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L'autore delle seguenti tesi è responsabile di un gruppo cattolico di
discussione, presente in internet, ma ha preferito rimanere anonimo. Egli prende
qui posizione riguardo all’articolo «Pena
di morte e Bibbia» di Fernando De Angelis. Il seguente contributo avrebbe potuto trovare posto all’interno del tema di
discussione «La
pena di morte? Parliamone», ma a causa della sua lunghezza, della sua problematicità
e della risposta, abbiamo preferito metterlo extra. |
1. Le tesi
{Raffaele Minimi}
▲
Nel Natale 1998,
l’associazione «Nessuno tocchi Caino», sorta da una costola del Partito
radicale, ha organizzato una marcia in Piazza San Pietro, per chiedere
l’intervento del Pontefice nella sua battaglia contro la pena di morte.
Associazioni come «Amnesty International» hanno dato il loro appoggio. Proprio
la presenza di tale associazione che, più correttamente andrebbe chiamata
«Amnesy Interational», perché ha sempre dimenticato, volutamente, di fare
campagne a favore di condannati di gruppi di destra, per non parlare del suo
appoggio a campagne filo-abortiste dovrebbe dar da pensare. Il comprendere la
lotta contro l’istituto della pena capitale nell’impegno contro la «cultura
della morte», come stanno facendo molti ecclesiastici, è frutto d’una bella
confusione d’idee. Cominciamo a sfatare un assunto che l’attuale pseudo-buonismo
dà per scontato. La pena di morte, una bella cosa certo non è, ma non è
illecita! È un madornale equivoco confondere l’inviolabile diritto alla vita
dell’innocente con la situazione del colpevole che, nel momento in cui ha spento
una vita altrui, immediatamente ha implicitamente rinunciato al proprio diritto
alla vita. Questo in astratto. Poi, in concreto, ci sono da valutare tante
situazioni. In primo luogo, ovviamente, l’accertamento della colpa, poi
l’opportunità. Tanto per dirne una, sorprenderò qualcuno, ma nell’attuale
situazione italiana, ringraziamo il Signore che i politici e certa magistratura
che ci ritroviamo non possiedono anche quest’altra arma. Dato, come abbiamo
visto, che molti rappresentanti del mondo cattolico sono in prima fila contro
tale istituto, ricordiamo qual è il reale insegnamento della Chiesa [Cattolica],
presente anche nel Catechismo del 1992. Seguiremo in quest’analisi due opere
fondamentali: «Iota Unum» di Romano Amerio (ed. Ricciardi, Milano - Napoli 1986)
e, soprattutto: «Pena di morte e Chiesa Cattolica» di Catholicus (ed. Volpe,
Roma 1990).
Catholicus era uno pseudonimo usato dal defunto Padre passionista Enrico
Zoffoli. Un cattolico non può sottoscrivere l’elogio della pena di morte, fine a
se stessa, che ne fa Baudelaire (chissà se lo sanno i suoi ammiratori). Di
tutt’altro sapore è quanto ne dice Joseph de Maistre, autore di
quell’indimenticabile «Elogio del boia», secondo il quale anche l’essere
chiamato a spegnere la vita altrui è una vocazione.
La Chiesa ha sempre fondato, con Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino e Taparelli
d’Azeglio, il giudizio non negativo su tale somma pena sui seguenti testi del
Nuovo Testamento: ▪ 1) «Vuoi tu non dover temere l’autorità? Fai il bene e
avrai lode da essa (…) Ma se fai il male allora devi temere poiché il magistrato
non porta la spada inutilmente, essendo ministro di Dio e vendicatore dell’ira
divina» (San Paolo Lettera ai Romani 13,4). ▪ 2) «Ma chi avrà indotto al
male uno di questi piccini (…) sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa una
macina da mulino al collo e fosse sommerso nel profondo del mare» (Gesù nel
Vangelo di San Matteo 18,6).
In effetti, proprio San Tommaso molto si dilunga su cosa comporta la morte per
il condannato. Certo che, a una cultura che esclude ogni riferimento metafisico,
quindi, che reputa un’altra vita solo pallida eventualità, è normale che la
condanna a morte sembra il massimo affronto. Non a caso la massoneria, società
che ha sempre diffuso l’indifferentismo religioso, è in prima fila in tale
impegno (non nei paesi anglosassoni, però, dove influenza la vita pubblica in
modo esplicito e diretto, là gli sta bene che ci sia, eccome!).
L’Aquinate proprio circa la condanna a morte, raccomanda la massima cura
nell’assistere spiritualmente tali galeotti. Questo perché la pena capitale paga
in un colpo solo tutti i debiti residui con l’umana e la divina giustizia, cosa
che la semplice morte naturale non fa. Pertanto al colpevole che, sinceramente
pentito delle proprie colpe, offra la propria punizione in espiazione d’esse
colpe, s’applicano in pieno le
parole di Gesù al Buon Ladrone: «Oggi sarai in Paradiso con me».
Non si deve dimenticare che, secondo la cultura cristiana, prima che cominciasse
a girare il sofisma della «rieducazione» (il Senatore Pisanò, che in carcere
c’era stato, sia come giornalista sia da detenuto, raccontava che v’aveva
conosciuto ogni razza d’uomini: il rassegnato, il disperato, il vendicativo, il
tutto sommato soddisfatto, ma il «rieducato» no!), il fine della condanna è
triplice. Tanto per incominciare deve servire a proteggere e difendere la
società dai propri membri cattivi. Poi deve far espiare il colpevole. Infine
deve riparare le ingiustizie da lui commesse. La «rieducazione» è un tipico
frutto dell’utopia di Rousseau, secondo cui l’uomo nasce buono per natura ed è
la società a guastarlo. Pertanto, in ultima analisi, il reo è innocente! Quando
l’assassino Buffet salì sulla ghigliottina, gridò la sua speranza d’essere
l’ultimo ghigliottinato di Francia. Avrebbe dovuto gridare quella d’essere
l’ultimo assassino! La punizione del delitto, pertanto, risulta essere più
detestabile del delitto stesso e per la vittima non c’è che l’oblio.
Di recente si è molto parlato di quel condannato che ha ottenuto, grazie
all’intercessione papale, la grazia. Preferisco ricordare un altro personaggio.
Alcuni anni fa, un «serial killer» che aveva stuprato e ucciso numerosi bambini,
condannato a morte, non volle assolutamente che s’organizzassero campagne in suo
favore. Pretese che la pena fosse eseguita al più presto (normalmente tra quando
la sentenza è pronunciata, e quando è eseguita passano decenni) proprio perché
era sinceramente pentito di ciò che aveva fatto e non vedeva l’ora di ricevere
la giusta punizione. Chiese solo di poter girare una video-cassetta, con la
quale narrare la sua storia. E ciò allo scopo di mettere le famiglie in guardia
dalla pornografia, di cui era stato gran consumatore fin dall’infanzia. Tale
film si può reperire in Italia, rivolgendosi alla piccola casa editrice
protestante EUN di Marchirolo (Varese)
La Chiesa,
ripeto, non solo non fa sua, ma al contrario respinge la celebrazione
della pena capitale fine a se stessa, come atto sacro e altamente religioso, che
ne fa Baudelaire. Che la reputi cosa non bella traspare dal codice di diritto
canonico del 1917 che colpiva d’irregolarità perpetua cioè, salvo speciale
dispensa papale, rendeva permanentemente inabili a ricevere il sacerdozio non
solo il boia, non solo il giudice che aveva comminato la pena capitale, non solo
il PM che l’aveva chiesta, ma persino i testimoni, che con le loro dichiarazioni
l’avevano resa possibile (l’Ordine francescano, poi, estendeva tale
provvedimento anche ai figli di tutti costoro, rifiutandosi d’accettarli). Però,
non è illecita. Il concetto che il reo ha rinunciato di per sé al proprio
diritto alla vita, è espresso pari pari a come l’ho scritto io, da Pio XII nei
suoi discorsi ai neurologi francesi del 14 settembre 1952 e al congresso
internazionale dei giuristi cattolici del 5 febbraio 1955.
Che Dio proibisca la vendetta privata, perché se ne vuol riservare l’esclusivo
monopolio è verissimo. Ma che, sulla base del versetto di Romani 13,4 da me
citato, che — sempre secondo le dichiarazioni di Pio XII in quelle occasioni —
ha valore universale, tanto nel tempo che nello spazio, sia lo Stato sia il
ministro incaricato d’eseguirla, è altrettanto vero. Che la redenzione del reo
sia un evento a carattere metafisico, è una verità ormai taciuta da tutti. Lo
ripeto. Se un’altra vita è vista solo come remota eventualità, è normale che la
pena capitale sia il massimo affronto. Ma chi sa che la vita non finisce
quaggiù, sa che vita e morte sono mezzi per unirsi a Dio. La compagnia di San
Giovanni decollato era una congregazione incaricata di curare l’assistenza
spirituale ai condannati a morte. Quante conversioni ha operato San Giuseppe
Cafasso. Quante lettere di condannati a morte della Resistenza (e della RSI)
sono esempi di conversioni solenni! Da Nicola di Tauldo, assistito sul patibolo
da Santa Caterina da Siena, a Felice Robol, confortato da Antonio Rosmini, a
Jacques Fesch, ghigliottinato nel ’57, quanti delinquenti hanno avuto necessità
della suprema condanna per raggiungere un commovente grado di perfezione
spirituale. Il fatto che la pena capitale paghi in un colpo solo tutti i debiti
residui con l’umana e la divina giustizia è una sentenza di San Tommaso D’Aquino
(Summa theologica, voce «mors»).
La pena di morte e ogni pena, se per questo, se non si degradano a pura difesa,
o peggio ancora, ad arbitrio d’un tiranno, presuppongono sempre una sorta di
«diminuzione morale» del reo. La società non priva un colpevole del diritto alla
vita o alla libertà.
Si limita a prendere atto che, tali diritti, inviolabili nell’innocente, lui
reo, depravando la volontà, li ha già, in un certo senso «scemati». In
conclusione: la pena di morte, anzi ogni pena, è illegittima se si pone
l’indipendenza dell’individuo verso la legge morale, se i concetti di bene e
male, giusto e sbagliato, sono messi solo sul piano soggettivo. Se esistono in
modo oggettivo, allora anche le pene sono legittime per i violatori volontari.
Non c’è alcuno diritto incondizionato ai beni della terra. L’unico diritto
simile è quello ai mezzi necessari per la felicità eterna. Nessuna pena li può
togliere, nemmeno la pena capitale. Se poi, rinchiudiamo tutto nel campo
dell’orizzonte terreno, è normale che sembri barbara.
2. Osservazioni e obiezioni
{Nicola Martella}
▲
Su alcuni
aspetti dell’articolo di Raffaele Minimi si può concordare, in parte o in tutto,
e su altri si può indulgere. Qui di seguito evidenziamo solo alcuni aspetti
controversi, lasciando il resto al giudizio del lettore.
L’autore si muove all’interno della logica del cattolicesimo romano,
della sua storia, dei suoi assunti teologici e giuridici, della sua mutevole
prassi nella storia e della sua anomalia (essere «teocrazia», ossia chiesa e
Stato sovrano allo stesso tempo). L’anomalia della chiesa romana è stata quella
di condannare a morte per secoli i dissidenti, i cristiani altri e
quant’altri non riconoscessero il magistero clericale; e questo non è successo
solo all’interno del cosiddetto «Stato della chiesa», ma pressoché in tutta
l’Europa. Interi villaggi furono rasi al suolo e i suoi abitanti trucidati e
condannati a morte, grandi e piccoli (cfr. Albigensi, Catari, Valdesi). Non
meraviglia quindi la posizione ambigua della chiesa romana in proposito, dati i
precedenti storici. Non meraviglia neppure che Raffaele Minimi, strenuo seguace
del magistero romano, ne ricalchi le posizioni.
Già
l’uso deleterio e immorale, fatto della pena di morte da parte della chiesa
romana (furono messi a morte dissidenti sul piano religioso, culturale e
scientifico), dovrebbe portarci a considerare come esso sia uno strumento
ingiusto in mani inique. Ciò che i chierici hanno fatto per secoli contro i
delitti d’opinione (cfr. Inquisizione: persecuzioni, torture, condanna a morte),
viene fatto anche attualmente da altri regimi verso dissidenti e persone
diversamente pensanti.
Certamente un cristiano sottomesso alla sacra Scrittura dissente vivamente dall’elogio
della pena di morte, fine a se stessa, fatto da Baudelaire né farà mai un
elogio del boia e della sua vocazione di morte, come invece ha fatto Joseph de
Maistre. Egli però non può dimenticare da che pulpito viene oggi la morale
sociale della chiesa romana, ossia dallo stesso che per secoli ha legittimato e
praticato la persecuzione, la tortura e la condanna a morte di persone che sul
piano della fede, della cultura e della scienza avevano altre convinzioni.
Certo si possono citare Agostino da Ippona, Tommaso d’Aquino, Taparelli
d’Azeglio e altri illustri personaggi del passato, compresi papi. Per un
cristiano che ha come unico magistero la sacra Scrittura, vale
chiaramente e specialmente quest’ultima. Che dire quindi dei brani biblici
citati?
■ Romani 13,4: Si noti che l’apostolo Paolo descrisse la situazione così
com’era: i cristiani vivono in Stati in cui l’autorità politica ha il potere
legislativo ed esecutivo; laddove quest’ultima punisce i colpevoli e premia gli
onesti, svolge una funzione di «ministro di Dio». Egli non disse che l’autorità
politica potesse essere la chiesa né che quest’ultima fondasse Stati teocratici.
Neppure si appellò qui all’autorità politica perché usasse la spada né suggerì
ai governanti come regolamentarsi in proposito. Paolo descriveva semplicemente
uno stato di cose e riconosceva all’autorità politica il diritto d’amministrare
la giustizia.
■ Matteo 18,6: Se si legge questo verso fuori del contesto, lo si
applicherà impropriamente. L’intero brano (vv. 5-10) parla di azioni perpetuate
da qualcuno col fine di «scandalizzare» (far cadere in trappola) «uno di
questi piccoli che credono in me», e parla di azioni preventive, intese in
senso morale, per non arrivare a tanto: mozzarsi mano e piede o cavarsi un
occhio. È chiaramente un parlare paradossale per rendere chiara la gravità di
tale atto e le conseguenze per tali piccoli e per la propria anima (invece di «entrare
nella vita», «essere gettato nel fuoco perpetuo»). Poi nel brano si
parla di ciò che è «meglio» (vv. 6.8s). È probabile che anche nel v. 6 bisogna
applicare la logica del «meglio per lui»
rispetto a qualcosa («essere gettato nel fuoco perpetuo»). Poi nel v. 6
non si parla di pena capitale comminata da un’autorità, ma di ciò che sarebbe
«meglio» fare «per lui» per non
arrivare a tanto o per non ripetere qualcosa del genere, mostrando poi la via
preventiva (vv. 8s). È quindi un brano non specifico per la pena di morte.
Quanto alla
concezione di Tommaso d’Aquino, secondo cui la pena capitale pagherebbe in un
colpo solo tutti i debiti residui che una persona avrebbe verso l’umana e la
divina giustizia — essa è una semplice costruzione di filosofia scolastica, che
la sacra Scrittura non avvalla. L’idea è che la propria punizione possa fungere
da espiazione delle proprie colpe dinanzi a Dio, qualora il colpevole sia
sinceramente pentito — questa è una concezione estranea alla Bibbia e come tale
fuorviante. L’unica espiazione accattata da Dio è quella fatta da Gesù sulla
croce per i suoi propri meriti! Le parole di Gesù rivolte al ladrone in croce («Oggi
sarai con me in Paradiso»; Lc 23,43) non erano basate sul suo pentimento,
sulla sua confessione o su un presunto carattere espiatorio della sua propria
morte (questo sarebbe proprio una perversione dottrinale!), ma sul
riconoscimento che — oltre al fatto che lui e l’altro ladrone stavano così
scontando la «condegna pena» — chi moriva accanto a lui non aveva fatto nulla di
male per meritarsi la crocifissione (v. 41), che Gesù era il Messia-Re promesso,
che presto sarebbe venuto nel suo regno (l’altro ladrone ne faceva motivo di
sarcasmo; v. 39), e che chiedeva a Lui: «Gesù, ricordati di me quando sarai
venuto nel tuo regno!» (v. 42). L’idea che la condanna a morte possa espiare
colpe dinanzi a Dio, è una pia illusione e un grave errore dottrinale. Dio ha un
solo mezzo di salvezza: per grazia mediante la fede in Gesù quale Messia (Ef
2,8).
►
Raffaele Minimi: l'uomo dai mille volti? {Nicola Martella} (A)
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Pena_capitale_apologia_EnB.htm
18-02-2007; Aggiornamento: 25-03-2008
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