Un conduttore di una chiesa mi ha scritto per proporre una questione
dibattuta fra le chiese della sua zona, ma essa che si ritrova in molte altre
comunità, e che riguarda alcuni prerequisiti per la conduzione di una comunità.
Riporto la problematica, da lui esposta, nel primo contributo. Anche altri mi
domandano, di tanto in tanto, questioni del genere. La tesi di alcuni fratelli l’ho sintetizzata nel titolo e più
esplicitamente potrebbe recitare così: per essere conduttore di una chiesa,
bisogna essere sposato, padre di figli di una certa età e quindi egli
stesso non proprio più tanto giovane. Un giovane irreprensibile e capace è
quindi svalutato riguardo a tale ministero di guida; diversamente un uomo
sposato con figli in età almeno scolare è preferito, e si è indulgenti con lui
se non è proprio così irreprensibile, dotato di buonsenso e capace d’insegnare.
Alla questione se un conduttore celibe possa
esprimere la sua paternità spirituale, rispondo nell'undicesimo
contributo.
Certi conduttori di chiesa col passare degli anni
diventano più radicali in certe cose (p.es. abitudini, tradizioni, usi e
costumi denominazionali), più intransigenti e conservatori verso altre cose
(p.es. cambiamenti di strutturazione, di conduzione, di gestione, di
rinnovamento) e insensibili verso i veri bisogni delle loro chiese. Devo pensare
a tante situazioni in cui la seguente saggia costatazione di Salomone si può
applicare a vari «anziani a vita», i quali col tempo non diventano proprio
migliori come il vino: «Meglio un giovane povero ma savio che un re vecchio
ma stolto, che non è più in grado di farsi dare degli avvertimenti» (Ec
4,13).
Girando fra le chiese, mi rendo conto che — facendo le
dovute eccezioni — molti dei conduttori non passerebbero un esame d’idoneità, se
si applicasse a loro letteralmente tutti gli aspetti di 1 Tm 3 e Tt 1. A volte
giovani
irreprensibili e capaci sono tenuti fuori dalla conduzione dai conduttori di una
certa età per paura di cambiamenti, che essi stessi debbano cambiare, di non
essere poi più al passo con i tempi. Si preferisce perciò di trovare appoggi
nella Bibbia che rendano più difficile (se non impossibile) l’entrata di persone
più giovani nel consiglio di chiesa o addirittura un cambio generazionale. In
effetti certi conduttori restano tali a vita, di là dal fatto se servono
all’opera o la rallentano, ed essi lasciano tale funzione spesso solo
congedandosi dalla vita. Nelle chiese, dove sono stato coinvolto, abbiamo
impostato le cose così che ci sia una verifica periodica dei conduttori
(anziani) e dei servitori (diaconi). Ciò fa bene alle persone di guida, fa bene
alla chiesa, permette a chi non è (più) idoneo di fare altro nella chiesa e
rende possibile un’integrazione del consiglio di chiesa con persone giovani che,
di là dal loro stato sociale, sono maturi, irreprensibili e capaci.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Carlo Neri} ▲
Ciao Nicola, sono Carlo, ti scrivo da Modena per proporre a te ma anche ad altri
fratelli, che spero vogliano intervenire, un tema che nel nostro ambiente non
viene normalmente trattato, se non per ribadire l’interpretazione classica che
ne viene data e sulla quale io però nutro più d’una perplessità.
Si tratta del tema riguardante le caratteristiche che
devono avere gli anziani che conducono una chiesa, in particolare per quanto
riguarda l’aspetto dell’età che dovrebbe essere diciamo, adeguata, e
sopratutto all’essere sposati con figli abbastanza cresciuti in modo da
permettere di valutare la capacità del fratello di governare, criteri che, se
presenti nel fratello candidato all’ufficio d’anziano, darebbero senz’altro una
ottima garanzia alla conduzione della chiesa.
L’interpretazione classica ci dice che entrambe queste
caratteristiche sono indispensabili e la loro presenza è indispensabile, questo
sopratutto in base al fatto che nel brano in cui l’apostolo Paolo indica le
caratteristiche richieste per chi dovrà svolgere quest’ufficio (1 Tim 3,2) prima
di farne l’elenco usa la parola «bisogna»: «Bisogna dunque che il
vescovo sia irreprensibile...».
Questo imperativo sembra sbarrare la strada a qualsiasi
dubbio, anch’io infatti in passato, non dubitavo di quest’interpretazione,
preciso che io stesso sono anziano e ho entrambe questa caratteristiche non è
perciò un problema che tocca me personalmente ma riguardo a questa lettura ho,
come dicevo prima, alcune perplessità.
Una prima perplessità riguarda il fatto che
interpretando letteralmente il brano citato, sembra di vedere una
contraddizione nel comportamento dell’apostolo che l’ha scritto, siccome fra
i suoi più stretti collaboratori aveva scelto fratelli giovani e non sposati
come Timoteo e Tito.
Un’altro problema riguarda il fatto che, sempre in
questo brano, si legge che i diaconi debbano avere le medesime
caratteristiche degli anziani (?): «Similmente» [«parimenti» o «allo stesso
modo» (a secondo delle traduzioni)[ i diaconi siano...». In Atti 6,
però, dove si parla della istituzione dei diaconi, le caratteristiche richieste
dai dodici non s’accenna al fatto che debbano avere una certa età né tantomeno
al fatto che debbano essere sposati con figli. Altro problema riguarda il termine usato per
indicare i fratelli chiamati a svolgere l’ufficio d’anziani; sappiamo che la
figura degli anziani nella società ebraica antica era riferita a persone
letteralmente anziane d’età, anzi probabilmente nominate proprio in virtù del
loro diritto d’anzianità per governare le case patriarcali, questa figura viene
spesso trasportata nella realtà della chiesa, al tempo della chiesa nascente
però non viene usato solo il termine «anziano» per indicare quella funzione ma
anche «vescovo» o «conduttore», forse per significare che non era indispensabile
il fattore dell’età?
Ultimo appunto che faccio riguarda l’insegnamento che
troviamo in Esodo 18, nel quale Jetro, suocero di Mosè, sottopone a Mosè
e all’Eterno il consiglio che poi verrà accettato, di mettere come capi (di
migliaia, di centinaia...) degli uomini che abbiano alcune caratteristiche
morali e spirituali fra le quali ancora una volta non sono presenti né quella
d’avere un’età avanzata e né quelle d’essere sposati con figli.
Oltre ai problemi d’interpretazione che ho citato
prima, mi domando un’altra cosa: com’è possibile che nelle chiese del periodo
apostolico, chiese che probabilmente erano spesso di dimensioni familiari,
composte forse da una o due decine di membri, si potessero trovare facilmente
fratelli con entrambe quelle caratteristiche, oltre alle altre citate da Paolo,
non era più probabile che quell’elenco volesse essere inteso piuttosto come una
forte esortazione, un obbiettivo a cui tendere il più possibile tenendo
comunque presente che la necessità principale delle chiese era di dover essere
in ogni caso governate da una autorità, gli anziani appunto, nei quali dovevano
essere presenti sopratutto le caratteristiche morali e spirituali citate anche
nei brani che ho indicato prima (At 6,3; Es 18,21)? {2007}
2.
{Nicola Martella} ▲
Qui di seguito non risponderò a tutti i quesiti posti da Carlo Neri, ma mi
dedicherò solo ad alcuni aspetti particolari. Confido che altri fratelli
interverranno e daranno il loro contributo.
Il problema
In alcune chiese si escludono dal diaconato e
dall’anzianato fratelli non sposati, pur avendo essi i prerequisiti essenziali,
con la seguente motivazione: essi devono essere assolutamente sposati e
devono avere dei figli. Ci si può immaginare la sofferenza di uomini
dedicati completamente al Signore e alla sua opera, che ricevono un tale
impedimento da parte di altri fratelli a essere riconosciuti come conduttori di
una chiesa e a esercitare un ministero di conduzione, solo perché rientrano in
queste
categorie:
■ Sono celibi per scelta di vita o per necessità
(non trovano ancora la compagna giusta; la situazione economica non permette
loro di sposarsi). ■ Sono diventati vedovi.
■ Sono singoli perché divorziati prima di
convertirsi o
abbandonati dalla moglie prima o dopo la conversione. ■ Sono sposati ma non possono aver figli per
disfunzioni biologiche o fisiologiche della relativa moglie o propria.
L’argomentazione
Tralasciamo i casi in cui le argomentazioni restrittive
sono usate in modo strumentale, per escludere alcuni fratelli perché ritenuti
«scomodi» per altri aspetti. L’argomentazione si basa su una lettura
«iper-letterale» di alcuni brani chiave del NT. Eccoli qui di seguito:
■ «Bisogna dunque che il conduttore sia
irreprensibile, marito di una sola moglie […] che governi bene la propria
famiglia e tenga i figli in sottomissione e in tutta riverenza (che se uno non
sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura dell’assemblea di Dio?)»
(1 Tm 3,2.4s). ■ «Per questa ragione t’ho lasciato in Creta: perché
tu dia ordine alle cose che rimangono a fare e costituisca degli anziani per
ogni città, come t’ho ordinato; quando si trovi chi sia irreprensibile, marito
d’una sola moglie, avente figli fedeli, che non siano accusati di dissolutezza
né insubordinati. Poiché il conduttore bisogna che sia irreprensibile…» (Tt
1,5ss).
Il problema nasce laddove si prescinde dal contesto culturale in cui ciò
fu detto e dall’intento effettivo dell’autore. Le questioni vengono portate
senza alcuna distinzione nel contesto attuale e riempite con un altro
significato. Ecco alcuni punti che bisogna tener presente per capire i brani in
questione. ■ Paolo non raccomandò che il conduttore fosse «marito
di una moglie», ossia sposato. Egli intendeva che, se fosse sposato, lo
fosse di una sola moglie. Infatti, a quel tempo vigeva la poligamia. Chi
ne aveva le facoltà, si poteva sposare più di una moglie. Le donne fatte bottino
di guerra, erano vendute al mercato e chi le comprava ne faceva o schiave o
concubine. Diverse di queste persone poligame si convertivano con la loro intera
famiglia al Signore. La limitazione non era intesa in senso morale (essendo tali
donne sposate secondo la legge), ma pratico: le donne erano continuamente
incinte e (se il loro apparato riproduttivo non si ammalava) mettevano al mondo
almeno una decina di figli ciascuna. Ciò raddoppiava con una seconda moglie o
concubina, e così via. Tali persone erano già impegnate abbastanza a sfamare,
crescere ed educare la loro «tribù» per poter avere ancora tempo per curare gli
altri credenti. ■ Paolo raccomandò che un uomo fosse un buon
capofamiglia e padre, capace di dirigere la propria famiglia. Questa
regola valeva certamente nel caso in cui un uomo avesse figli. I figli sono un
dono del Signore, ma la
sterilità poteva impedire ciò, o come disse Sara: «L’Eterno m’ha fatta
sterile» (Gn 16,2; ella indusse perciò suo marito a diventare poligamo; cfr.
1 Sm 1,5s). Nell’antichità la poligamia era dovuta proprio al fatto che una
donna poteva essere o diventare sterile, mettendo così a rischio la
sopravvivenza di una famiglia (non c’era la previdenza sociale). Sarebbe stato ingiusto punire doppiamente un fratello
che era sterile o aveva una moglie sterile. ■ A ciò si aggiunga che le sciagure della vita (guerre,
epidemie, disgrazie, persecuzioni e quant’altro) potevano mettere fine a un
matrimonio (vedovanza) o a una famiglia (cfr. Gb 1,18s; cfr. 1 Sm 4,17ss;
31,7s; Gr 14,16; Mt 2,16ss). Si vuole punire anche qui doppiamente una persona?
■ I due brani sono quindi da intendere così: «Se
il conduttore è sposato, non dev’essere poligamo; se è sposato e ha figli, deve
governare bene per prima cosa la propria famiglia». Non si trattava quindi di
una discriminazione verso i celibi né verso i vedovi né verso chi non aveva
(più) figli.
La questione del celibato
Tralasciamo qui gli aspetti che derivano da una
reazione culturale rivestita di dottrina quale contrapposizione al celibato
imposto ai chierici. È singolare come si voglia escludere dalla
conduzione fratelli capaci, solo perché sono singoli (celibi o vedovi). E
tutto ciò viene attribuito alla parola di Paolo. Questo è singolare, visto che
il missionario Paolo e diversi della sua squadra missionaria (Timoteo,
Tito) erano celibi per quanto noi sappiamo. Così era pure Barnaba. In
uno sfogo verso i Corinzi, Paolo disse: «Non abbiamo
noi il diritto di condurre attorno
con noi una moglie, sorella in fede, così come fanno anche gli altri apostoli e
i fratelli del Signore e Cefa? O siamo soltanto io e Barnaba a non avere il
diritto di non lavorare?» (1 Cor 6,5s). Come si vede, l’apostolo usò il
plurale «noi». Si tenga presente che nell’allora ecclesiologia (ma ciò
avviene anche oggigiorno dove un missionario fonda nuove chiese), era il
missionario (= apostolo) a costituire anziani e conduttori nelle chiese
fondate. Paolo aveva lasciato il suo collaboratore Tito in Creta per «perché
tu dia ordine
alle cose che rimangono a fare e
costituisca
degli anziani per ogni città» (Tt 1,5). Erano essi a eleggere degli anziani
per ciascuna chiesa, indicando chi fossero degni e capaci; il testo è da
tradurre così: «E quando essi [= Paolo e Barnaba] ebbero eletto loro [= ai
credenti] degli anziani in ogni chiesa, pregarono con digiuno e li
raccomandarono al Signore, in cui erano diventati credenti» (At 14,23).
Sarebbe stato proprio
strano che i missionari potevano essere celibi, ma non i conduttori che
erano da loro eletti!
A ciò si aggiunga una contraddizione fra le tesi che
escludono dalla conduzione i singoli (celibi e vedovi) e le richieste fatte da
Paolo in 1 Corinzi 7 a proposito del celibato degli uomini. Egli afferma,
ad esempio: «Vorrei che tutte le persone fossero come sono io […] Ai celibi e
alle vedove, però, dico che è bene per loro che se ne stiano come sto anch’io
[…] In ciò che ognuno fu chiamato, fratelli, in questo rimanga dinanzi a Dio […]
per una persona in genere è bene di starsene così [ossia vergini] […] Chi non è
ammogliato ha cura delle cose del Signore, del come potrebbe piacere al Signore
[…] Or questo dico per l’utile vostro proprio; non per tendervi un laccio, ma in
vista di ciò che è decoroso e affinché possiate consacrarvi al Signore senza
distrazione» (1 Cor 7,7s.24.26.32.35). Tutto il discorso che Paolo fece poi
anche sulle nubili, poteva valere anche per i celibi. Paolo ammise che
ognuno aveva al riguardo un «carisma» e concesse che fosse meglio sposarsi che
bruciare (vv. 7.9). È chiaro che non poteva suggerire con grande enfasi
che tutti i maschi rimanessero celibi come lui, per così dedicarsi più
efficacemente all’opera del Signore (senza distrazioni coniugali e familiari), e
poi pretendere che i conduttori delle chiese locali fossero tutti sposati! È una
contraddizione logica e dottrinale. È chiaro che bisogna leggere 1 Timoteo 3 e Tito 1 alla
luce di 1 Corinzi 7. I missionari e le loro squadre erano esempi di etica e
di condotta per i conduttori, che essi eleggevano e riconoscevano nelle
comunità. Paolo raccomandò a Timoteo, suo collaboratore nella missione: «Fuggi
gli appetiti giovanili» (2 Tm 2,22); l’espressione «voglie giovanili»
descriveva qui lo stato del celibe, indipendentemente dalla sua età, in cui
poteva trovarsi in modo ricorrente: non era probabilmente sempre facile per lui
gestire senza sofferenza gli aspetti sessuali e affettivi, ma ciò era possibile.
Ciò non gli impediva di insegnare, d’esortare e di riprendere nelle chiese
fondate (1 Tm 4,11; 6,2; 2 Tm 4,2; cfr. Tt 2,6.9.15; cfr. 1 Cor 16,10s). Timoteo non doveva essere più tanto giovane al momento
delle due epistole tramandateci, visto che furono composte con molta probabilità
dopo la prigionia di Paolo a Roma. Nonostante ciò, gli disse: «Nessuno
sprezzi la tua giovinezza; ma sii d’esempio ai credenti, nel parlare, nella
condotta, nell’amore, nella fede, nella castità» (1 Tm 4,12). Il termine «giovinezza»
descriveva verosimilmente il suo stato di «verginità» e quindi di celibato. Un celibe poteva quindi non solo essere missionario e
insediare anziani nelle chiese fondate, ma poteva essere anche un
esempio di castità nel celibato. Sebbene celibe, poteva esortare «l’uomo
anziano… come un padre; i giovani, come fratelli; le donne anziane, come madri;
le giovani, come sorelle, con ogni castità»
(1 Tm 5,1s). Il celibato di un cristiano non era allora quindi un impedimento a
diventare ed essere missionario. Perché dovrebbe esserlo per diventare
conduttore di una chiesa locale? {2007}
3. {Abele Aureli} ▲
■
Nota della redazione : L’autore parla qui di seguito in
modo ricorrente di «apostoli». Come lui stesso però spiega, intende i singoli
missionari fondatori di chiese locali. Oggigiorno «l’apostolo» (dal greco
apostolos «mandato con un incarico» [ossia da una chiesa in missione])
corrisponde al «missionario fondatore» che è mandato
da una o più chiese per fondare altrove altre chiese e opere. Ogni apostolo o
missionario, dopo aver fondato una nuova chiesa locale, elegge dei «conduttori»
in essa e li fa riconoscere dalla comunità, mantenendo su di essa una certa
«paternità» spirituale, sia che resti in loco, sia che si trasferisca altrove
per proseguire la sua opera. Ora segue il contributo di Abele
Aureli.
■
Contributo:
Secondo ciò che leggiamo nelle Sacre Scritture e sopratutto nelle lettere
apostoliche, la questione non dovrebbe porsi perché se i «ministri» come Paolo,
Pietro, Giacomo, Giovanni, e altre colonne della Chiesa sono chiamati
direttamente da Cristo (vedi Efesini 4), tutti gli altri che vengono scelti,
oppure posti nelle chiese dai suddetti apostoli o ministri, in base ai loro
requisiti (1 Tim 3), sono subalterni e sottoposti a chi li insedia in
quell’ufficio. In Atti 20 l’apostolo Paolo manda a chiamare gli
anziani che egli, oppure Timoteo o Tito, avevano stabilito come responsabili
nelle varie chiese che essi avevano iniziato ed essi erano sottoposti sia a
Paolo che a Timoteo e a Tito, che come vediamo sono incaricati da Paolo appunto
a scegliere degli anziani per ogni chiesa. A parte la scelta dei sette diaconi,
per i quali gli apostoli chiesero alla chiesa di scegliersi tra i membri di
chiesa che conoscevano bene e li rispettavano, per la scelta degli anziani, le
chiese non avevano nulla da dire su chi li avrebbero dovuti pasturare. Questa
scelta era una prerogativa degli apostoli e ministri. Paolo raccomanda a Timoteo di non ricevere accuse
contro un «anziano», se non sulla deposizione di due o tre testimoni. Questo per
due motivi ben precisi:
■ 1) perché sono stati scelti in base alle loro qualità
e quindi chi li aveva scelti aveva fatto una scelta ponderata, sapendo che
davanti a Dio il responsabile sarebbe stato sempre chi li aveva scelti. ■ 2) perché è sempre facile trovare in chiesa un membro
che ha da ridire sul modo di fare d’un anziano, e quindi ogni anziano potrebbe
avere dei potenziali avversari nella chiesa. Per quanto poi riguarda la questione dell’essere
sposati o meno e con figli d’una certa età, non la trovo per nulla una regola
biblica! Paolo a Timoteo gli dà dei requisiti, dei quali uno dice che non deve
essere «novizio» in modo che non s’innalzi e non cada nel laccio del diavolo.
Però non credo che il fattore «tradizione, anzianità o denominazione» debba
essere un problema se l’anziano si lascia guidare dallo Spirito Santo. Si potrà
rispondermi che purtroppo ci sono nelle chiese troppi anziani che si lasciano
guidare dalla loro età o tradizione, ma se è per questo, sono pochissimi gli
anziani che si fanno guidare dalla propria carnalità piuttosto che dallo Spirito
Santo. Anzi, dirò di più: troppi anziani si sono auto-insediati facendo leva
sulla propria famiglia numerosa nella chiesa; in nome della «democrazia», si
sono fatti votare come anziani, senza averne i requisiti biblici.
Secondo ciò che dice la Parola di Dio, un giovane (non
novizio), che si lascia guidare dallo Spirito Santo, è più qualificato a fare il
«conduttore» (pastore, anziano) che non un padre di famiglia con figli
adolescenti che si lascia guidare dai propri sentimenti e carnalità.
Oltre a ciò, non credo che Paolo fosse sposato e avesse
dei figli adolescenti (a meno che non ce lo ha nascosto), ma pare che egli non
fosse solo un anziano, ma era apostolo, profeta e dottore! Il quale credo che
fosse un ministero leggermente superiore a quello d’un anziano, se l’anziano,
come possiamo ben leggere, era da lui insediato. Pertanto, giovane o anziano, singolo oppure sposato che
sia, l’anziano deve prima d’ogni cosa essere un «seguace di Cristo», poi uno che
sia d’esempio in ogni situazione, a tutta la chiesa, e deve dimostrare d’essere
anche sottomesso a chi ha iniziato la chiesa (l’apostolo), il quale lo ha messo
in quell’ufficio certo che egli s’atterrà ai suoi insegnamenti, perché
l’apostolo rimane comunque responsabile davanti a Dio per quella chiesa.
Se poi quando parliamo dei requisiti in 1 Timoteo 3,
crediamo che si stia parlando di «perfezione» in senso assoluto, allora né tu e
né io, ma neppure Paolo e Pietro, credo che avessero questa qualità! {2007}
4. {Nicola Martella} ▲
Qui di seguito voglio solo aggiungere alcune
note al margine, dando degli spunti di ulteriore riflessione.
■
Che l'ecclesiologia delle diverse denominazioni attuali si possa
differenziare da quella del primo secolo, salta all'occhio di ogni studioso. Ad
esempio, la stragrande maggioranza delle chiese locali erano «chiese in casa»
(cfr. Rm 16).
■
Quanto alla conduzione, c'erano delle differenze anche legate alla
cultura d'appartenenza: le chiese giudaiche erano più collegiali nella
conduzione (almeno in Palestina), ricalcando la struttura della sinagoga; le
chiese ellenistiche erano più monarchiche, ossia erano guidate più da una
singola persona, rispecchiando così più la mentalità greca. Il termine «anziano»
(gr. presbyteroi) era più usato come retaggio del giudaismo e come
termine tecnico fu introdotto dai missionari giudei, mentre «conduttore» (gr.
episkopos «sorvegliante») rispecchiava più la percezione greca; è chiaro che
i due termini si corrispondevano. Termini oggi ricorrenti per designare i
conduttori di chiesa come «pastore»,
«reverendo» e «parroco» (questi ultimi due sono
usati specialmente all'estero), non ricorrono mai nella Bibbia in senso tecnico;
«pastore» nel NT non è un «titolo» (o ufficio) ma un «ministero» o una
«funzione» del conduttore (oltre che del missionario e del «curatore d'anime»).
Per l’approfondimento delle questioni qui poste cfr. Nicola Martella (a cura
di), «La conduzione quale chiave dell’unità»,
Uniti nella verità, come affrontare le diversità
(Punto°A°Croce, Roma 2001), pp. 30-36. Cfr. qui anche l'articolo «Caratteristiche di una conduzione funzionale», pp. 37-44.
|
■
Sebbene venga sempre ripetuto, è interessante notare che in At 6 non si parla di
«diaconi». È vero che ricorre il termine «servire», ma esso è troppo
generico e altrove nel NT viene applicato a tutti (apostoli, collaboratori degli
apostoli e conduttori). È probabile che questi «sette uomini» siano gli stessi
che in At 15 sono chiamati anziani. Si noti che Stefano era un uomo che
conosceva la Parola e sapeva proclamarla e difendere pubblicamente la verità (At
7). Filippo era un «evangelista» (At 6,5; 21,8), un conoscitore della Parola, un
uomo capace di portarla fuori dei confini della Giudea e di convincere con essa
i Samaritani predicando Cristo (At 8,5ss; e contrastando Simone il mago). Egli
fu in grado anche di parlare a una persona altolocata e istruita di convincerla
riguardo alla verità (At 8,26ss). Successivamente si trasferì a Cesarea (At
21,8), certamente non per fare semplicemente il «diacono», termine con cui
s'intende oggi perlopiù chi si occupa di cose piuttosto di natura pratica. È
probabile che anche i «servitori» (gr. diakonoi) di 1 Tm 3 non erano
semplicemente dei «diaconi» nel senso corrente del termine, ma gli stretti
collaboratori del conduttore in questioni spirituali e gestionali, con cui
formavano la «squadra d'azione». La stessa relazione c'era in una «squadra
missionaria», ad esempio tra Paolo e i suoi collaboratori (Timoteo, Tito, Luca,
ecc.). {2007}
5. {Tullio Vallerta, ps.} ▲
■
Contributo:
Gentile sig. Martella, ho scoperto da poco il suo interessante sito web. Sono
rimasto colpito da alcune affermazioni riguardo a dottrine che si praticano da
tempo nelle nostre chiese (chiese di Cristo).
Come lei saprà nelle nostre chiese l’anziano deve essere per forza sposato e
avere figli. Devo dire che la sua interpretazione biblica sul tema non mi
convince del tutto e volevo sapere se poteva approfondire o indicarmi una
pubblicazione (sua o d’altri) che tratti il tema in maniera approfondita. Per
sua comodità le invio quanto si
insegna nelle nostre chiese: «La prima cosa che balza agli occhi di chiunque legga il testo della 1 Timoteo è la
necessità d’impiegare uomini sposati. Anzi, non soltanto sposati, ma che abbiano
una famiglia. La famiglia, infatti, rappresenta la credenziale più importante
riguardo alle sue capacità direttive. Se un uomo ha saputo dimostrare la propria
capacità d’educare in senso ottimale la famiglia, tale prova è evidente agli
occhi di tutti, quando dai risultati traspare la deferenza e il rispetto da
parte dei figli ed egli sarà anche predisposto ad assumere la dirigenza d’una
comunità (sempre insieme ad altri che abbiano analoghe capacità)». Mi faccia
sapere. Grazie… {15 marzo 2009}
▬ Nicola Martella: Alle questioni specifiche,
poste dal lettore, le ho risposte già sopra [►
2.]; evito perciò di ripetermi. Le mie esperienze fatte con un «chiesa di Cristo» e con credenti di questa
particolare denominazione, sono queste: ho incontrato anziani e responsabili che
non avevano né una moglie né figli credenti eppure esercitavano il loro
ministero. Quindi una deferenza e un rispetto da parte dei figli non potevano
essere verificati. Posso immaginarmi che anche nella «chiesa di Cristo» esistano
fratelli che sono anziani, che continuano a esercitare tale ministero anche dopo
essere rimasti vedovi. Inoltre, sarebbe una gran bella contraddizione se in 1
Cor 7 Paolo richiedesse ai maschi di rimanere celibi come lui, ma in 1 Tm 3 e Tt
1 limitasse la conduzione ai soli sposati. Non pochi suoi collaboratori (p.es.
Barnaba, Timoteo, Tito) erano celibi eppure guidarono chiese. L’accento stava
invece sul fatto che nel caso l’aspirante alla conduzione fosse sposato, fosse
monogamo; a quel tempo c’era la poligamia come legittima opzione (la gente si
convertiva dal paganesimo). Come ho affermato sopra, i figli non erano scontati,
sia perché la sterilità era ricorrente, sia perché anche la mortalità infantile
era alta. Quindi tali brani non escludevano il celibato (1 Cor 7; 9,5); ma nel
caso un conduttore fosse stato sposato, dovevano verificarsi quei prerequisiti
descritti. Per i dettagli si veda sopra.
6.
{Tullio Vallerta, ps.}
▲
■
Contributo:
Caro fratello, grazie per avermi risposto. Purtroppo la risposta non ha risolto
i miei dubbi. Per esempio Barnaba: dove è scritto che era «anziano»?
Inoltre, essendo scritto «uomo d’una sola donna» come si sarebbe scritto
«uomo sposato»? Grazie ancora. Scusami per il disturbo ma ho capito che hai una
profonda conoscenza biblica. Puoi indicarmi a chi rivolgermi per avere una
risposta approfondita (capisco che tu sei impegnato e non vorrei toglierti del
tempo prezioso). {18 marzo 2009}
▬
Nicola Martella:
Barnaba fu mandato dalla chiesa di Gerusalemme per guidare la chiesa di
Antiochia (At 11,22ss). Egli associò a sé
Saulo da Tarso e insieme ammaestrarono i credenti (vv. 25s). Essi fecero
sviluppare altri ministeri, talché a un certo punto erano cinque guide
nella chiesa (At 13,1). Ciò permise loro di lasciare la chiesa per un compito
particolare momentaneo (At 11,29s; 12,25). L’aver organizzato tale colletta
particolare e l’averla portata a Gerusalemme, fece sì che essi tornarono con una
visione nuova per le chiese in genere e per la missione. Infatti presto
Barnaba e Saulo andarono in missione. Paolo, parlando di sé e di Barnaba, affermò: «Non
abbiamo noi il
diritto di condurre attorno con noi
una moglie, sorella in fede, così come fanno anche
gli altri apostoli e i fratelli del
Signore e Cefa?» (1 Cor 9,5). Barnaba e Paolo, sebbene fossero celibi,
non solo poterono essere conduttori e insegnanti di chiesa, ma poi
divennero missionari fondatori (apostoli), ossia coloro che insediarono
altri nel ministero di conduzione. 1 Timoteo 3 e Tito 1 sono da leggere alla
luce di tali fatti. Barnaba e Paolo mostrano che era possibile essere celibi e
conduttori di chiesa. Tanto più che Paolo consigliò ai credenti di rimanere
nella condizione, in cui si trovava al momento della conversione (1 Cor
7,17.24), e ai maschi consigliò: «Io vorrei che tutti gli uomini fossero
come sono io» (vv. 7s). Ho già spiegato che «uomo d’una sola donna»
(così nell’originale) riguardava i conduttori nel caso fossero sposati e non
intendeva solo «uomo sposato», ma «uomo monogamo» (allora si convertivano
persone poligame). Come si vede qui ci vuole realismo e non
ideologia. Bisogna vedere le cose non con gli occhi di una denominazione
particolare o della convenzione, ma immedesimandosi nella vera realtà di quei
tempi. Che tipo di
risposta approfondita
vuoi ancora? Io non saprei chi possa dartela.
7.
{Tullio Vallerta, ps.}
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Contributo:
Grazie per la tua risposta. Chiarisce meglio alcuni aspetti. Sto prendendo atto
della realtà iper-letteralista, come l’hai chiamata tu, e vedo che la Bibbia
deve essere letta tutta. Ora non voglio prenderti altro tempo (ma come
fai a gestire tutte queste informazioni?) e ti dico cosa mi è stato risposto:
Apostolo non è Anziano. Sono due cose differenti e l’unico Apostolo che si dice
anche Anziano, Pietro, è dimostrato che era sposato (guarigione della suocera
nel libro degli Atti) e pertanto non possono essere portati ad esempio Paolo e
Barnaba. Grazie per non aver cestinato questa mia richiesta. Ricambio le tue
benedizioni. {21 marzo 2009}
▬
Nicola Martella:
A proposito degli interlocutori a cui il lettore ha riferito le mie risposte, mi
viene in mente un detto: «Non c’è maggior sordo di chi non vuole ascoltare».
Chissà perché Paolo e Barnaba non possono essere portati ad esempio!? Essi erano
le guide della chiesa di Antiochia, quindi conduttori; per questo furono
chiamati «proclamatori e insegnanti» insieme ad altri tre fratelli (At 13,1).
Solo quando furono mandati successivamente in missione, divennero «apostoli»
(lett. «mandati»), ossia missionari (vv. 3ss). Il primo brano, in cui Paolo e
Barnaba furono chiamati «apostoli» fu Atti 14,4s.14; questo è anche l’unico
brano in questo libro. Inoltre qui si applica il principio logico «dal
maggiore al minore». Gli apostoli quali «missionari fondatori» erano gli
unici conduttori delle chiese che fondavano fino a quando non eleggevano a tale
ufficio dei fratelli locali e non andavano oltre (At 14,23s). Questo è
ricorrente anche nell’esperienza mia e di altri che hanno fondato chiese. Paolo
risedette in certi luoghi anche per uno o più anni (At 11,26; 20,31). Se perciò
i missionari fondatori (apostoli) potevano essere celibi, quanto più valeva ciò
per coloro che essi eleggevano come anziani! Tanto più che Paolo invitava i
fratelli a rimanere celibi come lui per servire meglio il Signore (1 Cor
7,7s) e in vista della persecuzione che ci sarebbe stata.
Quanto a Pietro, che si titolo come presbitero
fra i presbiteri (1 Pt 5,1), qui il contesto non parla di matrimonio. Se però si
vuole colare moscerini e inghiottire cammelli, faccio presente che anche Gesù
fu chiamato da lui Pastore ed Episcopo (= sorvegliante; 1 Pt 2,25), lo stesso
titolo con cui erano designati i conduttori di chiesa (1 Tm 3,1s; Tt 1,7); e
notoriamente Gesù non era sposato. Come si vede, gli argomenti ideologici e
pretestuosi non fanno molta strada. La storia delle chiese dei primi due
secoli (per non andare troppo lontano) ci mostra il fatto che c’erano anche
chiese guidate da episcopi celibi; nessuno si scandalizzò o pose neppure
lontanamente la questione.
8.
{Pino Catanese, ps.}
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Nota della redazione: Sebbene a
questa questione abbiamo già risposto, sia io sia altri, riporto le richieste di
questo lettore col solo scopo di mostrare quanto siano diffuse certi
convincimenti e come essi siano fonte di confusione, diverbi, sofferenze e
prostrazione.
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Contributo:
Caro fratello Nicola, pace a te. Ti ringrazio ancora per il materiale che tu
metti a disposizione gratuitamente online per tutti coloro che hanno sete e fame
di conoscere la verità delle Scritture. Avrei una domanda da farti perché
ultimamente su questo argomento non ci sto più capendo niente: c’è chi dice una
cosa, chi un’altra... Può un fratello celibe, quindi non sposato,
accedere alla carica pastorale e al ministero della Parola? Se un fratello è
voluto dalla chiesa, perché riconosce in lui un ministero, può questo requisito
essere di ostacolo alla sua elezione? Dico questo perché alcuni usano la
Parola di Dio per dire che, anche se si vede una genuina chiamata in qualcuno,
se non è sposato, deve essergli preclusa la possibilità di accedervi.
Ora, che io sappia, sia Paolo che Barnaba non
erano sposati. E lo stesso Paolo afferma nelle sue epistole che a volte, per
servire meglio Dio, è utile anche non sposarsi; tuttavia, se si arde, ci si
sposi. Vorrei che mi si spiegasse con la Scrittura tutti i punti, in modo che
sia chiaro quello che è la
volontà di Dio; in tal modo, io potrò poi cercare di spiegarlo a chi
vuole veramente sapere come stanno le cose. Analizza, se puoi, tutti quei punti
più ostici, di cui si parla nelle epistole a Timoteo e a Tito. Grazie mille.
Spero mi risponderai presto, fratello. Che Dio continui a benedirti e usarti per
la sua lode. Pace. {29 settembre 2009}
9.
{Stefano Frascaro}
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Caro fratello, è una disamina interessantissima questa che hai fatto e, come al
solito, ne farò tesoro. Se non vado errato, il tutto è stato vagliato
(giustamente) solo attraverso il «colino» della Parola di Dio. Ma non voglio
dimenticarmi però che tutto ciò che è stato scritto, è stato scritto per gli
uomini e per il loro ammaestramento.
È indiscutibile tutto ciò che tu affermi sul ruolo e la
«virtù» che deve avere un conduttore, ma in cuor mio aggiungo anche altre
motivazioni che ti vado a esporre. È chiaro che gradirei una tua valutazione di
quanto da me riportato.
L’apostolo categorizza un elenco di «virtù» che deve
avere un conduttore di chiese; a mio parere, oltre che le ottime motivazioni che
hai riportato, va però ricordato il «gregge», a cui il conduttore fa capo
è composto da uomini.
Mi spiego: io ho due figli, uno dei quali
particolarmente turbolento, ora, se dovessi rivolgermi a un anziano per un
consiglio, come potrei chiederlo a uno
giovane e che non ha figli? Che esperienze potrebbe portarmi? Quali
consigli potrebbe darmi? Ciò che dice la Parola di Dio su molti argomenti, lo so
pure io, ma un padre che si rivolge a un anziano per una cura pastorale, vuole
sapere, oltre ciò che dice la Parola, anche un consiglio!
E se non è sposato, questo conduttore come potrà
parlare di problemi d’una
coppia e dare consigli a essa? E se non è «abbastanza avanti in età» tu
pensi che una persona avanti con gli anni si rivolga a lui serenamente per avere
dei consigli? Potrei andare avanti con gli esempi ma mi fermo qui.
E se il conduttore è troppo giovane, non c’è pericolo
di «inorgoglirsi»?
Si potrebbe obiettare che un anziano non debba essere
per forza anche «curatore d’anime», ma a mio parere un pastore che non ha
questa sensibilità, è un pastore a cui manca molto; oppure si dirà che molti
giovani sono più saggi di tanti anziani… ma ritengo che l’apostolo Paolo, quando
diede le caratteristiche che deve avere un anziano, valutò anche tutte queste
situazioni. Il mio pensiero è quindi che in mancanza di conduttori
«maturi» anche in età, ben venga un conduttore giovane, ma deve essere
assolutamente un’eccezione. {31 ottobre 2009}
10.
{Nicola Martella}
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Il titolo del tema di discussione è «Conduttore solo se sposato e padre?», e non
«Conduttore solo se non più giovane?». Quanto all’età Paolo ascrive nel
catalogo delle qualità questa precondizione: «Che non sia novizio,
affinché, divenuto gonfio [d’orgoglio], non cada nella [stessa] condanna del
diavolo» (1 Tm 3,6). Per «novizio» s’intende un «neofita», uno
convertito da poco. Questa non è tanto questione d’età anagrafica, ma
specialmente d’età nella fede. Nel catalogo dell’epistola a Tito ciò non ricorre
neppure. Importante è che tale conduttore sia, tra altre cose, irreprensibile e
«attaccato alla fedele Parola quale gli è stata insegnata, affinché sia
capace d’esortare nella sana dottrina e di convincere i contraddittori» (Tt
1,6.9). Un giovane sopra i 20 anni, che è cresciuto in una
famiglia di credenti attivi e si è convertito in tenerissima età, ha più
capacità di condurre una chiesa, sebbene ancora celibe, di un quarantenne
sposato convertito da 2-3 anni. Come detto, però, in questa discussione abbiamo
parlato di celibi, non di giovani d’età. Paolo e Barnaba erano celibi, ma non
più giovani; anche Timoteo e Tito avranno avuto una certa età, quando Paolo
scrisse loro. Quando mi reco da un conduttore mi aspetto che non mi
dia un consiglio che vada «oltre ciò che dice la Parola». Chiaramente la
competenza (p.es. di un medico) non si misura con l’età, sebbene l’esperienza
abbia un certo ruolo. Paolo, che noi sappiamo, non è mai stato sposato e non ha
avuto figli, ma ha saputo dare buoni consigli a genitori e figli, a mariti e
mogli. Probabilmente Timoteo e Tito erano forse intorno alla
quarantina e Paolo li mandò a riconoscere conduttori nelle chiese fondate (cfr.
Tt 1,5). Anche loro ebbero problemi di diverso genere e alcuni li ritenevano
troppo giovani per questo o per quello. Paolo li incoraggiò ad andare
avanti: «Ordina queste cose e insegnale. Nessuno sprezzi la tua giovinezza»
(1 Tm 4,11). Paolo con loro non fece un problema d’età e di sesso
riguardo ai destinatari della loro azione, ma di stile: «Non riprendere
aspramente l’uomo anziano, ma esortalo come un padre; i giovani, come fratelli;
le donne anziane, come madri; le giovani, come sorelle, con ogni castità» (1
Tm 5,1s). Essi potevano esporre «le cose che si convengono alla sana dottrina»
ai maschi anziani (Tt 2,2), alle donne attempate (vv. 3ss), ai giovani (v. 6),
ai servi (vv. 9s). Paolo parlò di problemi di coppia e riteneva che anche
i loro collaboratori fossero in grado di affrontare gravi problemi di dottrina e
di etica nelle chiese; per questo li istruì e diede loro delle direttive. Egli
ingiunse ai suoi collaboratori castità e autocontrollo in questioni sessuali (1
Tm 4,12; 5,2; 2 Tm 2,22). L’orgoglio non è legato all’età anagrafica, ma
al carattere. Abbiamo visto sopra il problema di essere neofita nella fede (1 Tm
3,6), ma ciò non riguarda l’età anagrafica. Come mostrano le epistole di Paolo a Timoteo e a Tito,
l’apostolo diede loro le direttive su come curare le anime, riprendere i
contraddittori, istruire nella sana dottrina e così via. «Queste cose insegna
e a esse esorta» (1 Tm 6,2). «Predica la Parola, insisti a tempo e fuor
di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo»
(2 Tm 4,2). «Insegna queste cose, ed esorta e riprendi con ogni autorità.
Nessuno ti disprezzi» (Tt 2,15). «Ora il servitore del Signore non deve
contendere, ma dev’essere mite inverso tutti, atto a insegnare, paziente,
correggendo con dolcezza quelli che contraddicono» (2 Tm 2,24s; cfr. Tt
1,9). Se eccezione dev’essere, allora che lo siano i
«conduttori di paglia», che non rispecchiano (più) i prerequisiti, che non hanno
una mentalità di pastori del gregge ma di mercenari, che non si curano dei
membri della loro comunità ma solo della loro immagine, che non hanno un
atteggiamento morale e casto, che non hanno una visione del regno di Dio ma solo
del proprio orgoglio o che cibano i credenti continuamente con simbolismi e
blablaismi. E tutto ciò indipendentemente dell’età dei soggetti. Si spera che nella chiesa locale ci siano più di uno
credente che rispecchia i prerequisiti di 1 Tm 3 e Tt1, cosicché si possa
costituire un
collegio di conduttori, che possano imparare gli uni dagli altri,
integrarsi, sostenersi e completarsi, e tutto ciò di là dall’età anagrafica e
dai particolari carismi.
11.
{Francesco Lo Russo}
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Contributo:
Ecco, ad esempio, ciò che mi ha scritto un credente, che si è trovato
spiazzato dalle tesi di un altro: «Vorrei porti un quesito, perché tu possa di
darmi una risposta su ciò, che dice la Bibbia in merito. Ti spiego. Stamattina
un fratello mi ha detto che il pastore di una comunità o un credente, che ha la
vocazione di fare il pastore o è stato chiamato da Dio a ciò, non può
espletare questo compito, se non è sposato; ossia, se è sposato può fare
il pastore, se non lo è, non può farlo, perché non essendo sposato non ha il
cuore di padre (paternità verso le pecorelle). E mi ha citato il passo di 1
Timoteo 3,1-5, dicendomi che si deve essere sposato con una sola moglie e si
deve avere una famiglia e governarla bene, altrimenti non avendo il cuore di
padre, non può esercitare il ministero pastorale; cioè chi non è sposato, non
può fare il pastore. La mia domanda è cosa dice la Bibbia e quale è la
verità in merito. Grazie in anticipo di cuore». {29-12-2010}
▬
Nicola Martella:
Come si vede da questa lettera, non solo verrebbero esclusi
i celibi, ma anche gli sposati senza prole, i vedovi e coloro che hanno perso i
figli per qualche disgrazia. Avendo affrontato vari aspetti sopra, mi limiterò
qui alla questione se un conduttore celibe possa esprimere una
paternità spirituale. Il principio è questo: se qualcosa vale per i
conduttori di chiesa, quanto più vale per coloro che fondavano le chiese!
Paolo e Barnaba erano certamente celibi (1 Cor 9,5s; cfr. 1 Cor 7,7s.26); lo
stesso dicasi di Timoteo e Tito (1 Tm 4,11s; 2 Tm 2,22); ciò sarà valso
di vari altri servitori di allora. Il celibato di Paolo, di Barnaba e di altri
componenti della loro squadra missionaria non impediva loro di esprimere la loro
paternità spirituale e di avere un «cuore di padre» (1 Cor 4,15; 1 Ts
2,11). Neppure a Timoteo e a Tito mancavano le capacità di esortare le
diverse componenti delle chiese (1 Tm 5,1s; Tt 2,1-10), sebbene fossero celibi.
Inoltre, Paolo chiamò Timoteo «mio vero figlio in fede» e simili
(1 Tm 1,2.18; 2 Tm 1,2; 2,1) e lo stesso fece con Tito, chiamandolo «mio vero
figlio secondo la fede» (Tt 1,4; cfr. Flm 1,10 Onesimo). Tale espressione di
un servitore celibe vale al pari di quella di uno sposato, ad esempio di Pietro,
che chiamò «Marco, il mio figlio» (1 Pt 5,13). Non sappiamo se
Giovanni si fosse mai sposato, in ogni modo anch'egli chiamò continuamente i
credenti come «figlioli [miei]» (1 Gv 2,1.12.14.18.28; 3,7.18; 4,4;
4,21), come fece Gesù con i suoi discepoli (Gv 13,33) e come fece anche
Paolo con i credenti delle chiese da lui fondate (Gal 4,19). La paternità spirituale non dipende dalla paternità
biologica.
12.
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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Conduttore_sposato_padre_S&A.htm
20-02-2007; Aggiornamento: 03-04-2015
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