Nota redazionale: Il titolo
originario recitava «la preghiera cristiana» e si proponeva come «considerazioni
sul “Padre nostro” (Mt 6,5-15)». La lettura dell’intero articolo mostra che in
effetti si tratta di molto di più… ossia della difesa della preghiera biblica
dagli arbitri, abusi, strumentalizzazioni e manipolazioni da parte di religiosi
e pagani. Triste è quando i cristiani attingono anch’essi a tali fonti
superstiziose e rendono la preghiera un «feticcio» o una «bacchetta magica»,
sebbene mascherati da pie parole... {Nicola Martella} |
Dalla preghiera
alla «preghiera cristiana»
Da sempre, la preghiera è stata un momento di «incontro» dell’uomo col mistero,
col suo simile e con se stesso. Essa è un fenomeno così universale, che può, a
ben diritto, figurare quale oggetto di studio dell’antropologia, della
sociologia e della psicologia. Ma proprio per questo suo carattere universale
(cfr. Gna 1,5), bisogna fare una chiara distinzione tra preghiera e «preghiera
cristiana». Questo è ciò che fa Gesù, col «sermone sul monte», quando introduce
il cosiddetto «Padre nostro» (Mt 6,5-15). Egli prende le distanze dal modo di
pregare dei religiosi ebrei (v. 5), dal modo di pregare dei pagani (v. 7) e
insegna ai suoi discepoli «come»
pregare (Mt 6,6.8.9-15).
La cosa è ancor più rilevante se si pensa che qui, «ebrei e pagani sono misurati
sullo stesso metro».[1]
Pur dicendo cose differenti d’entrambi, ad ambedue contrappone il vero modo di
pregare. Gesù non si fa scrupoli di rompere quella sorta di «privacy» e
«impunità» della preghiera (o dell’orante), secondo cui, essa è qualcosa di così
personale, che nessuno può metterci parole. Gesù mostra che il corretto pregare
è più importante del pregare in sé, del «pregare e basta», «l’importante che si
preghi». Le cose che Gesù dice qui sulla preghiera costituiscono il passo
obbligato per una retta comprensione della «preghiera cristiana» e per la sua
applicazione.
Il pensiero di Gesù sulla preghiera può essere così riassunto: la preghiera
cristiana
non è un modo per manovrare gli uomini (e Dio) come nella religione giudaica (v.
5), o un modo per manipolare la divinità come nel paganesimo (v. 7), ma è un
mezzo per entrare sempre più in sintonia con il Padre (v. 6), il suo
piano (o regno) e la sua volontà (v. 10). Il termine manipolare,
pur essendo un termine «moderno» rende molto bene ciò che Gesù voleva dire: esso
significa, tra l’altro, «alterare, contraffare, condizionare il comportamento di
qualcuno senza ricorrere, apparentemente, alla coercizione».[3]
Indica dunque un’azione subdola volta a strappare consensi e favori per vie
traverse. Questo è quello che facevano i religiosi ebrei e i pagani quando
pregavano.
La preghiera ipocrita
L’intento manipolatorio del mercanteggiare con Dio si vede ancor meglio nella
parabola dei «lavoratori delle diverse ore» (Mt 20,1-16), dove i
lavoratori che hanno lavorato tutta la «giornata» vogliono «rinegoziare»
il loro salario, sulla base del fatto, che hanno lavorato più degli altri.
Quanto dato agli altri, diventa il metro per misurare ciò che viene dato a loro.
Il riferimento ai farisei è evidente. Di loro Gesù dice che «mormoravano
contro il padrone di casa» (v. 11).
In questa logica del merito, Dio non è più libero di fare ciò che vuole, né
d’essere «buono» (v. 15). Egli viene misurato dalla nostra logica. La
nostra «propria giustizia» misura la giustizia di Dio. Perdiamo il senso e il
limite della nostra umanità (cfr. Rm 9,20). Prendiamo Dio per il «bavero». È
così che la preghiera diventa pretesa, protervia, rivendicazione dei nostri
diritti, tentativo di strappare il favore di Dio, di manipolarlo, d’inchiodarlo
alle «sue responsabilità». Ma le parole: «Amico, non ti faccio alcun torto;
non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene»
(v. 13-14), ci ricordano che Dio dà pienamente quello promette e nessuno può
rinfacciargli alcunché.
Anche nella parabola del «figlio prodigo» (Lc 15,11-32), il «figlio
maggiore» che s’adira col padre, per l’accoglienza che ha riservato al
figlio «peccatore», finisce per rivolgersi a lui, non con umiltà, ma per
rivendicare i propri diritti, i propri meriti, la propria giustizia: «Ecco,
da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando» (v. 29). La
sua ubbidienza era diventata merce di scambio, strumento di persuasione e di
manipolazione per ottenere il favore del padre: «A me però non hai mai dato
neppure un capretto per far festa con i miei amici» (v. 29). Il peccato del
fratello minore era l’elemento che faceva risaltare il suo merito e che gli
dava, a suo modo di vedere, il diritto di giudicare il padre: «Ma quando è
venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai
ammazzato per lui il vitello ingrassato» (v. 30).
Questa logica del merito e «di mercato» aveva abbruttito il suo rapporto filiale
col padre. Non riusciva a concepire che il padre amasse ancora il figlio che
aveva dilapidato la sua eredità. Gli rinfaccia che «questo tuo figlio che ha
sperperato i tuoi beni». Per lui, essere figlio o essere padre, non era un
legame di fondo, che non si spezza mai, ma qualcosa di fluttuante, legata
all’eredita famigliare e al merito. Su questa base egli valuta il suo essere
figlio e quello del fratello: «Da tanti anni ti servo» e «lui ha
sperperato i tuoi beni». Su questa base egli valuta l’essere padre: «A me
non hai mai dato neppure un capretto» e «tu hai ammazzato per lui il
vitello ingrassato». Ed è su questa base che egli disprezza il «fratello»
minore: «questo tuo figlio». Avendo smarrito il senso della figliolanza e
quello della paternità, ha anche smarrito quello della fraternità. È il padre
che gli ricorda chi è il figlio minore: «questo tuo fratello» (v. 32).
Ma il punto nevralgico di questo modo di pensare è proprio il modo in cui si
concepisce il padre. La preoccupazione del «figlio maggiore» era che,
vista l’accoglienza riservata al «figlio peccatore» e visto che aveva
sperperato
tutto, il padre avrebbe diviso nuovamente l’eredità rimasta, che di diritto
spettava tutta a lui (v. 12). La sua paura di fondo è che il padre avesse agito
ingiustamente e che la sua eredità si sarebbe ridotta considerevolmente. Da qui
la rassicurazione del padre: «Ogni cosa mia è tua» (v. 31).
Dio è un padre che non fa parzialità (1 Pt 1,17). Egli retribuisce in modo equo
il merito del figlio giusto e ubbidiente. Ma, in quanto padre, era giusto
accogliere anche il figlio peccatore che gli chiedeva perdono: bisognava
farlo (v. 32). Proprio la sua paternità lo spingeva a fare così. Questo legame
non lo cancella il demerito d’un figlio e non lo accentua il suo merito. Egli è
padre d’entrambi.
Si capisce così che la critica di Gesù non riguarda tanto la forma o le
dimensioni della preghiera, il suo look e la sua cosmesi, quanto
l’atteggiamento dell’orante pagano, la sua concezione di Dio e la sua concezione
della preghiera. La sua idea di Dio era vaga, imprecisa e imperfetta. Egli
invocava un Dio senza nome e senza volto, un Dio sconosciuto e impersonale
(l’idolo appunto). Un Dio che non vede, che non ascolta, che non sa e che non
può salvare (cfr. Is 44). Insomma, un Dio manipolabile con la «forza» delle
parole o, come traduce qualche versione, «credono di venire ascoltati a forza
di parole» (CEI).
La preghiera in sé, aveva assunto un valore troppo alto, un valore «magico». Le
s’attribuiva il potere d’influire sulla divinità, per avere le sue benedizioni e
mutare i suoi disegni. La semplice richiesta era diventata ricerca spasmodica e
ossessiva dell’esaudimento, dominata da un certo delirio d’onnipotenza.
S’attribuiva alla preghiera una sua «efficacia», una sua «potenza» e una sua
«forza». La formulazione era determinante e con essa la ripetizione e la
cantilena. Tutto era molto automatico e meccanico.
La preghiera diventa così richiesta sufficiente a se stessa. Essa diventa anche
la risposta, non più solo la domanda. Non è più domanda che attende la
risposta, ma domanda che
produce la risposta. La causa «efficiente» che porta al risultato è insito
in se stessa. Il risultato, non è più «un esaudimento», ma un «fai da te». Non è
più il frutto d’un «far udire», ma d’un «darsi da fare», un manipolare. Questo è
l’epicentro della «preghiera magica», quella tutta incentrata su se stessa,
sulla «sua» formulazione e sulla «sua» efficacia.
Qui abbiamo presentato la prima parte di questo studio sulla preghiera. Nella
seconda parte sono contemplati i seguenti aspetti:
■ La tirannia della paura
■ Dalla manipolazione all’invocazione
Sul «Padre nostro» vedi le domande di controllo in Nicola Martella,
Matteo, l’evangelista dei giudei
(Punto°A°Croce, Roma 1999), pp. 17s.
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► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A2-Preghiera_abusi1_Mt.htm
13-11-2007; Aggiornamento:
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