Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

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Nello stesso libretto sono contenute le domande per lo studio e il dizionarietto, dove trovare le risposte.

   Ecco le parti principali della parte di studio:
■ Introduzione all'Evangelo di Matteo
■ Nascita, battesimo e tentazione (Mt 1,1-4,11)
■ Attività in Galilea (Mt 4,12-16,12)
■ Istruzione dei dodici (Mt 16,13-18,35)
■ Viaggio verso Gerusalemme e ultimi giorni in essa (Mt 19-25)
■ Crocifissione e risurrezione (Mt 26-28).

 

Inoltre ci sono, tra altre parti, anche le seguenti:
■ Dizionarietto
■ Guida allo studio personale e di gruppo.

 

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PREGHIERA BIBLICA FRA ARBITRIO E ABUSI 1

 

 di Tonino Mele

 

Nota redazionale: Il titolo originario recitava «la preghiera cristiana» e si proponeva come «considerazioni sul “Padre nostro” (Mt 6,5-15)». La lettura dell’intero articolo mostra che in effetti si tratta di molto di più… ossia della difesa della preghiera biblica dagli arbitri, abusi, strumentalizzazioni e manipolazioni da parte di religiosi e pagani. Triste è quando i cristiani attingono anch’essi a tali fonti superstiziose e rendono la preghiera un «feticcio» o una «bacchetta magica», sebbene mascherati da pie parole... {Nicola Martella}

 

Dalla preghiera alla «preghiera cristiana»

     Da sempre, la preghiera è stata un momento di «incontro» dell’uomo col mistero, col suo simile e con se stesso. Essa è un fenomeno così universale, che può, a ben diritto, figurare quale oggetto di studio dell’antropologia, della sociologia e della psicologia. Ma proprio per questo suo carattere universale (cfr. Gna 1,5), bisogna fare una chiara distinzione tra preghiera e «preghiera cristiana». Questo è ciò che fa Gesù, col «sermone sul monte», quando introduce il cosiddetto «Padre nostro» (Mt 6,5-15). Egli prende le distanze dal modo di pregare dei religiosi ebrei (v. 5), dal modo di pregare dei pagani (v. 7) e insegna ai suoi discepoli «come» pregare (Mt 6,6.8.9-15).

     La cosa è ancor più rilevante se si pensa che qui, «ebrei e pagani sono misurati sullo stesso metro».[1] Pur dicendo cose differenti d’entrambi, ad ambedue contrappone il vero modo di pregare. Gesù non si fa scrupoli di rompere quella sorta di «privacy» e «impunità» della preghiera (o dell’orante), secondo cui, essa è qualcosa di così personale, che nessuno può metterci parole. Gesù mostra che il corretto pregare è più importante del pregare in sé, del «pregare e basta», «l’importante che si preghi». Le cose che Gesù dice qui sulla preghiera costituiscono il passo obbligato per una retta comprensione della «preghiera cristiana» e per la sua applicazione.

     Il pensiero di Gesù sulla preghiera può essere così riassunto: la preghiera cristiana[2] non è un modo per manovrare gli uomini (e Dio) come nella religione giudaica (v. 5), o un modo per manipolare la divinità come nel paganesimo (v. 7), ma è un mezzo per entrare sempre più in sintonia con il Padre (v. 6), il suo piano (o regno) e la sua volontà (v. 10). Il termine manipolare, pur essendo un termine «moderno» rende molto bene ciò che Gesù voleva dire: esso significa, tra l’altro, «alterare, contraffare, condizionare il comportamento di qualcuno senza ricorrere, apparentemente, alla coercizione».[3] Indica dunque un’azione subdola volta a strappare consensi e favori per vie traverse. Questo è quello che facevano i religiosi ebrei e i pagani quando pregavano.

 

La preghiera ipocrita

     La critica di Gesù sul modo di pregare dei religiosi ebrei s’impernia sull’essere: «non siate». La preghiera era diventata infatti un atto d’ipocrisia (v. 5). Non era più solo un’azione diretta verso Dio, ma anche verso il prossimo. Era diventata manipolatoria. L’atto esteriore non esprimeva più l’atteggiamento del cuore.

     Verosimilmente, questo succedeva quando, in quelli che erano gli orari fissi della preghiera, la gente faceva in modo di trovarsi in posti come le «sinagoghe» e le «piazze», dove potevano ben «essere visti dagli uomini». La cosa non era casuale, ma voluta con uno scopo ben preciso: «amano» fare così, dice Gesù, «per essere visti». Il problema non era, dunque, il posto della preghiera, né la preghiera pubblica, ma lo scopo con cui pregavano.

     La preghiera veniva strumentalizzata, distogliendola da quello che è il suo scopo principale: comunicare con Dio. Il rapporto personale con Dio era mediato dal rapporto interpersonale. Oggi si direbbe che non era più la persona che pregava, ma il suo «personaggio». Del resto, la parola usata da Gesù, ipocriti, in greco indicava anche gli «attori» e i «commedianti». La preghiera era diventata un teatrino e una parodia. Tutto questo è confermato dalla reazione di Gesù, il quale, per sottolineare il valore del contatto personale con Dio usa un linguaggio quasi iperbolico: «Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo» (v. 6). Inoltre, il «tu», in greco (su) è in posizione enfatica, e compare solo qui in tutto questo brano, dove abbondano i plurali (pregate... usate, dacci... ecc.).

     Indubbiamente, le richieste al plurale del «Padre nostro» indicano che la preghiera cristiana è anche un momento collettivo, un mezzo per «influenzare» il prossimo, per edificare i fratelli (1 Cor 14,13-17). Per questo deve essere fatta con «parole intelligibili» (1 Cor 14,18), che abbiano un senso e un’accuratezza teologica, come del resto ce l’ha il «Padre nostro» e tutte le preghiere neotestamentarie (ma anche veterotestamentarie). Solo che questo è un aspetto che deve rimanere sullo sfondo: la preghiera cristiana è anzitutto diretta a Dio e solo di riflesso all’uomo, quale uditore indiretto, come colui che sente (in 3a persona) e non come colui che ascolta (in 1a persona).

     Non a caso la richiesta del perdono di Dio, dev’essere contestuale col perdono che noi dobbiamo dare agli altri (Mt 6,12), e pare che questo sia determinante per l’esaudimento d’ogni altra richiesta, visto che viene ribadito nel commento finale al «Padre nostro» (Mt 6,14s). Non a caso il fondamento (che è anche premessa) della preghiera comunitaria è l’accordo tra gli oranti (Mt 18,19) e la risoluzione dei conflitti interpersonali (vv. 15-18). È richiesto tutto questo, proprio per evitare, che la preghiera diventi un «insegnare», un cercare l’accordo mancato, un parlare diretto al fratello, e solo indiretto a Dio.

     Un cuore polarizzato sul risentimento, l’odio e la vendetta non riesce a parlare a Dio in 1a persona, ma parla anzitutto a se stesso e al prossimo che lo ascolta. Ed è interessante che Giacomo, in un brano che parla di «guerre e contese» tra fratelli dica: «Domandate e non ricevete, perché domandate male» (Gcm 4,1ss). L’ironia di queste preghiere è che si realizza proprio la nostra volontà: il fratello ascolta e Dio sente (nostro malgrado)!

 

La logica del merito

     Se non teniamo presente, nelle parole che dice Gesù sulla preghiera, il sistema religioso giudaico, rischiamo di farci sfuggire un punto essenziale. Questo insegnamento va inquadrato in una radicale presa di posizione contro la religiosità degli «scribi e dei farisei» (5,20). Approfondire quest’aspetto, ci aiuta a capire, come mai si dava tanta importanza alla preghiera «davanti agli altri». Gli «altri» rappresentavano per il religioso giudeo lo standard col quale misurare se stessi e persino Dio. Questo aspetto è molto ben esemplificato in alcune parabole di Gesù.

     Nella parabola del «fariseo e del pubblicano» (Lc 18,9-14), il fariseo fa l’elenco delle sue opere e le confronta con quelle del pubblicano, proprio perché egli trova in questo la misura del suo valore e del suo merito, ed è sulla base di ciò che egli pensa d’esser giustificato da Dio. La sua preghiera non è una richiesta umile a Dio per ottenere grazia, come quella del pubblicano, ma una sorta di «conto» che viene presentato a Dio per il pagamento. L’enumerazione delle sue opere sono le voci della spesa che Dio ha totalizzato e che deve pagare.

     Dove mai però Dio si è «obbligato» a pagare questo conto? Qual è il contratto che ha firmato? Il fariseo cita tutte cose scritte nella legge: «digiuno... pago la decima» (v. 12). I comandamenti di Dio, la sua legge, le sue promesse: ecco cosa, per il fariseo, inchiodava Dio alle sue responsabilità. Le promesse di Dio erano diventate una sorta di «pagherò», un «titolo al portatore», e la preghiera era il luogo dell’incasso. Solo che Dio, non si lascia manipolare così, nemmeno da chi cita la sua Parola. Infatti, il fariseo non «tornò a casa giustificato» (v. 14), anche se continuò a «esser persuaso d’essere giusto» (v. 9). Pensò che Dio avesse saldato il conto, e invece era lui ad avere ancora un grosso conto da regolare con Dio.

     «Questo è il premio che ne hanno» (Mt 6,5): il termine «hanno» (apexousin) proveniva dal mondo commerciale, dove veniva applicato sulle ricevute di pagamento, per indicare il saldo finale. Questa è la cosa curiosa: il tentativo di manipolare Dio si trasforma in un autoinganno. La manipolazione era diventata auto-manipolazione. La logica del merito, che trasforma la preghiera in pretesa, non impietosisce Dio. L’uomo è lasciato da solo con le sue illusioni.

     L’intento manipolatorio del mercanteggiare con Dio si vede ancor meglio nella parabola dei «lavoratori delle diverse ore» (Mt 20,1-16), dove i lavoratori che hanno lavorato tutta la «giornata» vogliono «rinegoziare» il loro salario, sulla base del fatto, che hanno lavorato più degli altri. Quanto dato agli altri, diventa il metro per misurare ciò che viene dato a loro. Il riferimento ai farisei è evidente. Di loro Gesù dice che «mormoravano contro il padrone di casa» (v. 11).

     In questa logica del merito, Dio non è più libero di fare ciò che vuole, né d’essere «buono» (v. 15). Egli viene misurato dalla nostra logica. La nostra «propria giustizia» misura la giustizia di Dio. Perdiamo il senso e il limite della nostra umanità (cfr. Rm 9,20). Prendiamo Dio per il «bavero». È così che la preghiera diventa pretesa, protervia, rivendicazione dei nostri diritti, tentativo di strappare il favore di Dio, di manipolarlo, d’inchiodarlo alle «sue responsabilità». Ma le parole: «Amico, non ti faccio alcun torto; non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene» (v. 13-14), ci ricordano che Dio dà pienamente quello promette e nessuno può rinfacciargli alcunché.

     Anche nella parabola del «figlio prodigo» (Lc 15,11-32), il «figlio maggiore» che s’adira col padre, per l’accoglienza che ha riservato al figlio «peccatore», finisce per rivolgersi a lui, non con umiltà, ma per rivendicare i propri diritti, i propri meriti, la propria giustizia: «Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando» (v. 29). La sua ubbidienza era diventata merce di scambio, strumento di persuasione e di manipolazione per ottenere il favore del padre: «A me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici» (v. 29). Il peccato del fratello minore era l’elemento che faceva risaltare il suo merito e che gli dava, a suo modo di vedere, il diritto di giudicare il padre: «Ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato» (v. 30).

     Questa logica del merito e «di mercato» aveva abbruttito il suo rapporto filiale col padre. Non riusciva a concepire che il padre amasse ancora il figlio che aveva dilapidato la sua eredità. Gli rinfaccia che «questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni». Per lui, essere figlio o essere padre, non era un legame di fondo, che non si spezza mai, ma qualcosa di fluttuante, legata all’eredita famigliare e al merito. Su questa base egli valuta il suo essere figlio e quello del fratello: «Da tanti anni ti servo» e «lui ha sperperato i tuoi beni». Su questa base egli valuta l’essere padre: «A me non hai mai dato neppure un capretto» e «tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato». Ed è su questa base che egli disprezza il «fratello» minore: «questo tuo figlio». Avendo smarrito il senso della figliolanza e quello della paternità, ha anche smarrito quello della fraternità. È il padre che gli ricorda chi è il figlio minore: «questo tuo fratello» (v. 32).

     Ma il punto nevralgico di questo modo di pensare è proprio il modo in cui si concepisce il padre. La preoccupazione del «figlio maggiore» era che, vista l’accoglienza riservata al «figlio peccatore» e visto che aveva sperperato tutto, il padre avrebbe diviso nuovamente l’eredità rimasta, che di diritto spettava tutta a lui (v. 12). La sua paura di fondo è che il padre avesse agito ingiustamente e che la sua eredità si sarebbe ridotta considerevolmente. Da qui la rassicurazione del padre: «Ogni cosa mia è tua» (v. 31).

     Dio è un padre che non fa parzialità (1 Pt 1,17). Egli retribuisce in modo equo il merito del figlio giusto e ubbidiente. Ma, in quanto padre, era giusto accogliere anche il figlio peccatore che gli chiedeva perdono: bisognava farlo (v. 32). Proprio la sua paternità lo spingeva a fare così. Questo legame non lo cancella il demerito d’un figlio e non lo accentua il suo merito. Egli è padre d’entrambi.

 

La preghiera «magica»

     La critica di Gesù sul modo di pregare dei pagani s’impernia invece sul valore che essi davano alla preghiera in sé. Essa era per loro uno strumento «magico», «efficace», «potente», avente forza in sé, capace d’agire sulla divinità e d’estorcere il suo esaudimento «per il gran numero delle parole» (v. 7) o delle «troppe parole» (battalogesete). Quest’ultima espressione ha un certo valore e studiarla ci aiuta a capire più precisamente le parole di Gesù.

     Essa ricorre soltanto qui, per cui non si hanno altri elementi per precisarla ulteriormente. Tuttavia, i significati proposti non sono tanti. Da un lato, si pensa alla verbosità delle orazioni pagane (cfr. gran numero di parole [N.R.], soverchie dicerie [Riv.], multum loqui [Vulg.]); dall’altro, si pensa alla vacuità di tali orazioni (cfr. vain repetitions [A.K.J.V.], parole sprecate [CEI, Paol.], vaines redites (Dar.), inutili ripetizioni [N.D.]). In passato si è dato più spazio alla prima opzione[4], mentre, gli esegeti moderni propendono per la seconda, anche in virtù del fatto che, se il punto in questione è la «lunghezza» delle preghiere, «il gran numero delle parole» e la «ripetizione», ci si chiede come mai Gesù abbia pregato per notti intere, e abbia esortato a praticare una preghiera perseverante e insistente (Mt 7,7-11; 14,23s; Mc 1,35; 6,46ss; Lc 11,5ss; 18,1ss).

     Forse può essere illuminante dare uno sguardo al contesto culturale e religioso a cui questa parola si riferisce, cioè il culto pagano. A tal proposito è utile quanto riporta Luca negli Atti sull’incertezza che caratterizzava i culti dei pagani, i quali «cercano Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni» (At 17,27). Questa incertezza era tale che «nel paganesimo dell’epoca non s’era più certi che il Dio al quale ci si rivolgeva fosse proprio quello giusto. Era sorta così l’abitudine d’enumerare l’uno dopo l’altro nomi e appellativi divini differenti».[5] Questo ha prodotto «il proliferare d’elenchi sterminati, perché nell’implorazione non potesse sfuggire il nome della divinità giusta».[6]

     Questa incertezza della divinità (cfr. il «dio sconosciuto» di At 17,23), non poteva non riflettersi su una sorta di ricerca della «formula magica» che riuscisse (anche a insaputa dell’orante) a influenzare (e manipolare) la divinità. È questo clima d’incertezza, questa ricerca spasmodica della formula più azzeccata, che produceva preghiere ossessive, con «gran numero di parole», per lo più inutili. Insomma, la preghiera pagana era una sorta di «gioco al lotto»: quando usciva il numero (dio, formula) «fortunato», c’era in premio l’esaudimento!

     Si capisce così che la critica di Gesù non riguarda tanto la forma o le dimensioni della preghiera, il suo look e la sua cosmesi, quanto l’atteggiamento dell’orante pagano, la sua concezione di Dio e la sua concezione della preghiera. La sua idea di Dio era vaga, imprecisa e imperfetta. Egli invocava un Dio senza nome e senza volto, un Dio sconosciuto e impersonale (l’idolo appunto). Un Dio che non vede, che non ascolta, che non sa e che non può salvare (cfr. Is 44). Insomma, un Dio manipolabile con la «forza» delle parole o, come traduce qualche versione, «credono di venire ascoltati a forza di parole» (CEI).

     La preghiera in sé, aveva assunto un valore troppo alto, un valore «magico». Le s’attribuiva il potere d’influire sulla divinità, per avere le sue benedizioni e mutare i suoi disegni. La semplice richiesta era diventata ricerca spasmodica e ossessiva dell’esaudimento, dominata da un certo delirio d’onnipotenza. S’attribuiva alla preghiera una sua «efficacia», una sua «potenza» e una sua «forza». La formulazione era determinante e con essa la ripetizione e la cantilena. Tutto era molto automatico e meccanico.

     La preghiera diventa così richiesta sufficiente a se stessa. Essa diventa anche la risposta, non più solo la domanda. Non è più domanda che attende la risposta, ma domanda che produce la risposta. La causa «efficiente» che porta al risultato è insito in se stessa. Il risultato, non è più «un esaudimento», ma un «fai da te». Non è più il frutto d’un «far udire», ma d’un «darsi da fare», un manipolare. Questo è l’epicentro della «preghiera magica», quella tutta incentrata su se stessa, sulla «sua» formulazione e sulla «sua» efficacia.

 

Qui abbiamo presentato la prima parte di questo studio sulla preghiera. Nella seconda parte sono contemplati i seguenti aspetti:

     ■ La tirannia della paura

     ■ Dalla manipolazione all’invocazione

 

Sul «Padre nostro» vedi le domande di controllo in Nicola Martella, Matteo, l’evangelista dei giudei (Punto°A°Croce, Roma 1999), pp. 17s.

 

 


[1] W. Trilling, Il vero Israele (Piemme, Casale Monferrato 1992), p. 149.

[2] L’espressione «preghiera cristiana» viene usata in questo studio, non per designare una formulazione particolare, ma per indicare l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, soprattutto come è articolato in questo brano.

[3] AA.VV., Il Grande Dizionario Garzanti (1987), p. 1110.

[4] Ne Il Padre nostro spiegato ai semplici laici (Claudiana, Torino 1982), Lutero diceva: «Quanto più parca di parole, tanto migliore è la preghiera, quanto più verbosa, tanto peggiore è la preghiera; poche parole e molto senso è cristiano, molte parole e poco senso è pagano» (p. 10).

[5] E. Schweizer, Il discorso della montagna (Claudiana, Torino 1991), p. 73.

[6] E. Schweizer, op. cit., p. 73.

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A2-Preghiera_abusi1_Mt.htm

13-11-2007; Aggiornamento:

 

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