La tirannia della paura
Abbiamo parlato della preghiera «magica», ma a essa si aggiungono altri elementi
concomitanti; infatti bisogna anche tener presente il presupposto di fondo su
cui essa si basava. Se non ne teniamo conto probabilmente ci lasciamo sfuggire
l’altro polo fondamentale dell’insegnamento di Gesù sulla preghiera.
Di questo Gesù ci dà una traccia con le parole che introducono il «Padre nostro»
(v. 9): «il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, anche
prima che gliele chiediate» (v. 8). A prima vista, esse paiono un
riferimento alla prescienza di Dio, ma la cosa interessante è che vengono
contrapposte a ciò che fanno i pagani quando pregano, e quindi alla loro
ricerca spasmodica dell’esaudimento. Con questa frase Gesù mostra che alla base
di questo modo di pregare dei pagani c’è il rapporto che essi hanno con i loro
bisogni, o, per meglio dire, con «le cose di cui avete bisogno». Il
termine «avete» traduce un verbo greco (echete) che indica il
possesso di cose perlopiù materiali. Questo è confermato dal termine «bisogno»,
il cui corrispondente greco (chreian) deriva dal termine mano (cheir).
Il senso è dunque quello di «cose che si possono tenere nella mano», quindi cose
materiali.
Gesù non addita questi bisogni perché sono i «nostri bisogni» e
riguardano «cose materiali», ossia non sono sufficientemente altruisti o
«spirituali». La richiesta che Gesù insegna più avanti: «Dacci oggi il nostro
pane quotidiano» (v. 11), che è una richiesta «per noi» (dacci) e
riguarda cose materiali (il pane). Neppure al verbo usato (aiteô)
si deve dare un valore peggiorativo, visto che viene usato più avanti per
spronare i discepoli a chiedere in preghiera (7,7-11), senza specificare
un oggetto particolarmente «altruistico» o «spirituale». Anzi, l’esempio che lì
fa del figlio che «chiede un pane» (7,9), richiama proprio un tipo di
richiesta orientata verso i nostri bisogni materiali. Più semplicemente Gesù
dice che il Padre conosce i nostri bisogni, anche prima che li sottoponiamo alla
sua attenzione. Dov’è allora il punto?
È estremamente importante per la comprensione di queste parole, il fatto che
esse compaiano, più avanti, nel brano del «sermone sul monte», dove Gesù parla
delle preoccupazioni (v. 32). Anche li vengono contrapposte a quanto
fanno i pagani: «Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che
berremo? Di che ci vestiremo?”. Perché sono i pagani che ricercano tutte queste
cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose»
(v. 31-32).
L’argomento qui non è la preghiera, ma qualcosa che spesso le soggiace: i nostri
bisogni più essenziali (ossia le cose che ci preoccupano) e il modo in cui li
affrontiamo (con più o meno agitazione). Ed è il modo in cui trattiamo questi
bisogni che spesso determina la nostra preghiera e rivela cosa domina il nostro
cuore (cfr. v. 21). Ecco perché la frase risolutoria «il Padre vostro sa…»
compare sia in questo brano (v. 32) che in quello del «Padre nostro» (v. 8).
In questo contesto (vv. 25-34) si capisce che è la paura, l’ansia,
l’agitazione per i propri bisogni (mangiare, bere, vestire, v. 25),
l’affanno, la preoccupazione che determinano l’esistenza dei pagani
(v. 32). Questa paura dilata la giusta proporzione delle cose e porta a una
tirannia dei nostri bisogni sulla nostra stessa vita. Il «vestito»
diventa più importante del «corpo» e il «nutrimento» più
importante delle «vita» (v. 25). Il proprio «valore» è misurato
dal valore che si dà a queste cose (v. 26). «Aggiungere» (v. 26),
accumulare, cercare «l’abbondanza» (cfr. Lc 12,15) diventa più
importante. La «ricerca» (v. 32) di queste cose diventa dominante e
imperiosa. Diventa una priorità (v. 33). Il tempo viene visto in modo
minaccioso, perché porta con sé l’incognita del «domani» (v. 34). Tutto
questo produce tensione e «affanno» (v. 34). Da qui l’ingiunzione: «Cercate
prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più»
(v. 33).
Questa paura è tanto più acuita dalla loro concezione impersonale di Dio. Il
loro Dio, in quanto idolo fatto di pietra, di legno o di terra non lo si
distingue da tutte le altre cose. Le cose diventano personificazione d’una
divinità (Mammona v. 24). Si «confida» in esse come in un Dio (Mc
10,24). Esse diventano un’estensione dell’idolo. Ciò che si proietta sull’idolo,
lo si proietta su tutte queste altre cose. Esse riflettono il proprio delirio
d’onnipotenza. E a tal fine ci si mette al loro «servizio» (v. 24).
Occuparci e preoccuparci di queste cose diventa un «servire» idolatrico (v. 24).
La nostra proiezione d’onnipotenza diventa in realtà una schiavitù, perché il
vero «padrone» diventa Mammona (v. 24). Per questo Gesù chiama le
ricchezze un «inganno» (Mt 13,22) e le pone insieme alle «preoccupazioni»
quali cose che soffocano la vita spirituale prodotta dalla Parola di Dio (Lc
8,14).
Questa paura si riflette anche sulla preghiera e il suo esaudimento. Il verbo «ricercano»
(v. 32), nel greco è epizêteô, che vuol anche dire «desiderano, chiedono
insistentemente, chiedono a gran voce». Mossa da questa «pulsione» (la paura),
la preghiera diventa ricerca
affannosa dei propri bisogni. L’attenzione è tutta focalizzata su se
stessi e sulle cose. La preghiera assume una forte connotazione egoista e
materialista. La richiesta «per sé» e la richiesta di «cose materiali» diventa
dominante e prioritaria. L’oggetto della preghiera è tutto qui. Tutto
è in funzione dei nostri bisogni, persino Dio, il quale non ha più un valore
proprio, in quanto persona, ma un valore strumentale. Il vero Dio sono i nostri
bisogni e la nostra paura. La «preghiera» e «Dio» stesso sono strumenti al
servizio di questi bisogni.
L’ansia di conseguire i nostri bisogni sposta il baricentro della preghiera
dalla semplice richiesta alla ricerca affannosa e spasmodica dell’esaudimento.
Essa è focalizzata tutta sul risultato. L’esaudimento diventa «esaudimento a
tutti i costi» e «il più presto possibile». L’esaudimento è più importante di
Dio e le sue benedizioni più ricercate della sua persona. Il «no»
è inaccettabile. Ma la paura fissa anche i «tempi» dell’esaudimento. Questi
tempi sono fortemente contratti. L’esaudimento deve avvenire in tempi brevi. La
sollecitudine per i propri bisogni crea un esaudimento a propria immagine e
somiglianza: un «esaudimento sollecito». L’uomo non può reggere a lungo
l’affanno e la tensione. L’affanno deve esserci solo «oggi», non anche «domani».
Non si può aspettare. I tempi dell’uomo sono molto corti. Per questo,
l’esaudimento deve avvenire «oggi». Ma quando scopre che i tempi di Dio sono
lunghi (cfr. 2 Pt 3,8), allora finisce per usare la preghiera in senso
manipolatorio.
Da tutto ciò risulta evidente che il lato problematico della preghiera di
richiesta, quella che facciamo per noi, per i nostri bisogni e per quelle cose
anche materiali che rientrano in questi bisogni, non è dato da queste cose di
per sé, ma dal rapporto distorto che noi abbiamo con esse. Un rapporto che è
dominato dalla paura, la quale dà un carattere ossessivo, eccessivamente egoista
e materialista alla nostra vita e quindi alla preghiera. È la paura che imprime
alla preghiera questo carattere distorto. Essa sposta la priorità della
preghiera, contrae i suoi tempi e le dà un valore manipolatorio.
Dalla
manipolazione all’invocazione
Quello che Gesù dice intorno al modo pagano e quello giudaico di pregare,
delimita i confini della preghiera cristiana, ci aiuta a capire dove si trova il
suo confine. Il confine è che la preghiera non deve essere manipolatoria,
cioè dominata dalla logica del merito e dalla tirannia della paura, né volta a
mercanteggiare con Dio o a estorcere il suo esaudimento. Ma qual è il cuore
della preghiera? Lo scopriamo nelle prime parole della preghiera modello che
Gesù ci ha lasciato: «Padre nostro che sei nei cieli». La parola «Padre»
può essere tradotta anche con un più familiare e domestico «Papà». Il cuore
della preghiera è la fiducia con cui possiamo rivolgerci a un Papà che ci vede,
ci ascolta, ci conosce perfettamente e provvede ai nostri veri bisogni.
Le parole d’apertura del «Padre nostro» mostrano che la preghiera cristiana è
anzitutto invocazione. «Invocare» deriva dal latino «vocare», che
significa chiamare. In secondo luogo, significa anche chiedere, implorare,
appellarsi. Invocare può anche voler dire «chiamare qualcuno per chiedere
aiuto». Ma, prima di tutto, significa dare valore alla persona che s’invoca,
alla sua autorità e potenza e, in virtù di questo, chiedere che si muova in
nostro soccorso. La preghiera cristiana è proprio questo: invocare Dio e la sua
azione. Non si tratta di presentargli il conto dei nostri meriti. Non si tratta
di strappargli il suo esaudimento. Si tratta d’entrare in un rapporto personale
col Padre, quindi in un rapporto filiale, in virtù del quale chiedere il suo
favore e il suo aiuto.
Ogni preghiera che prescinde da questo rapporto personale e filiale è una
manipolazione. Ogni preghiera che mette l’esaudimento al di sopra della semplice
richiesta, aspettante e fiduciosa, pensando d’aver trovato la via per avere
tutto e subito, è una manipolazione. Dio la sente, ma non la ascolta. Egli è un
Dio che si rivela quale Papà amorevole e provvidente, ma che si nasconde a ogni
nostro tentativo di manipolarlo. La preghiera cristiana dev’essere indirizzata a
Lui quale destinatario principale e referente diretto. Il «nostro» deve
avere una valenza di possesso, da significare «mio», personale, ma non talmente
personale da sfociare in un rapporto esclusivista e isolazionista. «Padre
nostro» non significa che ne ho l’esclusiva. Il mio «merito» non mi dà nessuna
priorità. Egli è anche Padre del mio fratello «più peccatore» e di quello «meno
meritevole».
Ancora oggi il confine tra preghiera cristiana e preghiera religiosa o pagana è
segnato dal confine tra invocazione e manipolazione. L’invocazione chiama Dio
«Padre» e confida nella sua
volontà: essa è soprattutto richiesta e abbandono. La manipolazione invece,
tratta Dio come un idolo, in modo impersonale e strumentale ai propri bisogni e
ansie: essa ricerca soprattutto l’esaudimento. Nel primo caso, l’azione
determinante è quella divina, che l’orante invoca e alla quale adegua la sua
azione. Nel secondo caso, l’azione determinante è quell’umana, alla quale
l’orante dà il valore eccessivo, quasi magico di poter plasmare l’azione divina.
Questo è per Gesù l’epicentro della preghiera, il suo passaggio obbligato,
«l’arco di trionfo» dove ogni preghiera entra da vincitrice o da sconfitta.
Molti libri si scrivono sulla preghiera, dove si
dicono anche cose interessanti. Ma forse andrebbero riletti alla luce delle
considerazioni di Gesù sulla preghiera modello. La critica radicale di Gesù
contro ogni preghiera manipolatoria, il cui epicentro non è più la richiesta
semplice, umile e dipendente da Dio, ma la ricerca spasmodica dell’esaudimento,
la richiesta sufficiente a se stessa, la risposta e non più la sola domanda,
andrebbe presa più sul serio. Forse ci si renderebbe meglio conto che si è
paurosamente vicini al confine che Gesù ha assegnato alla preghiera cristiana o
…forse lo si è già superato. Forse bisognerebbe già rivedere molti «titoli»[7]
intorno alla preghiera. Forse d’alcuni libri si dovrebbe salvare solo il titolo.
Forse dovremmo imparare a rivedere alcune espressioni,
tipo «l’arma della preghiera»[9],
«osare in preghiera», «fede vittoriosa», ecc. È vero che spesso, il nostro
linguaggio ha un valore fenomenologico e diciamo una cosa per intenderne
un’altra. Anche la Bibbia fa dichiarazioni tipo «la preghiera della fede
salverà il malato» e «la preghiera del giusto ha una grande efficacia»
(Gcm 5,15s), senza per questo dare un valore magico alla preghiera o farne un
motivo di vanto umano. Ma quanti sanno oggi fare questa distinzione? Quanti,
sentendosi ripetere la «potenza della preghiera», senza precisazioni ulteriori,
capiscono che la potenza è in Dio e che loro non devono esaltarsi in nessun
modo? Quanti capiscono che la preghiera è un momento estremamente umano, dove ci
presentiamo a Dio con tutta la nostra debolezza e miseria di «poveri in spirito»
(Mt 5,3), per sperimentare così, e soltanto così, la grazia e la potenza di Dio?
Quanti sanno che la vittoria non è nel nostro atteggiamento di fede, ma nella
risurrezione di Gesù Cristo? Quanti sanno distinguere «la destra dalla
sinistra»?
Purtroppo,
atteggiamenti e formule manipolatorie vengono spacciate per vera fede. È
interessante che nelle istruzioni sulla preghiera modello del «Padre nostro»,
non si parli per niente della fede, tantomeno della «fede efficace», né della
«preghiera efficace». In Mt 7,7-11 si dice: «Chiedete e vi sarà dato; cercate
e troverete; bussate e vi sarà aperto», ma l’enfasi non è sul «bussare» o
sul «trovare», ma sul «Padre vostro, che è nei cieli», che dà «cose
buone a quelli che gliele domandano» (v. 11). L’enfasi principale è sulla
bontà di Dio. Più avanti Gesù parlerà della fede che «può spostare le montagne»
(Mt 17,20), ma qui nessun accenno. Che sia proprio per togliere ogni valore
manipolatorio alla fede? Di sicuro, col «Padre nostro» Gesù ha voluto sancire la
priorità del rapporto personale con Dio, rispetto ai suoi risultati per noi
(esaudimento dei nostri bisogni). Una volta stabilito questo punto, diventa meno
problematico parlare di «fede che sposta le montagne». Del resto, sulla scia di
Mt 6,8.30.32, si può dire che il modello di preghiera insegnato da Gesù nasce da
un atto di profonda fiducia, in un Dio che si prende cura di noi e dei nostri
bisogni, fiducia che è anzitutto in Dio e poi nelle sue benedizioni.
Altre volte si può notare un rapporto distorto con le
promesse di Dio. Dio viene quasi «inchiodato alle sue responsabilità». Ci
comportiamo come dei «creditori», che vogliono avere subito il «loro credito» e
non danno più dilazioni di tempo. Fissiamo a Dio un esaudimento in «trenta
giorni». Tuttavia, il rapporto fede-promesse, nella Bibbia è mediato dal
tempo. La fede biblica ha una connotazione fortemente temporale. L’esaudimento
non è fine a se stesso, ma la tappa d’un disegno più grande, che Dio sta
dispiegando nel tempo. Ecco perché l’esaudimento, l’adempimento delle promesse e
la fede rispondono ai tempi di questo disegno e non ai nostri tempi. E il modo
in cui la Scrittura ci parla dell’adempimento di promesse chiare e
inequivocabili, come la promessa a Abramo d’un figlio (Rm 4,18-21; Eb 11,8-12) e
la promessa ai discepoli di Gesù del ritorno del Signore (2 Pt 3,8s), ci mostra
che il tempo dell’adempimento e dell’esaudimento è interamente nelle mani del
Signore.
La logica del «tutto e subito» spacciata per fede trionfante, non lo scalfisce,
non muta il suo disegno, non accorcia i suoi tempi. «Osare» in preghiera, non
può mai avere il senso di pretendere in modo sfrontato, ma solo quello di
chiedere senza paura, senza timore, in modo fiducioso (Mt 7,7-11). La fede
trionfante la si vede nel tempo. Lo scopo che Dio persegue è più grande del
nostro e ci riguarda più da vicino, dello scopo «immediato» che noi perseguiamo.
«Il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate»,
significa anche questo: Dio non si è dimenticato delle cose che avete bisogno,
anche se vi fa aspettare per averle; il vostro gran da fare per estorcergliele
non serve a niente.
Forse dovremmo prendere coscienza che le concezioni e le abitudini della vita
vecchia, possono benissimo implementarsi nella nostra «nuova» vita in Cristo,
dandoci persino un’aureola di spiritualità, pur restando ancora «abituati
all’idolo» come i cristiani deboli di Corinto (1 Cor 8,7). Imparare a
pregare significa imparare a liberarci da ogni nostra idolatria. Sino alla fine
dobbiamo imparare a pregare, perché «non sappiamo pregare come si conviene»
(Rm 8,26). Sino alla fine dobbiamo fare l’esperienza che la preghiera non è
assolutamente il luogo della nostra forza, ma della nostra debolezza che
incontra la potenza di Dio. Sino alla fine dobbiamo riposizionarci all’interno
d’una preghiera che non è manipolatoria, ma cristiana.
[9]
Dove sta scritto che la preghiera è un’arma? La Scrittura parla di «combattere
nelle preghiere» (Rm 15,30; Col 4,12), ma quando parla di «armatura del
credente» proprio alla preghiera non associa nessun tipo d’arma (Ef 6,17s) e
quando parla di «armi della nostra guerra» sembra più opportuno vedervi
un riferimento alla Parola di Dio che alla preghiera (2 Cor 10,4s).
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13-11-2007; Aggiornamento: