né della realtà evangelica, né dei grezzi. Né dei buoni. Meglio così, dopo tutto. Shabbat Shalom. {11-07-2008}

 

Per la lenta involuzione giudaizzante, avvenuta in Andrea Viel, e per la sua successiva conversione al giudaismo storico, rimandiamo ai seguenti articoli (si vedano anche i temi connessi): ► Andrea Viel ha rigettato Gesù quale Messia; ► Dalla luce di Cristo alle tenebre del giudaismo; ► Falsi maestri fra i giudeo-messianici odierni.

 

 

5. {Nicola Martella}

 

Mi permetto di fare solo qualche osservazione a quanto detto sopra da Andrea.

     Quanto all’espressione «atteggiamento… consolidato a volte in una scuola biblica che ha rafforzato la presunzione», faccio presente — come uno che ha insegnato in una scuola biblica per più di due decenni e ora riceve continuamente posta per il sito — che la presunzione maggiore che ho trovato è tra coloro che hanno una conoscenza superficiale della Bibbia e ne fanno sfoggio in pubblico, dal pulpito e in rete, supportando il tutto con spiritualizzazioni arbitrarie, allegorismi tirati dai capelli e versettologie indebite varie. L’arroganza del saccente è altra cosa ed essa si trova tra ex-studenti di una scuola biblica e non.

     Quanto alla lista da te fatta e che contiene delle verità, non si può generalizzare, ad esempio quanto alle «conversioni insincere»; ciò premetterebbe la capacità di guardare nei cuori delle persone, facoltà che non possediamo. Il problema è perlopiù morale; infatti i credenti evangelici italiani hanno una dottrina della salvezza biblica, ma in genere una moralità poco evangelica, ma legata alla religiosità e alla morale dominanti (p.es. doppia moralità). [► Il fine giustifica i mezzi?; ► L’astuzia e la morale; ► La morale dei cristiani; ► La pratica della giustizia] Questo è il risultato di vari fattori storici e teologici, ad esempio: la mancata Riforma protestante in Italia, l’Evangelo a poco prezzo (la colpa è di chi lo offre!) e la «teologia dell’esperienza» (si mette molta enfasi sui carismi dello Spirito e poca sul frutto dello Spirito), oltre alla fede quale spettacolo d’intrattenimento (un fenomeno in espansione).

     Il contributo è degno di riflessione e moltissime delle cose sono condivisibili. Il finale «meglio così, dopo tutto» mostra una rassegnazione. Io personalmente ho conosciuto tanti uomini di Dio che hanno faticato (o faticano) nell’opera del Signore e sono stati (o sono) un esempio per gli altri. Diversi di loro hanno lasciato una traccia di grazia nella mia vita col loro esempio e la loro abnegazione. Sono anche grato a coloro che mi hanno «recuperato» in tempi di sbandamento, nella mia gioventù, e si sono sinceramente interessati di me e del mio benessere morale; anch'io cerco di fare altrettanto con gli altri. Altri mi hanno solo turbato con i loro pregiudizi, con la loro falsa autorità, con la loro finta spiritualità, con il loro abuso di potere, con i loro processi sommari e con il loro cattivo esempio; questi ultimi hanno lasciato solo cicatrici doloranti.

     Anche in questo tema si può vedere il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno; è meglio guardare alla grazia di Dio. Egli non ci ha buttato via con tutta l’acqua sporca. Egli ha scritto dritto sulle riga storte della nostra vita. Egli ci chiama ora a essere noi di esempio e di modello: «Sii d’esempio ai credenti, nel parlare, nella condotta, nell’amore, nella fede, nella castità» (1 Tm 4,12).

 

Nota esplicativa: Andrea Viel ha puntualizzato quanto segue: «Grazie per le tue puntualizzazioni. Condivido le precisazioni, anch'io non sarei arrivato sin qui se, oltre alla grazia posta su me e che non è stata vana, lungo la strada non avessi trovato operai del Signore, persone che hanno pregato per me oltre a quello che si vedeva con gli occhi, insegnanti che hanno tagliato rettamente la Parola di Dio. Forse di questo si sente la mancanza, forse per questo mi veniva spontaneo dire alla fine "meglio così". Ma onore a chi si affatica nell'opera del Signore». {12-07-2008}

 

 

6. {Erik Benevolo}

 

Credo che non esista al mondo alcuno in grado di realizzare in se stesso il ventaglio di caratteri dell’anziano secondo il modello biblico di 1 Tim 3 e Tito 1. Se un tale individuo ci fosse, mi piacerebbe stargli accanto... ma forse questo accadde solo ai 12 discepoli.

     Quindi, che fare? L’uno è accogliente e onesto, ma iracondo; l’altro, pacifico e serio, ma pigro ed egocentrico; l’altro ancora, fermo nella dottrina e atto a insegnare, ma incapace d’ascoltare gli altri... che fare? Secondo me la soluzione non è né di scavalcare il modello, né di rassegnarsi all’ineluttabile rovina.

     Esiste una terza via. Se ogni anziano riconoscesse i suoi limiti, le sue carenze, il suo peccato abituale; se ne fosse cosciente, e fosse cosciente pure del fatto che gli altri ne hanno coscienza; se l’ammettesse, come per far ammenda fin dall’inizio al prossimo peccato che commetterà suo malgrado... e se su quel punto lì si lasciasse guidare dal Signore, e dagli altri, e consigliare anche da qualsiasi membro della chiesa (perché non è su quel punto lì che la sua autorità è riconosciuta), l’anzianato diverrebbe possibile.

     Se ogni anziano si mettesse da parte nell’aspetto in cui il suo proprio difetto gli impedisce di capire o d’agire liberamente, e lasciasse che un altro lo facesse al posto suo e gliene fosse per giunta riconoscente, tale suo difetto sparirebbe agli occhi degli altri. Il problema nostro non è la presenza di difetti, ma la mancanza d’umiltà.

     Nella chiesa dei fratelli in cui mi trovo, abbiamo scelto di fare un’esperienza. L’anzianato s’era dimesso a causa di vecchi problemi interni, in seguito ai quali una nuova equipe fu creata, diretta per tre anni da una persona a tempo pieno che aveva già dato prova di concretezza spirituale. Al termine di questa fase di rilancio, il suo ruolo di responsabile fu soppresso e sette nomi di fratelli affidabili furono selezionati per un nuovo anzianato (secondo il principio «sia prima messo alla prova, poi serva»). Durante i tre anni di rilancio avevamo costruito insieme una relazione onesta e aperta, perché fin dall’inizio avevamo tutti insieme sottoscritto un «patto di lealtà» che c’impegnava a non accogliere né maldicenze né sospetti reciproci, ma al contrario a cogliere in ogni maldicenza eventuale l’occasione d’approfondire l’argomento con i diretti interessati, e subito, col fine di mettere parole che impedissero ai silenzi di riempirsi d’imbarazzo e di carnalità.

     Venne il giorno in cui l’anzianato fu costituito: ma prima si presentarsi alla chiesa, noi sette ci riunimmo insieme nella casa di campagna d’uno di noi, con le rispettive mogli. Ognuno aveva sette fogli identici: si trattava d’un questionario con una ventina di punti, espressi sotto forma di caratteri morali o spirituali da valutare su una scala da 1 a 5 (lo zero era stato omesso per delicatezza). Ogni foglio aveva un nome, quindi ognuno doveva «pesare» ciascuno degli altri, soggettivamente, senza favoritismi né colpevolezze inutili, sapendo che gli altri avrebbero fatto la stessa cosa con lui. I parametri erano tratti dalle liste di 1 Tim 3 e Tito 1, più alcuni punti importanti come la capacità di portar la pace in un conflitto, o l’attitudine all’ascolto, o il grado di realismo dell’interessato (c’è gente talmente spirituale che non ha già più i piedi in terra...), eccetera. Venti punti da ponderare.

     Ognuno, per più di un’ora, solo col Signore, valutò gli altri — e se stesso, conscio del fatto che gli altri facevano la stessa cosa con lui... e legati dal patto che ci costringeva alla verità nell’amore e all’amore nella verità. La valutazione altrui sarebbe stato «il giudizio» espresso su di lui; l’auto-valutazione sarebbe stata il grado d’autocritica di cui ognuno si sarebbe visto capace o no; e tutto ciò, in piena luce, a causa della fiducia che ci dava il fatto d’agire all’interno d’un patto di lealtà. Una volta finito, ognuno distribuì agli altri la valutazione che lo concerneva e ricevette la sua dalle mani degli altri, poi ciascuno di noi s’isolò di nuovo per riflettere. Certo fece a volte un po’ male, ma fu un gran bene.

     Finita la presa di coscienza, il passo successivo fu di valutare «la pagella» insieme alla propria moglie (le quali erano edotte già a evitare frasi come «te l’ho sempre detto, ma ascolti solo se te lo dicono gli altri...»), poi di pregare insieme per confessare, e supplicare, e consacrarsi di nuovo nella piena luce del Signore.

     Infine ci ritrovammo tutti insieme, noi sette più le mogli di quelli sposati (uno era celibe, ora non più), e condividemmo l’esperienza e la presa di coscienza ricevuta. Fu un momento bellissimo, di cui ognuno di noi serba memoria malgrado gli anni già trascorsi da allora. Riconoscemmo reciprocamente le nostre debolezze; chiedemmo aiuto laddove i nostri difetti erano emersi; e accettammo di metterci da parte quando un altro avrebbe avuto più facilità a effettuare un compito corrispondente a una qualità che ci mancava.

     Da allora l’anzianato avanza, e senza ombre malgrado le difficoltà della vita di chiesa. I consigli di chiesa sono incontri lieti e utili, perché la paura fu esorcizzata fin dall’inizio. Nessuno s’aspetta dagli altri una performance senza errori, perché ci siamo proclamati umani fin dall’inizio, e l’abbiamo proclamato alla chiesa, ciascuno per se stesso, il giorno del riconoscimento degli incarichi.

     Sì, perché quel giorno, quando la chiesa riconobbe i sette come anziani (da noi si fa per alzata di mano), ciascuno dichiarò le proprie carenze chiedendo le preghiere di tutti affinché Dio manifestasse una volta di più la sua potenza e la sua saggezza nella nostra debolezza e mancanza di conoscenza. Ciascuno ammise di non saper tutto né di poter tutto, e d’aver bisogno invece di grazia e comprensione. «Chi di noi è sufficiente a queste cose?».

     Da allora, Dio benedice. Abbiamo dovuto operare decisioni anche dolorose, a volte, ma il fatto d’arrivare a scelte unanimi senza dover scendere a compromessi, ha garantito un clima di libertà nella disciplina del discepolo, che Dio ha onorato con la sua grazia.

     Era solo una testimonianza... ma anche se nessuno li conosce (abito in Francia), tengo a dire che io sono fiero dei miei fratelli, anziani con me e pure amici concreti e sinceri. E ringrazio il Signore d’averci aperto una via semplice per vivere in quanto chiesa, a condizione d’accettare il rischio d’amare... e d’amare in verità. Con sincero affetto… {22-07-2008}

 

 

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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Grettezza_conduttori_UnV.htm

29-05-2008; Aggiornamento: 03-07-2010

 

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