Il «Giobbe» di turno e i soliti «amici»
Qualcuno ha chiamato il «bastonare chi piange» una strana
«traduzione» della Bibbia nel comportamento corrente.
Che la malattia o la sofferenza separi è mostrato da
tanti salmi, in cui gli autori constatano che tutti li hanno abbandonati e di
sentirsi, perciò, come già socialmente defunti e messi nel silenzio della tomba.
«Bastonare chi piange»: questo potrebbe essere
l’atteggiamento di alcuni cristiani. Non è nulla di nuovo, poiché nel libro di
Giobbe ciò trova eloquente incarnazione negli interlocutori di questo patriarca.
Venuti da luoghi diversi con l’intenzione di consolare il malcapitato Giobbe, si
trasformarono nei suoi aguzzini morali. Chi partì dalla tradizione dei padri,
chi dalla teodicea (giustificazione di Dio), chi dà un’esperienza trascendente
particolare e chi, magari, dalla logica — essi tutti arrivarono a questa
conclusione sulla base della cosiddetta «dottrina del contraccambio»: ▪ 1) Tu
soffri, ma Dio non ne è responsabile, poiché non commette ingiustizie; ▪ 2)
Allora tu sei punito da Lui per una particolare empietà, ma quando la
confesserai Egli ti ristabilirà; ▪ 3) Visto però che ti ostini a difendere la
tua innocenza, sei doppiamente colpevole; ▪ 4) Tu eri per noi un esempio di
morale biblica, ma ora scopriamo che era tutta una facciata: Giobbe ci fai
ribrezzo! In fondo, visto che sei impenitente, ben ti sta quanto ti è avvenuto!
Quanti di questi sentimenti accompagnarono i discepoli
di Gesù? (Gv 9,2). Quanti di questi atteggiamenti condizionano i rapporti dei
cristiani fra di loro? Che cosa fare per porvi rimedio? Come correggere
l’atteggiamento del «bastonare chi piange»?
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Daniele Manigi} ▲
«Piangere con chi piange» o «bastonare chi
piange»?
Noi evangelici vogliamo far capire l’amore di Dio e che Dio risponde alle
preghiere. Di fronte alla prova del fratello, però, siamo spesso inadeguati e
tendiamo ad assomigliare agli «amici di Giobbe». Insomma, «piangere con chi
piange» (cfr. Rm 12,15) non è facile e mi è venuto di mettere in bocca a
qualcuno quanto segue:
Sono felice perché Dio mi benedice;
leggo il Salmo 23, che più belli no ce n’è.
Sei angustiato?!
È certo che hai peccato!
Un fratello in fede mi salutava con un «arrivederci in salute» e io l’ho a lungo
interpretato come un auspicio: era invece una condizione; infatti,
quando sono caduto nella prova, è stato incapace di essermi vicino. Egli ha
avuto però un pregio non da poco, perché se ne è reso conto e, incontrandomi per
strada, mi ha detto: «Fratello, vorrei venire a trovarti, ma non ne ho il
coraggio». E dire che proprio lui, quando anni prima gli si era presentato un
padre, chiedendo aiuto per il figlio indemoniato, non si era impressionato e
aveva presto risolto il problema; evidentemente una sedia a rotelle lo
spaventava più del diavolo!
Ho pensato di intervenire su questo tema perché mi ha
appena scritto un’amica, raccontandomi un’esperienza emblematica, che fa vedere
come certi episodi non siano occasionali, ma strutturali. Non per criticare
in massa
noi evangelici (Dio ci guardi dal porre l’accento sul negativo), ma per
prendere maggiormente coscienza di quei difetti che si accompagnano alle nostre
virtù; non bisogna evidentemente diminuire le virtù, ma è necessario riparare i
difetti, per così tendere alla perfezione ingiunta da Gesù.
2.
{Donata B.} ▲
Nota redazionale: Il seguente contributo è nato in seguito alla lettura dell’articolo
«Riflessioni
sulla sofferenza» di Ermenegilda Alunno Paradisi.
Banalità retoriche o vicinanza umana?
Mia figlia, alla nascita, ha avuto diversi problemi, perché era sottopeso e non
riusciva a digerire, necessitando anche di trasfusioni. Visto con il senno di
poi, non era niente di grave: è stata curata bene, velocemente e in maniera
definitiva, grazie a Dio. Ma nella sua prima settimana di vita non lo potevamo
sapere (e l’impressione netta è che neanche i medici lo sapessero, anche se
dicevano di essere «ottimisti», tanto è vero che pensarono bene di farle
un’ecografia al cervello per vedere se avesse riportato dei danni).
Appena tornata a casa, quando ancora mi dovevo
riprendere, una sorella per telefono mi fece un predicozzo pieno di luoghi
comuni (evangelici) sul significato della sofferenza e di come Dio la usi per
darci dei messaggi, delle correzioni e così via. Capisco le sue buone intenzioni
(e le sono anche grata per lo scopo che si prefiggeva), ma sinceramente mi ha
fatto rabbia. Infatti, pensavo: «Che razza di messaggio è se non posso
comprendere?! E qual è il padre che darebbe una correzione senza far neanche
capire al figlio per che cos’è?! Soprattutto, cosa c’entra mia figlia?»
Dopo qualche tempo, un’altra sorella ha avuto un
bambino, nato con una malformazione. Per lui, le cose sono state veramente dure,
viavai da un ospedale all’altro e tuttora deve periodicamente tornare sotto i
ferri, anche se per operazioni molto più leggere della prima. A distanza di
alcuni mesi dalla nascita del figlio, la mia amica mi ha detto che le hanno
telefonato tutti della chiesa, ma che io ero l’unica ad averle fatto veramente
sentire la vicinanza e la comprensione. Cosa avevo fatto o detto di speciale?
Nulla, assolutamente nulla. La chiamavo per sentire come andava, esattamente
come le altre. Ma probabilmente nel tono della mia voce avrà sentito che sapevo
perfettamente cosa ti si spezza dentro, quando nella testa realizzi
improvvisamente che tuo figlio potrebbe morire.
Le prediche di chi non è passato attraverso certe
esperienze hanno sempre qualcosa di freddo, teorico o, peggio, crudele («Io che
non soffro, spiego a chi soffre come ci si comporta in questi casi»). E, a
volte, sono condite di banalità che suonano come una beffa.
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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/1-Bastonare_chi_piange_EnB.htm
26-04-2007; Aggiornamento: 30-12-2008
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