Nell’articolo «Sistema
congregazionalista o presbiteriano?» abbiamo parlato di
«conduzione collegiale» e di «controllo dottrinale». Abbiamo anche messo a
confronto il sistema congregazionalista e quello presbiteriano. Abbiamo altresì
discusso come gli indizi, presenti nel NT per la situazione missionaria, vengano
usati talvolta impropriamente per avvalorare il sistema presbiteriano.
Chiaramente tutti i sistemi hanno in sé il «verme», specialmente quando si
estremizzano. L’autonomismo
eccessivo delle chiese locali porta all’isolamento, alla diffidenza, alla
presunta autosufficienza e ad aumentare inutilmente gli sforzi per fare le
stesse cose nelle stesse zone. Nei casi peggiori porta al settarismo.
Il
dirigismo di una «casta» ministeriale a livello locale e sovra-locale porta
alla formazione di una sorta di clero, che crede di avere una delega di patria
potestà verso una «massa» di fedeli minorenni (e spesso tenuta tale per
mantenere i propri privilegi). In tal caso, i conduttori da allenatori si
trasformano in addomesticatori; e i membri sono ridotti a «pedine» su uno
scacchiere ecclesiale, a cui bisogna dire con un’autorità, falsamente intesa,
che cosa credere e che cosa fare, senza tollerare discussioni in merito, pena la
scomunica.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Marco Soranno}
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Credo che molti
evangelici italiani siano attratti dal sistema presbiteriano perché «delusi»
dall’iper-congregazionalismo, ossia dagli eccessi di certi conduttori (modello
«Diotrefe»), e quindi si pensa che una conduzione sinodale risolverebbe certi
problemi, ma non è così. Il problema rimane sempre, sinodo o assemblea locale
che sia. Se temiamo l’opera degli uomini e trascuriamo l’esercizio dei doni,
l’opera dello Spirito, ma sopratutto la predicazione della Parola di Dio nella
sua completezza, allora non potremo crescere nella fede.
Concludo ricordando
che la chiesa locale deve ricordarsi che l’autonomia non vuol dire isolamento, e
che la parola «autonomia» non si trova nel NT, e se non ricordo male vuol dire
«legge a se stessi», quindi si dovrebbe evitare d’usarla. {13
novembre 2008}
2.
{Gianni Siena}
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Caro Nicola, pace.
Io sono nato in una famiglia evangelica e sono nella fede dal 1975; con gli anni
ne ho viste di cotte e di crude. Da molto tempo, considero ormai secondario il
tipo di governo della comunità rispetto alla qualità interiore delle
persone che sono chiamate alla responsabilità di istruire e condurre la
fratellanza: con buon esempio personale e sana dottrina biblica. Volesse il
Signore se, una mattina (= che non verrà), si facessero un esame di coscienza
per vedere di ristabilire un giusto rapporto con la fratellanza e con i loro
conservi di ministero: nell’interesse del Regno di Cristo e di loro stessi, al
Quale renderanno conto!
Vi sono comunità che (in parte) gemono o (in maggioranza) sono accecate da
ambiziosi
«pastori e/o anziani» che fanno come meglio pare loro, affiancati da persone che
hanno da fare ammenda davanti al Signore per la loro precedente condotta.
Se v’è qualche
buon conduttore, ha il plauso della fratellanza (che ha saputo lasciarsi
guidare dal Signore nello scegliere) ma non senza problemi... Qualche volta (=
spessissimo) deve vedersela con certi ambiziosi aspiranti «stalloni» da pulpito
pronti a provocare dissensioni, non appena hanno un seguito che s’è
lasciato incantare da loro. Non serve aggiungere altro, temo (quasi a ragione)
che conduttori secondo il cuore del Maestro ve sono (e ve ne saranno sempre)
pochi.
Ti saluto e, se vorrai pubblicare questa breve lettera, ti farà inondare la
casella d’e-mail di protesta, ma io conosco abbastanza bene l’ambiente
evangelico e la mia suddetta opinione corrisponde molto alla realtà. {13
novembre 2008}
3.
{Luciano Leoni}
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Leggendo i primi
due interventi ho potuto vedere come, con facilità, si sia spostato il nucleo
dell’argomento (presbiteriano o congregazionale?) da quanto era il motivo
stesso dell’argomento. È indubbio che vi siano dei «Diotrefe» nelle chiese ed è
altrettanto chiaro che senza «qualità interiore» si cade in quanto ha ben
descritto il fratello Gianni Siena, quando, in pratica, non è la «volontà di
servire» a guidare ma domina la «volontà d’essere serviti». Questo è chiaro,
come è chiaro che i sistemi, fini a se stessi, non possono produrre quello
che produce solo una vera adesione a Cristo, e in questo mi trovo d’accordo
con il fratello Marco Soranno. Tuttavia ribadisco che l’argomento su cui
riflettere è: un sistema di conduzione presbiteriano potrebbe essere più
indicato rispetto a un sistema congregazionalista?
Il fratello Nicola ha ben risposto in merito argomentando ed esponendo in modo
preciso e puntuale quelle che sono le sue convinzioni. Alcune di queste
convinzioni le condivido, alcune meno e alcune non mi sembrano convincenti.
Tralasciando ciò che condivido passo a quello che non mi convince.
Il punto riguarda il «controllo dottrinale». Gli stessi punti citati dal
fratello Nicola, in realtà, danno forza a un intervento da parte dell’apostolo
Paolo a tutela d’una «sana dottrina», e questo aldilà del fatto che questa falsa
dottrina provenga dal giudaismo. Per meglio comprendere sarebbe opportuno
leggere quanto scritto dall’apostolo Paolo nelle lettere pastorali. In queste
parole è chiaro che vi è una dottrina vera e vi è una dottrina falsa
ed egli si prodiga affinché non si cada in errore: «Se
uno insegna una dottrina diversa e non s’attiene alle sane parole, quelle
del Signor nostro Gesù Cristo e alla dottrina che è secondo pietà, è gonfio e
non conosce nulla…» (1 Tim 6,3-4).
Vi è chi insegna una dottrina diversa, Paolo se ne preoccupa e spinge a
vigilare su questo: «Ti scongiuro
dunque davanti a Dio e al Signore Gesù Cristo, che ha da giudicare i vivi e i
morti, nella sua apparizione e nel suo regno:
predica la parola, insisti a tempo e fuor
di tempo, riprendi, rimprovera, esorta con ogni pazienza e dottrina.
Verrà il tempo, infatti, in cui non sopporteranno la sana dottrina ma, per
prurito d’udire, s’accumuleranno maestri secondo le loro proprie voglie e
distoglieranno le orecchie dalla verità per rivolgersi alle favole.
Ma tu sii vigilante in ogni cosa,
sopporta le sofferenze, fa l’opera d’evangelista
e adempi interamente il tuo ministero»
(2 Tim 4,1-4). Paolo chiede (anzi ordina) che si faccia attenzione che
colui a cui s’affida l’incarico di vescovo sia attento alla sana dottrina,
costui, infatti bisogna
«che ritenga fermamente l’insegnamento secondo la fedele
parola, per essere in grado d’esortare nella sana dottrina e di convincere
quelli che contraddicono» (Tit 1,9). Paolo esorta Tito a una attenzione
particolare verso gli altri e verso se stesso: «Ma
tu parla di cose che siano conformi alla
sana dottrina» (Tit 2,1).
Seppure in contesto «missionario» le cose sono state dette e scritte per nostro
insegnamento, sia per il passato che per il futuro. I credenti sono sempre in
missione e la vigilanza sulla sana dottrina non è un accessorio ma un dovere
(che vedo ben assolto dal fratello Nicola con il suo lavoro e di cui rendo
grazie a Dio).
È giusto quanto afferma Nicola concludendo la sua analisi: ci vuole
equilibrio. Equilibrio per evitare che si cada in un estremismo o in un
altro, per questo non dobbiamo dimenticare che in una collegialità potrà sempre
esserci chi ci resiste «faccia a faccia» se sbagliamo. Un bene per noi e per le
comunità che serviamo. {16 novembre 2008}
4.
{Nicola Martella}
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Le cose che afferma
Luciano sono giuste: bisogna vegliare sulla sana dottrina e guardare il gregge
sia dai lupi rapaci esterni, sia dai malintenzionati interni. Questo è ciò che
l’apostolo Paolo raccomandava ai conduttori della chiesa di Efeso (At 20,28ss).
Per onestà intellettuale bisogna comunque ammettere alcune cose. Una situazione
di fondazione di chiese in una zona vergine, in cui un missionario fondatore
(apostolo) agisce con la sua squadra, è cosa ben diversa dalla gestione corrente
di chiese già fondate e gestite da conduttori. Come ho fatto già notare, Paolo e
la sua squadra agivano in certe zone, mentre in altre c’erano ulteriori simili
squadre. Paolo si vantava di non essere sconfinato in zone gestite da altri, né
si era gloriato del lavoro altrui (2 Cor 10,13-16). Quando Paolo non ebbe più
campo missionario in loco, non si dedicò alla gestione delle chiese fondate come
una specie di supervisore o «patriarca», ma cercò un nuovo campo di missione
altrove, con l’intenzione di recarsi nella lontana Spagna (Rm 15,23s.28). Era
difficile gestire una supervisione sulle chiese fondate a migliaia di chilometri
di distanza con i mezzi di comunicazione d’allora.
Quando Paolo istruì i collaboratori della sua squadra circa il daffare in tale
situazione missionaria, si trovava in tale fase di costruzione. In siffatte
istruzioni, quando parlò del governo delle chiese, previde localmente una
gestione dell’opera di Dio mediante conduttori (chiamati presbiteri o episcopi).
Non ipotizzò nessuna forma di supervisione dottrinale sopralocale o regionale.
Poiché nella norma le comunità locali erano costituite da «chiese in casa»,
rette da un responsabile, che apriva la sua casa alla testimonianza, si può
pensare al massimo a una gestione collegiale dell’intera compagine ecclesiale
locale mediante un «consiglio di chiesa».
Tutto questo è però qualcosa di diverso da ciò che facevano Paolo, Timoteo, Tito
e altri membri della stessa squadra apostolica (cfr. 2 Tm 4,10ss.20; Tt 3,12s)
nella fase di fondazione delle comunità (fase A) e in quella di stabilizzazione
mediante l’insediamento delle loro guide (fase B; Tt 1,5). Le istruzioni di
Paolo ai suoi collaboratori erano in vista che l’apostolo si recasse di persona
nella zona missionaria che necessitava della «fase B» (stabilizzazione mediante
guide riconosciute) o che, concludendosi tale fase, il collaboratore
raggiungesse l’apostolo per coadiuvarli in altre attività. Nella prima epistola
a Timoteo affermava: «Io ti scrivo queste cose, sperando di venire presto da
te e, se mai tardo…» (1 Tm 3,14s). Mentre nella seconda lettera ingiungeva
al suo collaboratore: «Studiati di venire presto da me… prima dell’inverno»
(2 Tm 4,9.21). Scrisse similmente a Tito: «Quando t’avrò mandato Artemas o
Tichico, studiati di venire da me a Nicopoli, perché ho deciso di passare quivi
l’inverno» (Tt 3,12). Quando Paolo e la sua squadra eleggeva o faceva «eleggere
per ciascuna chiesa degli anziani», non era per rimanerci e detenere sopra
di loro un «controllo» gestionale o dottrinale, ma andava semplicemente altrove
(At 14,23ss). Quando, dopo un certo periodo, sentivano il bisogno o la necessità
di tornare nelle chiese fondate da lui e dalla sua squadra, non era per
esercitare lì un qualsiasi controllo, ma per motivi di dovere morale e di
edificazione: «Torniamo ora a visitare i fratelli in ogni città dove abbiamo
annunziato la parola del Signore, per vedere come stanno» (At 15,36). Per
dare l’idea, essi si comportavano non come genitori, che hanno una delega verso
figli minorenni, ma come padri verso figli sposati e maggiorenni, da trattare
con rispetto e delicatezza.
L’unico «controllo» (ma preferirei parlare di supervisione) gestionale e
dottrinale, di cui il NT parla, è quello dei conduttori (chiamati episcopi o
presbiteri) verso le loro proprie assemblee locali e i loro membri. Quello che
faceva un apostolo era di parlare da episcopo a episcopi, esortandoli fare le
cose in un certo modo per piacere al Signore, per pascere il gregge e per
evitare pericoli incombenti (1 Pt 5,1ss; At 20,17-35).
Tutte le possibili forme di aggregazione fra chiese, secondo criteri
territoriali (1 Cor 16,1; 2 Cor 8,1; Gal 1,2) o altri, non sono illegittime di
per se stesse. Se si tiene comunque presente la «storia delle chiese» degli
ultimi due millenni, si prenderà atto come si passa facilmente da una
supervisione sopralocale alla formazione di organi clericali o simili, i quali
nuocono col loro potere e le loro decisioni spesso l’opera di Dio. Ciò non
significa che non ci possano essere organi di consultazione sopralocali
(conferenze di conduttori, gruppi di lavoro, tavole rotonde, task-force, ecc.).
Ciò è però una cosa diversa da un «controllo dottrinale».
5.
{Marco Soranno}
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Se leggiamo
il Nuovo Testamento e vogliamo ricavarvi un sistema ecclesiale da applicare ai
giorni nostri, dovremmo tener conto secondo me d’alcuni fattori: la presenza dei
Dodici Apostoli e l’influenza della Chiesa di Gerusalemme (oltre alla figura di
Giacomo, secondo alcuni storici). Ho conosciuto credenti che han potuto
attingervi riferimenti a una struttura sinodale e altri per il
congregazionalismo. Personalmente credo che la Scrittura ci conduca verso
principi d’ecclesiologia da applicare oggi, che si riscontrano nella
collegialità degli anziani, nella collaborazione fraterna tra chiese,
l’esercizio dei doni; mentre il modello d’un sinodo tra chiese sorelle sul
modello presbiteriano è basato più sulla storia che sulla Scrittura. {18
novembre 2008}
6.
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7.
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8.
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9.
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10.
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11.
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► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Congregaz_presbiter_parla_Avv.htm
13-11-2008; Aggiornamento: 18-11-2008
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