Qui proseguiamo la
discussione dell’articolo
Cambiare comunità», cominciata nella
prima parte. Rimandiamo a quest’ultima per l’introduzione al tema, in cui
accenniamo ai molteplici e svariati motivi, legittimi o discutibili che siano,
perché qualcuno lascia la sua comunità.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre esperienze, idee e
opinioni?
Partecipate alla discussione inviando i vostri contributi al Webmaster
(E-mail)
Attenzione! Non si accettano contributi anonimi o con nickname, ma solo quelli
firmati con nome e cognome! In casi particolari e delicati il gestore del sito
può dare uno pseudonimo, se richiesto.
I contributi sul tema ▲
(I
contributi rispecchiano le opinioni personali degli autori.
I
contributi attivi hanno uno sfondo bianco)
Clicca sul lemma desiderato per raggiungere la rubrica sottostante
1. {Dario
Giusiano}
▲
■
Contributo:
Nella comunità non bisognerebbe mai ricercare la perfezione, il pastore
che predica bene o i fratelli simpatici, ma una sana dottrina e la possibilità
di realizzare un vero incontro con Dio.
Far parte di una comunità, non significa necessariamente frequentare sempre
la stessa chiesa, ma essere a contatto, avere comunione o frequentare altri
fratelli e sorelle, per confrontarci nella lettura, meditazione e studio della
Parola è una buona cosa.
Per esempio, io tutti i venerdì mi vedo con
altri fratelli cristiani (c’è chi va nelle ADI, chi nelle evangeliche libere e
altri...). Ci ritroviamo assieme per studiare e meditare sulla Bibbia su
determinati argomenti e confrontando le nostre idee e quello, che Dio ci ha
rivelato; abbiamo comunione, preghiera e crescita personale. Quando poi si va
nel locale di culto, lo si fa per andare incontro a Dio, per lodare il
Signore; e non è necessario andare sempre dallo stesso pastore. Lo
Spirito Santo opera comunque come vuole. {14-09-2012}
▬
Nicola Martella:
Quindi, Dario Giusiano, secondo te si potrebbe fare a meno delle chiese
locali e dell’appartenenza effettiva a una di esse? Perché è necessario
andare «nel
locale di culto… per andare incontro a Dio, per lodare il Signore»? Un
locale di culto non costituisce una comunità, ma è essa come famiglia spirituale
a radunarsi, dove si vuole o dove è possibile. Con tali tue premesse, tanto vale
che il vostro gruppo del venerdì si costituisca esso stesso come comunità e
adoriate e serviate Dio insieme, invece di vivere tale dicotomia ecclesiale.
Il credente non si va in una chiesa locale né tanto meno «dallo stesso
pastore», ma è parte di una comunità come della propria famiglia spirituale.
2. {Fortuna
Fico}
▲
■
Contributo:
Avrei fiumi di parole da scrivere sull’argomento, ma non posso, perché la
nostra assemblea sta attraversando un problema del genere. Ma mi permetto di
dire solo una cosa: quella della falsa dottrina è una scusa poco
convincente e soggettiva, infatti qualcuno ha lasciato la comunità, sentendo
parlare di «dicotomia e tricotomia», facendole passare come «strane dottrine»;
e, poi, ora, frequenta un’altra chiesa, parlando lingue strane e, aspettando il
battesimo nello Spirito, persevera fino alla fine. Ora, seppur donna, vorrei
permettermi di dare un consiglio a tutti i miei fratelli delle «assemblee dei
Fratelli» (scusate il gioco di parole), concentratevi più sull’amore fraterno
sincero, e non alla corsa al pulpito o ad accuse alle spalle e «lotte di
potere», che non costruiscono ma demoliscono. Solo così, vedendo l’amore che
c’è tra di noi, la buona testimonianza e la collaborazione sincera, le nostre
Assemblee cresceranno e non si svuoteranno! Bisogna rimanere lì, dove il
Signore ci ha messi, formando quell’unico corpo, composto da tante membra,
ed essere convinti che, parlando male o accusando un altro fratello, parliamo
male di noi stessi, perché tutti noi siamo la «chiesa». «Facciamo
attenzione gli uni agli altri per incitarci all’amore e alle buone opere,
non abbandonando la nostra comune adunanza come alcuni sono soliti fare, ma
esortandoci a vicenda; tanto più che vedete avvicinarsi il giorno» (Eb
10,24s).
Quindi il vero antidoto
a tutti i problemi è l’amore! Non quello che si predica dal pulpito, ma
quello che si testimonia attraverso i fatti: «Quanto all’amore
fraterno, siate pieni di affetto gli uni per gli altri. Quanto all’onore,
fate a gara nel rendervelo reciprocamente» (Rm 12,10). {15-09-2012}
▬
Nicola Martella:
Capisco che quando si passa per un certo problema personale, familiare o
ecclesiale, si tende a filtrare la realtà con la propria esperienza del
momento. Quando i motivi del contendere sono secondati, effettivamente quella,
che viene dichiarata come «falsa dottrina, è una scusa poco convincente e
soggettiva». Come mostrano le epistole del NT (cfr. 1-2 Cor, Gal, Col), esistono
effettivamente casi di falsa dottrina, di infiltrazione di falsi fratelli
e di cattivi maestri nelle chiese locali; non di rado, tutto ciò ha portato a
gravi sofferenze, a fazioni (cfr. Corinto) e a lacerazioni.
Detto questo, non bisogna contrapporre «dottrina» e «amore», poiché non
ci guadagnerebbe nessuno. Anche i seguaci di false dottrine simpatizzano fra di
loro. La dottrina è «sana», se si basa sull’esegesi contestuale e non
sulle ideologie cristianizzate e sul consenso tradizionale. L’amore per la
verità (quindi per Dio) e l’amore per i fratelli devono essere coniugati
insieme, osservando che quest’ultimo è l’efflusso del primo. «Avendo
purificato le anime vostre con l’ubbidienza alla verità, per giungere
a un sincero amore fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè
mediante la parola vivente e permanente di Dio» (1 Pt 1,22s).
L’altra questione riguarda i conduttori autorevoli, che siano
irreprensibili, che sappiano tagliare (= dispensare) rettamente la Parola della
verità (2 Tm 1,15) e sappiano curare il gregge come fanno i pastori. Essi
saranno allora capaci di realizzare questo: «Ora il
servitore del Signore non deve contendere, ma dev’essere mite inverso tutti,
atto a insegnare, paziente, correggendo con dolcezza quelli, che contraddicono,
se mai avvenga che Dio conceda loro di ravvedersi per riconoscere la verità»
(2 Tm 2,24s). Chi vorrà andarsene dalla comunità, quando ha validi
conduttori e buoni curatori d’anime?
■
Fortuna Fico: Caro fratello,
figurati so che non è una polemica, anche perché non vedo cosa c’è da
polemizzare; ciò che hai scritto, è anche il mio pensiero. La sana dottrina
va curata e difesa. E soprattutto i problemi vanno risolti, non nascosti o
passarci sopra; ma spesso è proprio questo che è malvisto, poiché gli errori non
vengono ammessi, ma ognuno vuole la propria ragione (e qui c’entra il
carattere, che non dovrebbe ma entra in chiesa). Per questo parlavo dell’amore,
che deve regnare fra i fratelli, e non a scapito della sana dottrina. Diciamo
esattamente le stesse cose, ma forse io non ho reso il concetto! {15-09-2012}
3. {Giovanni
Cappellini}
▲
■
Contributo:
Un cammino d’indipendenza spirituale da una realtà locale non solo è
possibile, ma è l’unica strada percorribile per chi ha, come me, il vizio
di mettere in discussione qualsiasi cosa ed è un dipendente affettivo. In
tutte le chiese, che ho frequentato, sono sempre stato visto come un «caro
fratello» per i «laici» e una minaccia per i conduttori. Per me le
alternative sono due: o andare a scaldare la sedia, oppure farmi dire più o
meno apertamente che sono orgoglioso, testardo, che non posso capire, ecc.
Soffro parecchio, quando mi vengono dette queste cose, e mi annoio
quando sento sempre le stesse prediche. {17-09-2012}
▬ Nicola
Martella: Quanto segue, non ha un
intento polemico, ma vuol essere un approccio dal punto di vista della cura
pastorale. Sono conscio che chi è un «disadattato ecclesiale», non
sempre trova chi lo sa aiutare a risolvere le questioni, che sono alla base di
tale «patologia» ecclesio-sociale. Le chiese a conduzione monocratica,
che spesso assomigliano ad aziende del pastore (e della sua famiglia) e che
spesso vengono condotte in modo autoritario, non sempre sono un buon esempio del
«pari consentimento» neotestamentario.
Non so il tipo di chiese, che Giovanni Cappellini ha frequentato finora, ma col
suo atteggiamento potrebbero chiudere presto tutte. Si presume che il
progetto del Signore riguardo alla sua assemblea deve avere qualche difetto
di fabbrica! E questo tanto più che alcuni hanno abbracciato la vocazione dei «senza
chiesa», che essi chiamano «cammino d’indipendenza». In effetti, è un
segno di immaturità cognitiva e affettiva, che perde di vista gli
obiettivi (p.es. fornire reciprocamente servizio, edificazione,
sottomissione, sostegno) e il fatto che, entrando nel nuovo patto, il credente
ha preso il giogo di Cristo e si è impegnato a vivere secondo la sua
volontà, non la propria.
Se tutte le chiese, che Giovanni Cappellini ha frequentato, lo hanno deluso,
probabilmente farebbe bene ad aprirne una a sua immagine e somiglianza; i
risultati non sono scontati. Tuttavia, egli è affetto probabilmente da «nevrosi
ecclesiogena», che è fonte di problemi e di sofferenze.
In una «chiesa partecipata», come cerchiamo di costruire noi,
probabilmente Giovanni Cappellini troverebbe la terza e valida alternativa, a
cui contribuire e dove non avrebbe tempo per annoiarsi.
4. {Pietro
Renna}
▲
■
Contributo:
Vorrei portare una mia piccolissima esperienza in merito. In una comunità, che
ho frequentato, a causa di un problema di adulterio mal gestito secondo
me, ho chiesto chiarimenti (visto che io considero una comunità una famiglia
locale, dove nessuno deve essere escluso dai problemi della famiglia). Mi e
stato detto: gli anziani hanno deciso quello, che hanno deciso; bisogna
fidarsi. Quando ho espresso il mio pensiero che in una comunità non si
può vivere al buio, sono stato considerato come un sasso che non mette su di
esso del muschio, come una pietra che rotola da un posto a l’altro.
Io prima di dare una risposta a questa osservazione, sono andato in un letto di
un fiume, dove ci sono molti sassi e li ho osservati. Osservandoli, ho visto un
immobilismo totale di queste pietre; quelle ai margini del fiume in qualche
pozzanghera erano quelle, che avevano parzialmente coperte di muschio.
Passeggiando sopra di esse, con il mio peso le ho smosso, o le ho smosso di
proposito, girandole su un lato senza muschio. Guardando quelle pietre senza
muschio, mi sono chiesto di chi la colpa. Ho capito che due sono le condizioni,
che non fa crescere il muschio su alcune pietre: quando uno le smuove o quando
ci sono delle piene, ma le pietre non si muovono da sole.
Sui vari esempi che tu hai fatto sul’argomento, credo che una pecora da sola
non scappa mai dal suo ovile, se il pastore non crea le condizioni per farle
scappare. {17-09-2012}
▬
Nicola Martella:
Alcuni conduttori hanno sì il senso della famiglia, ma agiscono verso i membri
della chiesa come fanno i
genitori con i figli minorenni. Gesù ha insegnato, però, che di Padre
c’è n’è uno solo e tutti i discepoli di Gesù sono fratelli. Quindi, i conduttori
fanno bene a trattarli come fratelli maggiorenni. Inoltre, nel NT certi
tipi di peccati venivano trattati come assemblea intera (1 Cor 5), non
come gruppo elitario.
5. {Luca
Matranga}
▲
■
Contributo:
Parlare di questo, è come parlare dei motivi, che portano due persone a
litigare: ce ne sono tantissimi
e ogni caso è diverso dall’altro. I pastori tenderanno a incolpare i
membri o l’assemblea, ed è vero anche il contrario. Non ha senso parlare di
queste cose in questi termini, crea solo confusione, secondo me. Perché
alle volte è vero che chi se ne va, lo fa per orgoglio, per mancanza di
sottomissione, per incomprensioni, mancanza di perdono, ecc.; ma, alle volte,
invece, le cause sono giustificate. Come anche è vero il contrario. Si
può dire che sbagliano solo quelli, che non vogliono essere inseriti in
una chiesa locale. Il resto ammette troppa variabilità. Potresti invece
presentarci, caro Nicola, alcuni «case studies», chiedendoci di dire secondo noi
cosa sarebbe giusto. {18-09-2012}
▬
Nicola Martella:
Nell’articolo di riferimento ho mostrato che la variabilità delle cause è
tanta e non si può addurre a un solo motivo. Nel tema di discussione ho anche
fatto obiezioni a chi voleva polarizzare il tutto in un modo o
nell’altro, mostrando che ci sono responsabilità in chi resta e in chi
va, in chi guida una chiesa in modo irresponsabile e chi preferisce una facile
transumanza; ho parlato pure di «giusta causa» per alcune situazioni, in
cui qualcuno se ne va.
Discutere insieme di tali cose non è inutile, né genera confusione, come tu
affermi, ma fa parte dell’ovvio processo di chiarimento progressivo, come
succede in una decantazione dialettica. Già
rendersi conto dei problemi reali, aiuta a interrogarsi e a prepararsi
all’evenienza e possibilmente a elaborare le cause e a porre rimedio a tempo.
Non credo che accendere le menti su tali problematiche sia un’attività
oziosa.
Con la tua capacità intellettiva,
potresti dare di più quanto a un’analisi e alle giuste prospettive. Fermarsi al
«c’è tutto e il contrario di tutto», è
facile e
comodo; sebbene sia lecito, non è utile ai fini della discussione né
è costruttivo (cfr. 1 Cor 6,12; 10,23).
Aspettiamo qualcosa d’illuminante
sull’argomento da parte tua. Se ti applichi, qualcosa di edificante e
salutare può ancora venire. Io credo ancora ai miracoli.
■
Luca Matranga:
Tra l’altro c’è uno
studio abbastanza serio condotto su circa un migliaio di chiese sui motivi
che spingono a cambiare comunità; comunque forse lo conosci già. E credo che una
statistica imparziale sia molto meglio per descrivere una situazione del
genere. {09-10-2012}
▬
Nicola Martella:
Faccene un sunto, se puoi. Poi, su ciò che sia utile o molto meglio,
potremmo discuterne a lungo. Far parlare dei credenti su certi temi e far
portare le loro esperienze, è sempre utile. Riguardo alle statistiche ci
sarebbe molto da dire: chi la fa, come la fa, quali domande pone, con quali
obiettivi, a chi vengono poste le domande, quante sono le persone intervistate,
a quale ambiente appartengono, eccetera. Nelle statistiche non è sempre tutto
oro
(scientifico) quel, che luccica.
■
Luca Matranga:
Lo studio, condotto dal Dr. Richard J. Krejcir dello Francis A. Schaeffer
Institute of Church Leadership, è iniziato nel 1992 e terminato nel 2004, con
una revisione del 2007. Riguarda 1.103 chiese di 23 denominazioni,
scelte a caso. I risultati di questo studio sono stati confrontati con altri
studi simili, fatti da altre organizzazioni, e con dei questionari somministrati
via web, anche più ampi; e hanno mostrato una sostanziale costanza delle
percentuali.
● Di 894 persone intervistate di persona, e 2.909 persone contattate online,
l’88% di esse dicono di aver lasciato la propria chiesa, perché si sono sentite
«costrette a farlo». il 19% del primo gruppo e il 22% del secondo gruppo
invece sono andati via a causa di
mutamenti nella vita lavorativa o scolastica.
● Quindi, di 3.803 persone andate via, 3.348 hanno dichiarato di essersi sentite
«costrette a farlo» per questi motivi:
— Il 61% lo ha fatto a causa di un conflitto con un altro membro, che si
è originato da pettegolezzi e contese, che non cessavano, non erano veri, o non
venivano affrontati nel modo giusto. Hanno sottolineato anche una mancanza di
ospitalità e una mancanza d’insegnamento biblico come seconda e terza ragione.
— Il 19% non si sentiva connesso agli altri. La mancanza di ospitalità
era la prima ragione. Secondo i casi, hanno sottolineato la mancanza
d’insegnamento biblico come seconda o terza ragione, e il pettegolezzo come
seconda o terza ragione.
— Il 18% lo ha fatto per la mancanza di un solido insegnamento biblico;
hanno indicato pettegolezzi e contese e mancanza di ospitalità come seconda e
terza ragione.
— Il 4,5% lo ha fatto per altri inconvenienti
(chiesa troppo distante, poco parcheggio, culti troppo lunghi, predicazione
noiosa, piccole divergenze teologiche). È interessante notare che l’attenzione
della leadership della chiesa è spesso più orientata a migliorare questi punti
(che sono quantitativamente meno significativi) che gli altri.
(Il fatto che la somma delle percentuali dia il
102,5% può essere dovuta al fatto che alcuni abbiano descritto come ragioni
principali più ragioni, ma non è indicato nello studio.) {09-10-2012}
▬
Nicola Martella:
Grazie, Luca Matranga, questo è un buon contributo. Presumo che tale
inchiesta sia stata svolta in inglese e abbai coinvolto specialmente persone
negli USA. Rimane comunque significativo per le problematiche elencate.
Certamente, oltre ai motivi perché «tu», credente, hai abbandonato una
certa chiesa (coinvolgimento personale), bisognerebbe tener presente (e farne
oggetto d’inchiesta) i seguenti aspetti di terzietà:
● Secondo te, che sei un membro di una comunità, perché le persone
abbandonano la propria chiesa?
● Secondo te, che sei un missionario, un
conduttore di chiesa o una persona impegnata in essa, perché le
persone abbandonano la propria chiesa?
Soltanto così il quadro potrà risultare più
completo.
■
Luca Matranga:
Prego, Nicola Martella, sì, in effetti, è uno studio fatto negli Stati Uniti,
e io ho riassunto solo i dati relativi al «perché» una persona va via
dalla chiesa. In realtà lo studio era molto più complesso, e riguardava molto la
crescita e la
decrescita delle comunità, e il perché. C’erano anche altri risultati.
{10-10-2012}
6. {}
▲
7. {}
▲
8. {}
▲
9. {}
▲
10. {}
▲
11. {Vari
e medi}
▲
■
Maurizio Marino: Una
separazione è sempre dolorosa. Non prenderei in considerazione quei «credenti»,
che spessissimo vanno di qua e di là, calunniando e sparlando. Per un cristiano,
discepolo di Gesù, nato di nuovo magari nella sua chiesa di appartenenza, il
separarsi dalla propria chiesa locale dovrebbe avvenire in accordo con la
propria chiesa, per fondare o aiutare comunità nascenti. In caso contrario,
si provoca una
ferita profonda nello spirito, che solo il Signore potrà guarire. In ogni
cosa, come fratelli, siamo chiamati a cercare il «pari consentimento».
Quando non c’è questo ingrediente speciale, la chiesa diventa una democrazia,
dove la maggioranza impone le proprie idee a scapito della minoranza; oppure
diventa una oligarchia, dove una cerchia ristretta (nella fattispecie i
conduttori) governa in modo assolutistico. In ambedue i casi la chiesa, secondo
me, perde quella caratteristica necessaria alla presenza del Signore,
trasformandosi in un realtà umana e carnale... altro che spirituale.
{14-09-2012}
■
Adolfo Monnanni: Molte
volte, questi problemi non vengono affrontati in modo limpido da tutti i
coinvolti. La chiesa, che
accoglie tutti, comunque non aiuta nessuno. Coloro, che respingono tutti,
danneggiano quanto la prima; con un dialogo serio davanti al Signore si
abbasserebbe il numero [di coloro, che vano via, N.d.R.]. Secondo me, vivere una
chiesa locale lontana sembra dare più libertà; in realtà avvicina alla
solitudine e al nemico. Quest’ultimo ha lo scopo di smembrare la chiesa locale
per indebolire la chiesa nel suo complesso. Tutti dovremmo meditare su questo.
{14-09-2012}
■
Edoardo Piacentini: L’unico
motivo valido, per lasciare la propria comunità, oltre al caso di un
trasferimento della propria residenza altrove, è quando il credente si
accorge che dal pulpito si predicano false dottrine o quando avverte il
bisogno spirituale di ricevere del cibo più sodo e una cura pastorale
più certa. {14-09-2012}
■
Giuseppe Ricciardi: Questo
fenomeno è
frequente, e devo dire che anche io l’ho fatto. La mia questione, però, era
che, quando frequenti una chiesa e dopo un po’ di tempo, scopri certe cose, che
non ti fanno piacere: i conduttori sono inappropriati al lavoro, che
svolgono, perché non hanno né le capacità né i requisiti; e molti hanno
rovinato chiese intere per la loro negligenza. {14-09-2012}
■
Giuseppina Fierro:
Non è possibile cambiare comunità. La Bibbia dice di non abbandonare la
comune adunanza! (Ebrei [10,25, N.d.R.]). Ciò può avvenire, solo se una persona
ha un dono come missionario. Comunque siamo un unico Corpo in Cristo!
{17-09-2012}
▬
Nicola Martella: Qui discutere
Ebrei 10,25 ci porterebbe troppo fuori tema. In ogni modo, esiste il caso
normale e le sue eccezioni. Abbiamo visto sopra che ci sono altri
casi legittimi, per cui è possibile abbandonare una comunità, ad esempio per
falsa dottrina insegnata o per gravi peccati tollerati o addirittura
praticati dai conduttori.
■
Matteo Cavallaro: Oggi
cambiare moglie, o marito, è come cambiare l’auto. E cambiare sesso, è come
andare dal parrucchiere. Come la stabilità di un albero dipende dalle sue
forti radici, così è chi ha la sua vita innestata in Cristo. Chi segue le orme
di Cristo, sta lontano dalle adulazioni e non va in cerca di un posto, dove
stare bene, in quanto solo in Cristo si trova la pace. Naturalmente, bisogna
trovare l’ospedale, dove i malati vengono curati, ma soprattutto bisogna
riconoscer di essere malati e di avere bisogno del dottore; infatti, non sono i
sani, ad avere bisogno del medico, ma i malati, questo è ciò che dice Cristo.
Cristo è la via, la verità e la vita; chi segue altre vie, cercando la
comodità, prima o poi, si accorgerà che tutto ciò, che ha, è solo vanità. Un
esperto conosce i funghi prima di mangiarli; per questo bisogna chiedere a Dio
Padre la sapienza, per poter discernere la strada da fare. {19-09-2012}
12. {Vari
e brevi}
▲
■
Zoila Guzman: A che serve
cambiare comunità (!), se il credente non è disposto a ubbidire Dio.
{14-09-2012}
■
Giacomo Bellini: Ma, quindi,
è
colpa dei conduttori, che non sanno accudire i loro membri? {14-09-2012}
▬
Nicola Martella: Non sempre è così. Chi
legge l'intero articolo di riferimento, se ne rende conto.
■
Agostino Di Giovanni: Quando
è possibile, è buono rimanere nella propria comunità. Diversamente si può
cambiare, per vari motivi, ma sarebbe bene chiedere cosa ne pensa Dio,
può darsi che Dio ha un piano particolare per ognuno di noi. {14-09-2012}
■
Alessio Rando: Si può
cambiare chiesa locale, ma i motivi devono essere legittimi, non secondo le
proprie voglie! {15-09-2012}
■
Silvano Creaco: Grazie,
Nicola, per questi articoli che mettono alla luce seri e reali problemi.
{17-09-2012}
■
Gianfranca Dettori: Bisogna
che se ne parli perché è un fenomeno in crescita. Sono molto interessanti le
scappatoie, che vengono usate, per giustificare le diserzioni dalle proprie
comunità. {17-09-2012}
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Cambia_comunita2_Esc.htm
21-09-2012; Aggiornamento: 16-10-2012 |