Il tema
Una moglie cristiana delusa (1)
ha innescato un dibattito
acceso e interessante, che è proseguito in raccolte successive. Vari temi
si sono intrecciati insieme. Uno riguarda
L’esercizio dell’autorità del marito nella coppia, un altro quello della
Contingenza storica e autorità biblica. L'intervento di
Matteo Ricciotti ha indotto una lettrice (G.G.) a prendere
posizione. Così facendo, ha introdotto un nuovo tema, in cui presenta la sua
esperienza e la tesi, secondo cui la separazione e il divorzio possano essere
l’estremo rimedio per uscire da una situazione incancrenita, poiché il coniuge
ha frustrato ogni possibilità di chiarirsi e comprendersi.
Sarà mai possibile un confronto sereno su un tema così scottante?
Facciamo un tentativo. Rimandiamo qui alle
Norme di fair-play.
Per l’approfondimento della tematica,
consiglio di leggere nel mio libro
Tenerezza e fedeltà,
(Punto°A°Croce, Roma 1998), l'articolo «Divorzio e seconde
nozze», pp. 138-151; a ciò si aggiungano gli articoli connessi sul matrimonio. |
Essendomi già espresso qui, do dapprima
la parola ai lettori.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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I contributi sul
tema
▲
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sottostante
1. {G.
G.} ▲
Ho letto i vari contributi, di cui uno in
particolare, oltre al caso di una
specifica
donna credente
(ndr: Irene). Ciò mi spinge a scrivere qualche commento e a ribadire alcune cose
dette da me
altrove in questo sito.
La cosa peggiore da fare in casi come questo, è
generalizzare, ascrivere il tutto a questo o quel motivo, incasellare il caso
umano singolo in una statistica sterile, giudicare e condannare senza sapere. La
sofferenza non va
mai minimizzata, ridicolizzata, bollata. Ci sono tante persone che hanno un
matrimonio infelice, e questo è un fatto, non un problema di depressione,
isterismo, e cose simili.
Ho avuto un matrimonio molto infelice, sono stata
tradita e delusa per molti anni nei valori e negli affetti più intimi. Ho
sposato mio marito (che tra l’altro si dichiarava cristiano e convertito) perché
lo amavo, e tutto ciò che ho ricevuto in cambio è stato sofferenza,
disillusione, tradimento (adulterio), critiche, insulti, eccetera.
Ho atteso per anni, pregando, che le cose cambiassero,
ma ciò non è avvenuto. Mio marito ha sempre rifiutato di riconoscere i propri
errori e di pentirsi, attribuendo a me la responsabilità dei suoi peccati. Le
varie consulenze spirituali erano tutte più o meno sullo stile di uno dei
contributi, volte a farmi sentire in colpa e senza nessuna compassione.
Alla fine ho preso l’unica decisione possibile nel mio
caso: il divorzio. Non è un’esperienza che auguro a nessuno, ma in molti casi è
il male minore. Esorto chiunque a non
giudicare i casi come quello di quella donna credente, il mio e tanti altri. Non
si possono comprendere certe cose, se non le si è vissute direttamente. Mi ha
aiutato tantissimo un caro fratello e un libro: Ralph E. Woodrow, Divorziare
e risposarsi alla luce della Parola di Dio (Centro Cristiano Evangelico,
Trento).
Alla luce della mia esperienza, che cosa voglio
comunicare a Irene quanto segue.
■ 1) Non aspettarti che le cose cambino da sé. Non
succederà. Dio cambia solo chi lo invoca ardentemente per il cambiamento, e non
mi sembra il caso di tuo marito. Nei casi estremi, non resta che il divorzio.
■ 2) Al posto tuo proverei, come ultima possibilità, un
periodo di separazione, se non trovi altre vie d’uscita (io credo sempre nel
parlare e nel chiarirsi, ma tuo marito e i tuoi suoceri mi ricordano i miei ex
familiari: zero disponibilità alla comunicazione). Non credere a quelli che
dicono che il «divorzio non è biblico» e che «i cristiani non divorziano» (tra
l’altro non mi sembra che tuo marito sia cristiano, da ciò che comprendo).
■ 3) Anche il cambio di chiesa, come suggerito da una
donna credente, può aiutarti. Una chiesa legalista non ammetterà mai i tuoi
problemi, ma ti dirà che sei tu
il problema (come è avvenuto nel mio caso). Cercati una chiesa che abbia
compassione.
2.
{Matteo Ricciotti} ▲
Concordo con Aymon De Tigliettem. Sì, lo spirito di Jezebel ha invaso la chiesa
attraverso la democrazia e il femminismo. L’esperienza personale di G.G. è
l’esperienza di altre donne deluse. È una dura esperienza e lungi da me il
mettere in dubbio queste difficili, se non impossibili, situazioni e il non
avere compassione per questi casi umani, come può sembrare. Sono sposato da 22
anni, ho una figlia di 21 anni, una di 18 e un maschietto di 14 anni. In 22 anni
di matrimonio si attraversano diverse situazioni, anche molto difficili…
In un caso come quello di G.G., che devo dire non è
l’unico che io e mia moglie abbiamo sentito in questi 22 anni di vita insieme
(ne abbiamo sentiti diversi e dello stesso tenore), il Signore Gesù stesso
prevede la separazione e il divorzio, ma è a mio avviso l’unico caso o l’unica
situazione di ammissibilità. Bisogna però considerare che una cosa è la
separazione o il divorzio, ammissibile solo in caso di tradimento, un’altra cosa
sono le nuove nozze, essendo il coniuge ancora vivente. Io sono convinto dalla
Parola di Dio che il divorzio non scioglie il vincolo del matrimonio. Ci si
separa fisicamente, ma l’incatenamento l’uno all’altro rimane. Come dice la
Scrittura, solo la morte scioglie questo incatenamento (vincolo). Uso il termine
incatenamento, perché l’apostolo Paolo lo usa sia quando parla del vincolo
matrimoniale sia quando si riferisce a se stesso quando dice di essere in
catene per Cristo. Marito e moglie sono in catene l’uno con l’altro e solo
la morte spezza queste catene.
Purtroppo quando si affronta questo argomento, che è
diventato una vera piaga per la chiesa, le ragioni e le necessità umane
prevalgono sulla volontà di Dio e sulla sua Parola. È quello che noto anche in
alcuni interventi delle sorelle deluse. Tra i vari interventi ci sono anche
quelli incoraggianti di sorelle che testimoniano di una vita matrimoniale
serena. Credo che l’approccio con la Parola di Dio e l’ubbidienza incondizionata
al Signore stia alla base di questa serenità, da ambo le parti.
Il problema sollevato da Aymon è, secondo me, centrale.
Diverse chiese sono prive di guide spirituali (sento già il coro: non giudicare)
nel senso biblico del termine, cioè secondo Geremia 3,15: pastori secondo il
cuore di Dio. Lo spirito democratico ha preso il sopravvento e
l’insegnamento è rivolto a temi che la maggioranza vuole sentire per conservare
il consenso.
Desidererei che le sorelle deluse esprimessero i loro
sentimenti fondandoli sulla Parola di Dio e non solo sulle necessità umane. È
vero che si può correre il rischio (come fa notare la redazione) di cadere nella
versettologia o nell’eisegesi, ma se accade lo si fa notare. Credo che
quando la priorità è data alle necessità umane e non alla Parola di Dio, i
problemi si moltiplicano.
Sono convinto come Aymon che non resta altro che
l’intervento del Signore, perché se la chiesa è stata devastata dallo spirito
che opera al presente negli uomini ribelli, che non sopportano la sana dottrina
e si scelgono maestri secondo le proprie voglie, e si sta amalgamando al mondo,
dimenticando che è la sposa di Cristo, il tempio di Dio, e le porte dell’Ades
non la potranno vincere. Sarà Lui, il Signore Gesù, che farà pulizia di tutto il
male che noi uomini abbiamo seminato nella sua sposa che deve comparire davanti
a Lui senza rughe, senza macchia, immacolata.
Dice Aymon: «Egli (il Signore) lascia che gli uomini si
perdano nella loro decadenza». Bene, questo è proprio la conclusione delle fasi
della decadenza spirituale e morale degli uomini descritta in Romani 1,18-31.
Il problema vero non è la sottomissione (bisognerebbe
capirlo bene questo termine, nel senso biblico non nell’ottica femminista),
perché il marito che pretende la sottomissione della moglie è fuori strada; il
problema vero è l’attacco che il maligno ha sferrato alla sposa di Cristo,
iniettando attraverso i suoi spiriti della malvagità il degrado spirituale e
morale che sta attraversando la società, nella quale dovremmo risplendere e
proclamare le virtù di Colui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua
meravigliosa luce.
Non resta che pregare intensamente affinché la sposa di
Cristo sia liberata da questo degrado attraverso un potente intervento dello
Spirito Santo.
3.
{Nicola Martella} ▲
Nota redazionale: Dopo aver letto i precedenti contributi, riporto qui di
seguito alcune domande critiche per stimolare il confronto in modo costruttivo.
■ Il cosiddetto spirito di «Jezabel», ricorrente solo
in Ap 2,20, si può applicare veramente in senso esegetico a «democrazia e
femminismo» oppure bisogna circoscriverlo al tentativo di seduzione dei
servitori di Cristo da parte di un falso sistema religioso «perché commettano
fornicazione e mangino cose sacrificate agli idoli»? Fino a che punto i
termini e le asserzioni, una volta decontestualizzati, devono essere pressati o
allungati per descrivere altro?
■ Matteo Ricciotti ammette il Signore Gesù stesso
prevedeva la separazione e il divorzio, accettabile solo in caso di tradimento.
Il testo biblico parlava veramente di «tradimento»? (che fine facevano allora
gli adulteri?). Come in Dt 24 si parla di una
«nudità di una parola / cosa», espressione tradotta impropriamente con
«fornicazione». Matteo Ricciotti ammette la separazione ma non le nuove nozze.
Se il divorzio non scioglie il vincolo del matrimonio, qual era la prassi dei
Giudei (cristiani e non) al tempo di Gesù e della prima chiesa?
■ Il principio generale «finché morte non vi separi»,
non conosce alcuna eccezione?
■ Il termine «incatenamento» ricorre veramente
nel NT in riferimento al matrimonio? Consultando una concordanza greca, si
evince che il termine symploké
«incatenamento» non ricorre mai, né il rispettivo verbo
symplekein. L’unico sostantivo simile che ricorre (non il verbo), è
syndesmos «legame» (At 8,23 di iniquità; Col 2,19 [giunture e] legamenti;
3,14 vincolo [della perfezione]), ma non è mai usato per il matrimonio. Il
termine ricorrente e più blando e generico era invece
dein «legare», il derivato sostantivo désis «il legare, il legame, il
vincolo» non compare nel NT, ma
désmios «legato, carcerato (non ancora condannato), schiavo» e desmòs
«legame, vincolo, corda, carcere», eccetera. Vengono mai usati tali termini per
il matrimonio? Se sì, che cosa si intendeva veramente esprimere?
■ In 1 Cor 7,15 ricorrono i verbi chōrizesthō
(imp. pass) «si separi!» e ou dedoulōsthai (negazione + perf. pass.) «non
è legato in modo schiavistico [al coniuge non credente]». Che cosa significava
questa formulazione (probabilmente giuridica) a quel tempo? Una volta accertata
la fine di un patto matrimoniale per volontà dell’altro coniuge (il non credente
ne avrebbe iniziato subito un altro) o a causa di un atteggiamento o di una
condotta di fornicazione, la prassi (statale, ecclesiale) di allora permetteva
di iniziarne un altro? Qual era, ad esempio, la prassi del giudaismo storico, da
cui è nato la prima chiesa?
■ Dinanzi alla constatazione che «le ragioni e le
necessità umane prevalgono sulla volontà di Dio e sulla sua Parola», bisogna
appurare quanto segue: Che cosa asserisce
veramente la Parola di Dio nel contesto storico, letterario e teologico
originario? Quanto delle cose, che riteniamo «bibliche», è invece retaggio del
manicheismo medioevale e della morale dell’Ottocento «biblicamente»
interpretati? Come arrivare a un’esegesi chiara e precisa, senza partire a
priori da una sovrastruttura ideologica e dottrinale di qualche tipo?
■ Come si può arrivare all’obiettivo che tutte le parti
in causa, aventi posizione diverse, esprimano «i loro sentimenti fondandoli
sulla Parola di Dio e non solo sulle necessità umane» o su una concezione
ideologica aprioristica, qualunque essa sia? Quanto non aiutano i soli proclami
e il mero sdegno sulla posizione di altri a non mettere a nudo l’intera verità
sulla questione, invece di praticare una chiara e netta esegesi?
■ Di là dalle convinzioni che si nutrono, la «decadenza
spirituale e morale degli uomini descritta in Romani 1,18-31» e il «degrado», di
cui Aymon e Matteo parlano, hanno veramente a che fare sempre e solo
col tema della separazione, del divorzio e delle seconde nozze? Anche quando si
è le vittime delle decisioni altrui? Persone credenti che, loro malgrado, sono
passate per queste tristi esperienze, vivono veramente dopo ciò in tale
situazione? E che dire di coloro che, usciti da un incubo, affermano di vivere
ora nella gioia del Signore e di praticare un servizio benedetto?
Evitando di prendere posizione, ho cercato di trarre solo delle domande e delle
riflessioni, atte a stimolare la riflessione, la ricerca biblica e il confronto
sereno e pacato. Chiederei di evitare sia proclami, sia generalizzazioni, sia
attribuzioni di colpe a chi ha un’altra posizione, ma di argomentare
esegeticamente secondo il principio «verità in carità» e «carità in verità». Si
può certo portare la propria testimonianza o addurre la propria esperienza di
vita, ma evitando dal trarre da esse una regola o un’ingiunzione per tutti i
casi e per tutte le persone.
4.
{Matteo Ricciotti} ▲
Voglio fare alcune precisazione su
«incatenamento». Mi riferivo a
dédetai (2a
sing. pf. pass. ind.), che si trova in Romani
7,2 e in 1 Cor 7,39 in riferimento alla donna sposata e in 2 Timoteo 2,9 in
riferimento alla Parola di Dio: «…la Parola di Dio non è incatenata».
Qui devo ammettere che
ho commesso un errore per la fretta e l’ho riferito all’apostolo Paolo, ma il
riferimento alla Parola di Dio mi pare ancora più forte.
5.
{Nicola Martella} ▲
Come già detto sopra, il verbo «incatenare»
non ricorre mai nel NT. Quando le nostre traduzioni riportano questo verbo,
in effetti nell’originale c’è ne un altro, perlopiù dein
«legare». Ecco qui di seguito come recitano i versi menzionati in greco (per
rendere l'idea dell'originale, traduciamo letteralmente aner con «uomo» e
ghyné
con «donna», intendendo nel contesto un uomo e una donna sposati):
■
2 Timoteo 2,9:
«Nel quale [Evangelo] io soffro afflizione fino ai vincoli [desmòs]
come un malfattore, ma la parola di Dio non è vincolata [dédetai]».
Effettivamente questo verso non c'entra nulla col tema e non contiene il verbo
«incatenare».
■
Romani 7,2: «Infatti la donna maritata è legata
[dédetai]
mediante la legge all’uomo, fintantoché egli vive; ma se l’uomo morisse, ella è
liberata dalla legge dell’uomo».
Come si vede
nell’originale il verbo «legare» non compare per nulla alla fine della frase
(qui molte Bibbie recitano in italiano: «ella è sciolta dalla legge che
la lega al marito»), ma solo all'inizio d'essa. Per onestà bisogna
evidenziare che il tema di Rm 7 non è quello della separazione e del ripudio, ma
quello della legge mosaica, per la quale viene preso come illustrazione il caso
normale del rapporto fra un marito e una moglie.
■
1 Cor 7,39:
«Una donna è vincolata [dédetai] per tutto il tempo che vive il suo uomo; ma,
se l’uomo si addormentasse [= morisse], ella è libera di maritarsi a chi vuole,
solo [sia] nel Signore».
Si noti che anche qui
Paolo ricordò il caso normale (le altre eccezioni le aveva discusse all'inizio
del capitolo), per significare: 1) La donna che si sposa, sappia quello che gli
aspetta (vv. 34.36ss); 2) Quella che non si sposa, può consacrarsi meglio al
(servizio del) Signore (vv. 35.40).
6.
{G. G.} ▲
Caro Nicola, ti ringrazio tantissimo per i tuoi interventi estremamente profondi
e interessanti sulla Parola di Dio, l’esegesi e la lingua originale (cosa
davvero da pochi).
Non so se è il caso di portare la discussione su un
botta e risposta, lascio a te decidere. Tra l’altro le mie argomentazioni sono
immediate, semplici e senza base etimologica, però te le mando lo stesso.
Vorrei solo chiedere a chi la pensa come Matteo: che
colpa ne ha la persona che ha subìto l’adulterio da parte del coniuge, per non
potersi risposare? Perché deve pagare per il resto della sua vita per i peccati
dell’altro?
Tra l’altro, adulterio in tedesco si dice Ehebruch,
che significa letteralmente «rottura del matrimonio». Non sono un’esegeta, ma è
chiaro che compiere l’adulterio significa automaticamente la rottura del
matrimonio, perché la persona diviene «una sola carne» con qualcun altro invece
che con il coniuge.
Anche il termine italiano adulterio deriva da
adulterare, che significa «alterare, cambiare, mescolare con qualcosa di
estraneo». Il matrimonio come tale e come previsto da Dio cessa di esistere non
appena si commette qualcosa come l’adulterio.
Consiglio comunque la lettura di libri come «Divorziare
e risposarsi alla luce della Parola di Dio» di Ralph E. Woodrow (Centro
Cristiano Evangelico, Trento).
Ciao Nicola e ancora grazie per l’opera che svolgi.
7.
{Nicola Martella} ▲
L’osservazione che si può fare a quanto detto sopra, è questa: Matteo
Ricciotti, scrivendomi, ha premesso che è perfettamente d’accordo che il
tema, affrontato da Paolo in Romani 7, era quello della legge mosaica. Poi ha
evidenziato che l’apostolo, per spiegare che la legge vige sull’uomo fintantoché
egli vive, fece ricorso in ogni modo all’illustrazione del matrimonio nel quale
il legame è spezzato dalla morte di uno dei due. A ciò rispondo come segue.
La questione dei paralleli
Un parallelo si basa su qualcosa di comune e tiene presente appunto la cosa
ovvia e lampante per poter reggere il confronto. È chiaro che un parallelo,
usando un esempio solo come confronto, non intende affrontare tutti i casi
e non è adatto a esaurire tutta la questione presente nell’esempio. Spesso
l’esempio riguarda il «caso normale» o quello più ricorrente o evidente. È
chiaro che l’autore non poteva fare una grande parentesi esplicativa, in cui
affrontare tutte le eventuali eccezioni, ogni qual volta che usò qualcosa come
esempio del confronto.
Un esempio eloquente
A modo d’esempio serva il ricordo di uno dei comandamenti molto conosciuto: «Non
uccidere» (Es 20,13; Dt 5,17). Il Decalogo riporta l’etica interpersonale
quotidiana (tu singolo dinanzi al tuo prossimo o connazionale, conterraneo e
compaesano), ma non esauriva tutti i casi, in cui uccidere era lecito. Questo
comandamento è ricordato da Gesù all’interno dell’etica interpersonale ebraica
(«tuo fratello»; Mt 5,21s; 19,18s). Paolo lo connesse alla summa dell’etica: «Ama
il prossimo tuo come te stesso» (Rm 13,9s). Giacomo collegò questo
comandamento alla coerenza con la legge in ogni aspetto (Gcm 2,10s).
Rimanendo qui si può avere l’impressione che «uccidere»
al tempo dell’AT e del NT era comunque e dovunque un’infrazione della legge (sia
mosaica, sia civile). Che le cose non stavano così, era evidente. Infatti
c’erano una serie di eccezioni dove ciò era permesso o non era imputato. Ad
esempio, in questi casi: l’uccisione di qualcuno che aveva commesso
un’infrazione della legge, che era degna di morte (adulterio Lv 20,10;
stregoneria Es 22,18; falso profetismo Dt 13,5; 18,20; omicida Nu 35,16ss;
ecc.). Si aveva il diritto di difendere se stessi, la propria moglie, il proprio
matrimonio (Pr 6,34s) e la propria famiglia da malintenzionati (Est 8,11; 9,16).
Gli uomini validi erano in dovere di difendere militarmente le loro città e la
loro patria da eserciti invasori (2 Sm 23,12; Ne 4,9). E così via.
È chiaro che Giacomo si riferiva al «caso normale»
dell’etica interpersonale; ma ciò non escludeva tutte le debite eccezioni
previste sia dalla legge mosaica sia da quella politica della nazione in cui si
viveva (Rm 13,1.4 autorità superiori, governante e spada). Di Mosè stesso fu
detto: «E vedutone uno a cui era fatto torto, lo difese e vendicò l’oppresso,
uccidendo l’Egiziano» (At 7,24). [►
Questo aspetto è proposto anche come tema a sé:
Non uccidere]
Conclusione
Questo mostra che, quando gli scrittori biblici usavano un parallelo, la
menzione del «caso normale» (o di un caso specifico) non esauriva tutta la
portata della complessa problematica che concerneva l'esempio illustrativo. Chi
non tiene presente questo aspetto, tenderà a semplificare troppo le questioni
complesse, si fisserà su un solo aspetto e non comprenderà la complessità di una
problematica.
Ad esempio, il Dio che fece l'uomo maschio e femmina (Gn 1,27) e che unì in
matrimonio la prima coppia (Gn 2,24s), permise e regolamentò in seguito nella
Torà anche la poligamia (Dt 17,17; 21,15ss), il concubinato (Es 21,7s), il
matrimonio leviratico (Dt 25,5), il diritto del soldato di far bottino delle
donne vergini delle città conquistate per farne schiave, mogli e concubine (Nu
31,18; Dt 20,14; 21,10ss; Gdc 5,30 «Una fanciulla, due fanciulle a testa per
un uomo»; 21,22), il divorzio in caso di una
«nudità di una parola / cosa» (Dt 24).
Chi semplifica, non comprenderà, ma si polarizzerà e giudicherà. Chi tiene
presente il vasto orizzonte teologico, storico culturale, sociale e letterario,
su cui era posta la singola questione dalle persone menzionate nella Bibbia,
correrà meno la tentazione di semplificare le varie problematiche e di
polarizzarsi. L'assemblea messianica (Mt 16,18; ebr. qahal, gr.
ekklesia) non è nata nel vuoto teologico, storico culturale, sociale e
letterario, ma le sue radici teologiche ed etiche erano l'AT e il suo primo
riferimento socio-culturale era il giudaismo. Da ciò non si può prescindere.
8.
{B. E.} ▲
Vorrei raccontare la mia personale esperienza. Quattro anni fa ho conosciuto un
amico di mio fratello: separato da un anno, non credente, sebbene molto
simpatico e disponibile, stava in realtà passando un momento difficile e non so
come aveva chiesto una Bibbia a un suo collega credente.
Questo mi predisponeva favorevolmente nei suoi
confronti, all’inizio era solo simpatia, come spesso capita. Capivo di
piacergli, ma soprattutto con me si sfogava, provava fiducia, e quando mi chiese
se «un giorno poteva venire in chiesa» anche lui, naturalmente dissi di sì. Fu
accolto bene, come sempre si fa nei nostri ambienti evangelici verso i non
credenti. Io nel frattempo covavo l’illusione di poter rimanere neutrale, mentre
presto mi accorsi che la spinta nei suoi confronti era forte. Non ritenevo che
il suo matrimonio fosse ancora valido o ricucibile, la moglie aveva un altro
uomo (e un altro figlio). Anche il tribunale aveva concesso il mantenimento solo
al loro figlio, non a lei, per ovvi motivi.
Il mio peccato fu iniziare una relazione con questo
uomo che non conosceva il Signore; non vorrei commentare questo fatto oltre
quello che ho detto, si tratta di un peccato, e per le donne nubili che mi
leggono vorrei aggiungere che chi ama il Signore, anche se trovasse un uomo
buono e sensibile come nel mio caso, non si illuda: sarà sempre una scelta che
genererà dolore, senso di tradimento al Signore, conflitto e aridità spirituali,
compromessi.
Cominciata la storia, ne parlai a una sorella della
comunità che in quel momento non viveva a Roma. Credo si sia molto spaventata
(in seguito mi disse una cosa del genere) e, non potendo agire «in loco», mi
consigliò vivamente di parlarne agli anziani. Con tutti i sensi di colpa che già
nutrivo, in effetti pensai di dover confessare loro la mia situazione, anche
perché oltretutto non volevo tenere nascosto nulla. Quello che seguì sono stati
tre anni di dolore, con gli anziani presi dal panico (e, a mio avviso, non tanto
per il fatto che lui non fosse credente quanto per il precedente matrimonio) e
anni di dolore anche nel mio rapporto con lui che tentai più volte di troncare,
senza averne mai davvero la forza e la convinzione. Comprendo di apparire
contraddittoria, affermando di ritenere peccaminoso il rapporto ma non avendo la
convinzione di interromperlo, ma dovrei entrare in dettagli troppo grandi per
spiegarne il motivo. Dico solo che lui per me aveva accettato ogni genere di
«accordo» (all’inizio gli dissero «o frequenti tu, o frequenta lei», cosa che lo
scandalizzò non poco, poi io partii per l’estero e ci separammo, poi tornai e,
volendo continuare il rapporto, mi dissero che potevamo sposarci ma nessuno
avrebbe potuto intervenire al matrimonio, io non avrei potuto pregare
pubblicamente in chiesa, e forse — su questo punto stavano studiando — non avrei
mai potuto prendere la cena del Signore: insomma, un sacco di tensioni mie e sue
di cui mi sentivo responsabile. Anche il nostro rapporto subì un terremoto.
Innanzitutto, il rapporto di coppia risentiva della mancata sottomissione al
Signore (e qui penso agli interventi letti su «una moglie cristiana delusa»;
credo che la chiave di tutto è la sottomissione a Dio, quello è il perno e il
centro), durante il mio soggiorno all’estero lui aveva continuato a frequentare
la mia chiesa e mi sembrava inserito bene, ma mi faceva imbufalire che potesse
baciare le altre sorelle e però non rimanere nei gruppetti di preghiera dove
c’ero io, vivevamo la tensione di un rapporto comunque non approvato dalla
chiesa e io, che emotivamente non sono intelligente, assunsi atteggiamenti tesi
e guardinghi. Atteggiamenti che furono molto fraintesi.
Le cose andarono di male in peggio. Complice, a mio
avviso, anche una contingenza «sfavorevole». Cadevano in quel periodo le
ri-elezioni di due anziani di chiesa (uno non si ricandidò, l’altro non fu
rieletto — rimase un anziano solo e un candidato anziano che di lì ad alcuni
mesi fu approvato). Si respirava aria pesante. Il consiglio di chiesa convocato
dall’anziano rimasto (che giustamente non voleva decidere da solo) decretò che,
se la relazione continuava, io avrei dovuto andare via (non so se all’unanimità,
ma ho motivo di credere di no). Sta di fatto che l’anziano (il quale, sempre a
mio avviso, non ha un carattere capace di sostenere la pressione) si sbilanciò
dicendomi due cose:
■ 1) Qualcuno gli aveva ricordato di compiere il suo
dovere, cioè di allontanarmi, se decidevo di continuare il fidanzamento — al
contrario di quanto stabilito in precedenza, cioè che potevo sposarmi con le
restrizioni di cui sopra.
■ 2) Lui stesso sulla questione delle seconde nozze
«oggi» pensava che non fossero ammesse «ma tra dieci anni» avrebbe potuto
cambiare idea (!!!). È un anno che ho lasciato quella chiesa, dopo più di 20
anni di frequenza.
Ho scelto di andare via, del resto mi avevano chiaramente detto che se
continuavo il fidanzamento non potevo rimanere, ma che andavo via «con la loro
benedizione» (testuali parole) nel senso che se altre chiese avessero chiesto di
me, loro non avrebbero messo veti alla mia frequenza né parlato con discredito.
Scusate, ma la considero una grande ipocrisia. Come si può benedire ciò che non
si approva, anzi si riprova? Come si può imporre a un credente di non poter più
frequentare, e contemporaneamente ammettere che non si è veramente convinti che
la decisione sia giusta? Come sto oggi sarebbe un altro capitolo da raccontare,
non c’è spazio, e magari neanche interessa. Il mio intervento è solo per dire
che il divorzio, come altre questioni «scottanti» va affrontato con studio,
convinzioni, confronti biblici, non con convincimenti aprioristici e pressioni
(subite e imposte). Spero che questa mail possa portare un contributo positivo.
Nota redazionale: Ai fini della comprensione del contributo e per
facilitare gli interventi al riguardo, aggiungo un catalogo di domande. Come ha
valutato l’autrice, col senno del poi, il fatto di mettersi insieme a un
non-credente? ▪ In che modo ha considerato lei il passato matrimonio di lui e
perché? ▪ Qual è stato il ruolo degli anziani in tutto ciò e in che cosa hanno
sbagliato? ▪ Qual è la «chiave di tutto», secondo l’autrice? Che cosa le impedì
di realizzare questa conoscenza? ▪ Quanto incide una guida non univoca dei
conduttori nel tempo sul comportamento etico e sulle vicende dei membri di una
chiesa locale? E le contraddizioni nelle loro decisioni? ▪ Come si dovrebbero
affrontare il divorzio e altre questioni «scottanti» secondo l’autrice? {Nicola
Martella}
Si veda un nuovo tema di discussione sull'argomento:
►
Divorzio 2: Interrogativi e tesi a confronto. Si veda anche un articolo di
approfondimento su quest'ultimo tema:
►
Divorzio e nuove nozze in Luca 16,18.
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Divorzio_labirinto_EnB.htm
12-04-2007; Aggiornamento: 30-07-2008
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