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APOLOGIA DELLA PENA DI MORTE?

 

 di Raffaele Minimi - Nicola Martella

 

1. Le tesi {Raffaele Minimi}

2. Osservazioni e obiezioni {Nicola Martella}

 

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L'autore delle seguenti tesi è responsabile di un gruppo cattolico di discussione, presente in internet, ma ha preferito rimanere anonimo. Egli prende qui posizione riguardo all’articolo «Pena di morte e Bibbia» di Fernando De Angelis. Il seguente contributo avrebbe potuto trovare posto all’interno del tema di discussione «La pena di morte? Parliamone», ma a causa della sua lunghezza, della sua problematicità e della risposta, abbiamo preferito metterlo extra.

 

 

1. Le tesi {Raffaele Minimi}

 

Nel Natale 1998, l’associazione «Nessuno tocchi Caino», sorta da una costola del Partito radicale, ha organizzato una marcia in Piazza San Pietro, per chiedere l’intervento del Pontefice nella sua battaglia contro la pena di morte. Associazioni come «Amnesty International» hanno dato il loro appoggio. Proprio la presenza di tale associazione che, più correttamente andrebbe chiamata «Amnesy Interational», perché ha sempre dimenticato, volutamente, di fare campagne a favore di condannati di gruppi di destra, per non parlare del suo appoggio a campagne filo-abortiste dovrebbe dar da pensare. Il comprendere la lotta contro l’istituto della pena capitale nell’impegno contro la «cultura della morte», come stanno facendo molti ecclesiastici, è frutto d’una bella confusione d’idee. Cominciamo a sfatare un assunto che l’attuale pseudo-buonismo dà per scontato. La pena di morte, una bella cosa certo non è, ma non è illecita! È un madornale equivoco confondere l’inviolabile diritto alla vita dell’innocente con la situazione del colpevole che, nel momento in cui ha spento una vita altrui, immediatamente ha implicitamente rinunciato al proprio diritto alla vita. Questo in astratto. Poi, in concreto, ci sono da valutare tante situazioni. In primo luogo, ovviamente, l’accertamento della colpa, poi l’opportunità. Tanto per dirne una, sorprenderò qualcuno, ma nell’attuale situazione italiana, ringraziamo il Signore che i politici e certa magistratura che ci ritroviamo non possiedono anche quest’altra arma. Dato, come abbiamo visto, che molti rappresentanti del mondo cattolico sono in prima fila contro tale istituto, ricordiamo qual è il reale insegnamento della Chiesa [Cattolica], presente anche nel Catechismo del 1992. Seguiremo in quest’analisi due opere fondamentali: «Iota Unum» di Romano Amerio (ed. Ricciardi, Milano - Napoli 1986) e, soprattutto: «Pena di morte e Chiesa Cattolica» di Catholicus (ed. Volpe, Roma 1990).

     Catholicus era uno pseudonimo usato dal defunto Padre passionista Enrico Zoffoli. Un cattolico non può sottoscrivere l’elogio della pena di morte, fine a se stessa, che ne fa Baudelaire (chissà se lo sanno i suoi ammiratori). Di tutt’altro sapore è quanto ne dice Joseph de Maistre, autore di quell’indimenticabile «Elogio del boia», secondo il quale anche l’essere chiamato a spegnere la vita altrui è una vocazione.

     La Chiesa ha sempre fondato, con Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino e Taparelli d’Azeglio, il giudizio non negativo su tale somma pena sui seguenti testi del Nuovo Testamento: ▪ 1) «Vuoi tu non dover temere l’autorità? Fai il bene e avrai lode da essa (…) Ma se fai il male allora devi temere poiché il magistrato non porta la spada inutilmente, essendo ministro di Dio e vendicatore dell’ira divina» (San Paolo Lettera ai Romani 13,4). ▪ 2) «Ma chi avrà indotto al male uno di questi piccini (…) sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa una macina da mulino al collo e fosse sommerso nel profondo del mare» (Gesù nel Vangelo di San Matteo 18,6).

     In effetti, proprio San Tommaso molto si dilunga su cosa comporta la morte per il condannato. Certo che, a una cultura che esclude ogni riferimento metafisico, quindi, che reputa un’altra vita solo pallida eventualità, è normale che la condanna a morte sembra il massimo affronto. Non a caso la massoneria, società che ha sempre diffuso l’indifferentismo religioso, è in prima fila in tale impegno (non nei paesi anglosassoni, però, dove influenza la vita pubblica in modo esplicito e diretto, là gli sta bene che ci sia, eccome!).

     L’Aquinate proprio circa la condanna a morte, raccomanda la massima cura nell’assistere spiritualmente tali galeotti. Questo perché la pena capitale paga in un colpo solo tutti i debiti residui con l’umana e la divina giustizia, cosa che la semplice morte naturale non fa. Pertanto al colpevole che, sinceramente pentito delle proprie colpe, offra la propria punizione in espiazione d’esse colpe, s’applicano in pieno le parole di Gesù al Buon Ladrone: «Oggi sarai in Paradiso con me».

     Non si deve dimenticare che, secondo la cultura cristiana, prima che cominciasse a girare il sofisma della «rieducazione» (il Senatore Pisanò, che in carcere c’era stato, sia come giornalista sia da detenuto, raccontava che v’aveva conosciuto ogni razza d’uomini: il rassegnato, il disperato, il vendicativo, il tutto sommato soddisfatto, ma il «rieducato» no!), il fine della condanna è triplice. Tanto per incominciare deve servire a proteggere e difendere la società dai propri membri cattivi. Poi deve far espiare il colpevole. Infine deve riparare le ingiustizie da lui commesse. La «rieducazione» è un tipico frutto dell’utopia di Rousseau, secondo cui l’uomo nasce buono per natura ed è la società a guastarlo. Pertanto, in ultima analisi, il reo è innocente! Quando l’assassino Buffet salì sulla ghigliottina, gridò la sua speranza d’essere l’ultimo ghigliottinato di Francia. Avrebbe dovuto gridare quella d’essere l’ultimo assassino! La punizione del delitto, pertanto, risulta essere più detestabile del delitto stesso e per la vittima non c’è che l’oblio.

     Di recente si è molto parlato di quel condannato che ha ottenuto, grazie all’intercessione papale, la grazia. Preferisco ricordare un altro personaggio. Alcuni anni fa, un «serial killer» che aveva stuprato e ucciso numerosi bambini, condannato a morte, non volle assolutamente che s’organizzassero campagne in suo favore. Pretese che la pena fosse eseguita al più presto (normalmente tra quando la sentenza è pronunciata, e quando è eseguita passano decenni) proprio perché era sinceramente pentito di ciò che aveva fatto e non vedeva l’ora di ricevere la giusta punizione. Chiese solo di poter girare una video-cassetta, con la quale narrare la sua storia. E ciò allo scopo di mettere le famiglie in guardia dalla pornografia, di cui era stato gran consumatore fin dall’infanzia. Tale film si può reperire in Italia, rivolgendosi alla piccola casa editrice protestante EUN di Marchirolo (Varese)

     La Chiesa, ripeto, non solo non fa sua, ma al contrario respinge la celebrazione della pena capitale fine a se stessa, come atto sacro e altamente religioso, che ne fa Baudelaire. Che la reputi cosa non bella traspare dal codice di diritto canonico del 1917 che colpiva d’irregolarità perpetua cioè, salvo speciale dispensa papale, rendeva permanentemente inabili a ricevere il sacerdozio non solo il boia, non solo il giudice che aveva comminato la pena capitale, non solo il PM che l’aveva chiesta, ma persino i testimoni, che con le loro dichiarazioni l’avevano resa possibile (l’Ordine francescano, poi, estendeva tale provvedimento anche ai figli di tutti costoro, rifiutandosi d’accettarli). Però, non è illecita. Il concetto che il reo ha rinunciato di per sé al proprio diritto alla vita, è espresso pari pari a come l’ho scritto io, da Pio XII nei suoi discorsi ai neurologi francesi del 14 settembre 1952 e al congresso internazionale dei giuristi cattolici del 5 febbraio 1955.

     Che Dio proibisca la vendetta privata, perché se ne vuol riservare l’esclusivo monopolio è verissimo. Ma che, sulla base del versetto di Romani 13,4 da me citato, che — sempre secondo le dichiarazioni di Pio XII in quelle occasioni — ha valore universale, tanto nel tempo che nello spazio, sia lo Stato sia il ministro incaricato d’eseguirla, è altrettanto vero. Che la redenzione del reo sia un evento a carattere metafisico, è una verità ormai taciuta da tutti. Lo ripeto. Se un’altra vita è vista solo come remota eventualità, è normale che la pena capitale sia il massimo affronto. Ma chi sa che la vita non finisce quaggiù, sa che vita e morte sono mezzi per unirsi a Dio. La compagnia di San Giovanni decollato era una congregazione incaricata di curare l’assistenza spirituale ai condannati a morte. Quante conversioni ha operato San Giuseppe Cafasso. Quante lettere di condannati a morte della Resistenza (e della RSI) sono esempi di conversioni solenni! Da Nicola di Tauldo, assistito sul patibolo da Santa Caterina da Siena, a Felice Robol, confortato da Antonio Rosmini, a Jacques Fesch, ghigliottinato nel ’57, quanti delinquenti hanno avuto necessità della suprema condanna per raggiungere un commovente grado di perfezione spirituale. Il fatto che la pena capitale paghi in un colpo solo tutti i debiti residui con l’umana e la divina giustizia è una sentenza di San Tommaso D’Aquino (Summa theologica, voce «mors»).

     La pena di morte e ogni pena, se per questo, se non si degradano a pura difesa, o peggio ancora, ad arbitrio d’un tiranno, presuppongono sempre una sorta di «diminuzione morale» del reo. La società non priva un colpevole del diritto alla vita o alla libertà.

     Si limita a prendere atto che, tali diritti, inviolabili nell’innocente, lui reo, depravando la volontà, li ha già, in un certo senso «scemati». In conclusione: la pena di morte, anzi ogni pena, è illegittima se si pone l’indipendenza dell’individuo verso la legge morale, se i concetti di bene e male, giusto e sbagliato, sono messi solo sul piano soggettivo. Se esistono in modo oggettivo, allora anche le pene sono legittime per i violatori volontari. Non c’è alcuno diritto incondizionato ai beni della terra. L’unico diritto simile è quello ai mezzi necessari per la felicità eterna. Nessuna pena li può togliere, nemmeno la pena capitale. Se poi, rinchiudiamo tutto nel campo dell’orizzonte terreno, è normale che sembri barbara.

 

 

2. Osservazioni e obiezioni {Nicola Martella}

 

Su alcuni aspetti dell’articolo di Raffaele Minimi si può concordare, in parte o in tutto, e su altri si può indulgere. Qui di seguito evidenziamo solo alcuni aspetti controversi, lasciando il resto al giudizio del lettore.

     L’autore si muove all’interno della logica del cattolicesimo romano, della sua storia, dei suoi assunti teologici e giuridici, della sua mutevole prassi nella storia e della sua anomalia (essere «teocrazia», ossia chiesa e Stato sovrano allo stesso tempo). L’anomalia della chiesa romana è stata quella di condannare a morte per secoli i dissidenti, i cristiani altri e quant’altri non riconoscessero il magistero clericale; e questo non è successo solo all’interno del cosiddetto «Stato della chiesa», ma pressoché in tutta l’Europa. Interi villaggi furono rasi al suolo e i suoi abitanti trucidati e condannati a morte, grandi e piccoli (cfr. Albigensi, Catari, Valdesi). Non meraviglia quindi la posizione ambigua della chiesa romana in proposito, dati i precedenti storici. Non meraviglia neppure che Raffaele Minimi, strenuo seguace del magistero romano, ne ricalchi le posizioni.

     Già l’uso deleterio e immorale, fatto della pena di morte da parte della chiesa romana (furono messi a morte dissidenti sul piano religioso, culturale e scientifico), dovrebbe portarci a considerare come esso sia uno strumento ingiusto in mani inique. Ciò che i chierici hanno fatto per secoli contro i delitti d’opinione (cfr. Inquisizione: persecuzioni, torture, condanna a morte), viene fatto anche attualmente da altri regimi verso dissidenti e persone diversamente pensanti.

     Certamente un cristiano sottomesso alla sacra Scrittura dissente vivamente dall’elogio della pena di morte, fine a se stessa, fatto da Baudelaire né farà mai un elogio del boia e della sua vocazione di morte, come invece ha fatto Joseph de Maistre. Egli però non può dimenticare da che pulpito viene oggi la morale sociale della chiesa romana, ossia dallo stesso che per secoli ha legittimato e praticato la persecuzione, la tortura e la condanna a morte di persone che sul piano della fede, della cultura e della scienza avevano altre convinzioni.

     Certo si possono citare Agostino da Ippona, Tommaso d’Aquino, Taparelli d’Azeglio e altri illustri personaggi del passato, compresi papi. Per un cristiano che ha come unico magistero la sacra Scrittura, vale chiaramente e specialmente quest’ultima. Che dire quindi dei brani biblici citati?

     ■ Romani 13,4: Si noti che l’apostolo Paolo descrisse la situazione così com’era: i cristiani vivono in Stati in cui l’autorità politica ha il potere legislativo ed esecutivo; laddove quest’ultima punisce i colpevoli e premia gli onesti, svolge una funzione di «ministro di Dio». Egli non disse che l’autorità politica potesse essere la chiesa né che quest’ultima fondasse Stati teocratici. Neppure si appellò qui all’autorità politica perché usasse la spada né suggerì ai governanti come regolamentarsi in proposito. Paolo descriveva semplicemente uno stato di cose e riconosceva all’autorità politica il diritto d’amministrare la giustizia.

     ■ Matteo 18,6: Se si legge questo verso fuori del contesto, lo si applicherà impropriamente. L’intero brano (vv. 5-10) parla di azioni perpetuate da qualcuno col fine di «scandalizzare» (far cadere in trappola) «uno di questi piccoli che credono in me», e parla di azioni preventive, intese in senso morale, per non arrivare a tanto: mozzarsi mano e piede o cavarsi un occhio. È chiaramente un parlare paradossale per rendere chiara la gravità di tale atto e le conseguenze per tali piccoli e per la propria anima (invece di «entrare nella vita», «essere gettato nel fuoco perpetuo»). Poi nel brano si parla di ciò che è «meglio» (vv. 6.8s). È probabile che anche nel v. 6 bisogna applicare la logica del «meglio per lui» rispetto a qualcosa («essere gettato nel fuoco perpetuo»). Poi nel v. 6 non si parla di pena capitale comminata da un’autorità, ma di ciò che sarebbe «meglio» fare «per lui» per non arrivare a tanto o per non ripetere qualcosa del genere, mostrando poi la via preventiva (vv. 8s). È quindi un brano non specifico per la pena di morte.

 

Quanto alla concezione di Tommaso d’Aquino, secondo cui la pena capitale pagherebbe in un colpo solo tutti i debiti residui che una persona avrebbe verso l’umana e la divina giustizia — essa è una semplice costruzione di filosofia scolastica, che la sacra Scrittura non avvalla. L’idea è che la propria punizione possa fungere da espiazione delle proprie colpe dinanzi a Dio, qualora il colpevole sia sinceramente pentito — questa è una concezione estranea alla Bibbia e come tale fuorviante. L’unica espiazione accattata da Dio è quella fatta da Gesù sulla croce per i suoi propri meriti! Le parole di Gesù rivolte al ladrone in croce («Oggi sarai con me in Paradiso»; Lc 23,43) non erano basate sul suo pentimento, sulla sua confessione o su un presunto carattere espiatorio della sua propria morte (questo sarebbe proprio una perversione dottrinale!), ma sul riconoscimento che — oltre al fatto che lui e l’altro ladrone stavano così scontando la «condegna pena» — chi moriva accanto a lui non aveva fatto nulla di male per meritarsi la crocifissione (v. 41), che Gesù era il Messia-Re promesso, che presto sarebbe venuto nel suo regno (l’altro ladrone ne faceva motivo di sarcasmo; v. 39), e che chiedeva a Lui: «Gesù, ricordati di me quando sarai venuto nel tuo regno!» (v. 42). L’idea che la condanna a morte possa espiare colpe dinanzi a Dio, è una pia illusione e un grave errore dottrinale. Dio ha un solo mezzo di salvezza: per grazia mediante la fede in Gesù quale Messia (Ef 2,8).

 

Raffaele Minimi: l'uomo dai mille volti? {Nicola Martella} (A)

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Pena_capitale_apologia_EnB.htm

18-02-2007; Aggiornamento: 25-03-2008

 

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