1. Le tesi
{Giovanni Cappellini}
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Mi sembra molto
chiaro dal Nuovo Testamento che gli apostoli avessero una supervisione sulle
chiese. Questo è ciò che Paolo faceva, e ciò che diceva di fare a Tito e a
Timoteo. Certo che Paolo non poteva salutare l’apostolo a cui le chiese facevano
riferimento: era
lui quell’apostolo!
L’apostolo va in avanscoperta, e fonda le chiese, nominando il collegio dei
conduttori. È chiaro poi che quelle chiese lo considerano un punto di
riferimento, non si tratta d’autonomina. Escluso l’apostolo che interviene solo
di tanto in tanto per controllare l’operato della chiesa, il collegio dei
conduttori dovrebbe contemplare pastori, evangelisti, dottori, profeti.
Il fatto che esistano falsi apostoli non deve essere un motivo per non cercare
nella chiesa quelli veri, alla Paolo. Corrado Salmé ha avuto il coraggio di
mettere in discussione uno standard de facto
del proprio ambiente.
Mi sembri un po’ troppo retorico quando dici «Si azzarda a parlare di comunità
(probabilmente pentecostali) — che non conosce e che sono state tirate su
certamente con tanti sacrifici».
Ho trovato i tuoi scritti eccellenti ma questo è da autonominato. {26 agosto
2008}
2. Osservazioni e obiezioni
{Nicola Martella}
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Alcune
questioni aperte
Nel primo secolo, gli apostoli avevano la
supervisione su tutte le chiese o solo su quelle da loro fondate? Se,
secondo la convinzione di cui Corrado Salmé si fa portavoce, sui conduttori
delle chiese c’era un apostolo e un profeta, perché quando Paolo scrisse ai
credenti di Roma (una chiesa che Paolo non aveva fondata) ed espresse loro il
desiderio di visitarli per farsi sostenere poi nel suo viaggio verso la Spagna,
non scrisse al sedicente apostolo preposto a tale chiesa per chiedere il
permesso? Una chiesa come quella di Antiochia era autonoma — visto che mandò
essa stessa sovvenzioni ai fratelli della Giudea (a causa della carestia) e
altresì Paolo e Barnaba come apostoli, ossia «missionari fondatori) — oppure era
soggetta gerarchicamente agli apostoli di Gerusalemme? Perché si afferma che un
collegio dei conduttori dovrebbe contenere «pastori, evangelisti, dottori e
profeti», visto che in 1 Tm 3 e in Tt 1 si parla solo di conduttori e basta? Si
confondono qui le relative funzioni dei conduttori con figure ministeriali? Il
problema di Corrado Salmé e di altri carismaticisti militanti — impegnati in un
presunto progetto di «riforma strutturale», di trasformazione mediante una
«pienezza di rivelazione» (quindi di là dalla sacra Scrittura) e di rivoluzione
devozionale entusiastica — è proprio di confondere proprio tali funzioni
ministeriali dei conduttori con figure ministeriali particolari? È per questo
che essi reclamano l’assoggettamento dei singoli conduttori a un apostolo e a un
profeta di riferimento? E tutto ciò sebbene questi ultimi non abbiano fondato
tali chiese e non abbiano quindi fatto i sacrifici al riguardo e sostenuto le
lotte per far nascere e crescere tali comunità?
Il reperto
biblico generale
I dodici apostoli avevano la supervisione sulla chiesa di Gerusalemme all’inizio
dell’opera, subito dopo Pentecoste. Poi questa si estese sulla Giudea e sulla
Samaria (per questo fu necessaria la presenza di Pietro e Giovanni; At 8). Ben
presto però gli apostoli andarono, l’uno dopo l’altro, in missione, secondo il
gran mandato missionario di Gesù.
Se subito dopo la sua conversione Paolo incontrò in Gerusalemme «gli apostoli»
(At 9,27), senza distinzione, tre anni dopo, in una visita ministeriale incontrò
Pietro e Giacomo, che apostolo non era, ma nessuno degli altri apostoli (Gal
1,18s); se essi erano in Gerusalemme, in 15 giorni di permanenza sarebbe stato
difficile non incontrarne almeno uno. Quattordici anni dopo, quando salì a
Gerusalemme con Barnaba e Tito (Gal 2,1), incontrò «Giacomo e Cefa e
Giovanni, che sono reputati colonne» (si noti l’ordine; v. 9).
Giacomo era la persona più influente della chiesa di Gerusalemme, talché
anche Pietro stesso aveva soggezione di lui e della sua gente (Gal 2,12). La sua
parola durante il Concilio Interecclesiale di Gerusalemme fu quella decisiva (At
15,13ss).
Non bisogna immaginarsi che i dodici apostoli
sedessero a Gerusalemme in una specie di Vaticano e dirigessero la chiesa
universale. Questo sarebbe un anacronismo e fatale alla comprensione. Ciò che
univano le chiese era la comune fede e la comunione reciproca. Nel libro degli
Atti e in Galati 1-2 le persone furono chiamate per nome, senza fronzoli ed
etichette. La colletta inviata dai discepoli di Antiochia per i fratelli della
Giudea non fu mandata centralmente agli apostoli, ma agli anziani di tali chiese
(At 11,30). Che non esistesse una gerarchia fra le chiese e che quest’ultime non
dipendessero da Gerusalemme e dagli apostoli, è mostrato dall’episodio che
coinvolse Paolo e Cefa (Pietro) in Atti 2. Paolo era allora uno dei conduttori
di chiesa di Antiochia, quando Cefa venne in visita come fratello; quando
quest’ultimo cominciò a giudaizzare, all’arrivo degli emissari di Giacomo, Paolo
non guardò alle etichette, ma riprese Pietro pubblicamente (Gal 2,11ss). Ciò
mostra che nelle chiese d’allora non c’era qualcosa come una gerarchia
istituzionale. L’autorità era basata sulla Parola di Dio e sull’ubbidienza a
essa.
In Atti 15 ci fu il concilio interecclesiale di Gerusalemme. Si noti la presenza
di Pietro e di Giacomo, oltre che degli anziani. La parola risolutiva fu quella
di Giacomo. Quando Paolo visitò l’ultima volta Gerusalemme, ci trovò solo
Giacomo e gli altri anziani (At 21,18s).
Quando nacque la chiesa di Antiochia, gli apostoli ancora presenti in
Gerusalemme mandarono Barnaba per aiutare l’opera (At 11,22); ma non bisogna
pensare che Antiochia dipendesse da Gerusalemme e gli apostoli di Gerusalemme
avessero una posizione gerarchica superiore rispetto alle guide locali. Certo in
una prima fase, l’opera nascente si trovava in una specie di tutela mediante
Barnaba, ma questi andò lì per restare, non per essere la lunga mano di
Gerusalemme. Barnaba fu mandato ufficialmente (exapostéllō), quindi egli
era un apóstolos «inviato, immissario, missionario» della chiesa di
Gerusalemme. Barnaba diede subito stabilità alla nuova chiesa, associando Paolo
(At 11,25-26). Che la chiesa fosse autonoma, fu dimostrato da due aspetti: ▪ 1.
I discepoli di Antiochia si fecero carico dei fratelli della Giudea (At 11,30).
▪ 2. La chiesa si pose il problema di mandare propri apostoli o «missionari
fondatori» nell’opera di Dio e mandò su indicazione dello Spirito Santo Paolo e
Barnaba (At 13,1ss).
Apostoli
supervisori di che cosa?
Per prima cosa bisogna partire dal fatto che «apostolo» indicava solo i
«missionari fondatori di chiese». Sia i dodici apostoli, quando andarono in
missione, sia gli apostoli delle chiese, erano ognuno supervisori soltanto delle
chiese che essi stesso fondavano. Tale supervisione non era istituzionale o
gerarchica, ma era di natura morale, si basava sull’autorità della Parola di
Dio, sui legami di fede e di comunione ed esisteva fintantoché gli uni e gli
altri tagliavano rettamente la Parola della verità. A ciò si aggiunga che Paolo
e la sua squadra non ebbero vita facile nel rapporto con le chiese fondate, a
causa delle infiltrazioni nell’opera di giudei cristiani legalisti (p.es. in
Galazia), di giudei cristiani gnostici (a Corinto) e di giudei cristiani di
ambedue i tipi in altre chiese (p.es. in Colosse).
Mentre tali «falsi fratelli», «falsi apostoli» o «operai fraudolenti» si
infiltravano nella sua opera missionaria per aggiogare i credenti e vantarsi
(Gal 2,4s; 2 Cor 11,13), considerandosi superapostoli (2 Cor 11,15; 12,11),
Paolo non si guardava bene dal fare lo stesso, sconfinando nell’opera
missionaria altrui e considerandosi supervisore dell’opera di altre squadre.
Egli denunciava il comportamento di tali «falsi apostoli« come segue,
contrapponendolo al modo di fase suo e della sua squadra: «E non ci gloriamo
oltre misura di fatiche altrui, ma
nutriamo speranza che, crescendo la fede vostra, noi,
senza uscire dai nostri limiti,
saremo fra voi ampiamente ingranditi, in modo da potere evangelizzare anche i
paesi che sono al di là del vostro, e da
non gloriarci, entrando nel campo
altrui, di cose bell’e preparate» (2 Cor 10,15s). Per questa
deontologia che lo caratterizzava in quanto «missionario fondatore», dopo aver
predicato da Gerusalemme all’Illiria, quando non trovò più campo missionario
vergine nella parte orientale dell’impero, perché il resto era occupato da altre
squadre missionarie, decise di trasferirsi nella parte occidentale dell’impero,
e cioè in Spagna, perché riteneva di avere «l’ambizione di predicare
l’Evangelo là dove Cristo non fosse già
stato nominato, per non edificare
sul fondamento altrui» (Rm 15,19s.23s). Perciò scrisse ai santi
presenti in Roma per avere appoggio logistico per questa sua impresa.
Paolo scrisse
ai suoi collaboratori, senza parlare di apostoli nel proseguo dell’opera?
Si afferma che Paolo dando direttive sull’opera e sulla sua stabilizzazione,
parlò di conduttori e servitori (1 Tm 3; Tt 1) ma non di apostoli, solo perché
paolo stesso era l’apostolo. A prima vista ciò sembra una risposta sensata, ma
in effetti non lo è. Timoteo e Tito erano stretti collaboratori di Paolo
all’interno della stessa squadra missionaria. Egli parlò con loro di come
stabilizzare le chiese fondate ma anche dell’opera missionaria nel suo
complesso, anche in vista della sua dipartenza che riteneva imminente (2 Cor
4,6ss). Possibile che non parli mai del ruolo di un apostolo o «missionario
fondatore», delle sue qualità, del suo ministero eccetera? Questo sarebbe
veramente strano se, come afferma Corrado Salmé e altri come lui, gli apostoli
fossero fianco a fianco dei conduttori nella stessa chiesa locale, avendo su di
loro la supervisione (lo stesso discorso si può fare dei profeti). Nelle lettere
di paolo ai suoi stretti collaboratori, Paolo parlò di apostoli solo due volte
in 1 Tm, due in 2 Tm e una in Tito (e mai di profeti!). Si riferì esclusivamente
a se stesso (1 Tm 1,1; 2,7; 2 Tm 1,1.11; Tt 1,1). In tre trattati del genere
sull’opera attuale e futura ci si aspetterebbe che ne avesse parlato sui
generis.
Paolo non ha
rispettato le gerarchie ecclesiali?
Usciamo dalla cerchia della squadra di Paolo. Se la presunta ecclesiologia di
Corrado Salmé fosse stati vera, secondo cui ogni conduttore di chiesa aveva
allora come supervisore un apostolo e un profeta, allora Paolo si comportò in
modo molto scorretto quando scrisse «a tutti gli amati da Dio, chiamati santi
in Roma» (Rm 1,7) e non all’apostolo (e al profeta). Egli non chiese a
quest’ultimo l’autorizzazione a recarsi a Roma per predicare l’Evangelo (vv.
13ss) né anticipò a quest’ultimo l’intenzione di fare lì tappa verso la Spagna e
di essere aiutato dai fratelli (Rm 15,22-28), come allora avveniva per i
missionari e predicatori itineranti (cfr. 3 Gv 1,5ss). Il motivo perché non lo
fece era dovuto al fatto che una chiesa, una volta fondata da qualcuno, quando
arrivava all’autonomia funzionale e amministrativa, non dipendeva più da
nessuno. I missionari fondatori andavano altrove e tra questi ultimi e la chiesa
c’erano soltanto legami di fede e di comunione; quando essi tornavano in visita,
la loro autorità era basata sulla parola di Dio ed era soltanto di natura
spirituale e morale, al pari di padri che visitano figli adulti. L’apostolo non
era il controllore delle chiese fondate, ma il padre.
Ministeri e
funzioni
Nelle direttive ecclesiologiche di 1 Tm 3 e Tt 1 Paolo riconobbe solo due
tipi di ministeri nelle chiese: i «conduttori» (presbiteri o episcopi) e i
«servitori» (diaconi), senza eccezioni. Non menzionò mai «pastori, evangelisti,
dottori e profeti», perché queste non erano ministeri, ma carismi o funzioni che
conduttori e servitori potevano avere in miscela diversa. Specialmente dai
conduttori ci si aspettava che fossero attaccati alla Parola e agli insegnamenti
ricevuti, capaci di insegnare (1 Tm 3,2; Tt 1,9) e di trasmettere la sana
dottrina ad altri (2 Tm 2,2). Perciò in collegio di conduttori non c’era nessuno
che sedeva avendo l’etichetta ministeriale di «profeta»; questo termine non
esiste affatto in 1 Tm e 2 Tm e in Tito ricorre una sola volta, riferendosi a un
poeta cretese! (1,12). Come ho ribadito altrove, quella profetica era una
funzione legata spesso a quella apostolica (in greco c’è un solo articolo
per «apostolo e profeta» e indica una sola persona).
Corrado Salmé ha messo de facto in discussione lo standard accreditato
nella maggior parte delle chiese pentecostali che hanno (super-)pastori
monocratici e chiese cittadine sul modello accentratrice e patriarcale. Si può
condividere la sua analisi, ma la sua terapia è peggio della malattia, poiché
alza solo il livello della gerarchia, mettendo un potere in mano al apostoli e
profeti che dovrebbero avere una supervisione di più comunità, chiese che essi
non hanno fondato. Dietro all’angolo c’è il progetto «G12» (Governo dei 12), che
sa più di massoneria (come il progetto «P2») e di imitazione di gerarchie
clericali che di progetto biblico.
Aspetti
conclusivi
Non è retorica, quando parlo dei sacrifici fatti da missionari fondatori
come me nel tirare su a fatica una comunità locale, dissodando il terreno,
curando, aggiungendo anima ad anima e così via. Anche altri servitori del
Signore mi hanno scritto le stesse cose. Ho conosciuto gente che si era
infiltrata nell’opera per trarne vantaggio. Ho conosciuto missionari esteri che
hanno aperto una chiesa in poco tempo, sottraendo credenti ad altre chiese già
esistenti e anche a quella, di cui abbiamo visto la luce. Solo chi ci è passato,
lo sa. Quindi non è retorica. La retorica la fa chi non ha mai fondato chiese,
ma vuole imporre a esse una presunta «riforma strutturale».
Ringrazio per il predicato «scritti eccellenti», ma all’aggettivo «autonominato»
(di che cosa?) manca un sostantivo, non dice nulla da solo e lascia solo spazio
ai misteri.
►
Supervisione di apostoli sui conduttori di chiesa? 2
{G. Cappellini - N. Martella} (T/A)
►
Mali ecclesiali e soluzioni strutturali
{Eliseo Paterniti - Nicola
Martella} (A/T)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Supervis_apostol_condut_Avv.htm
27-08-2008; Aggiornamento: 27-09-2008
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