La Pasqua è
ciò, che celebrò Gesù con i suoi discepoli nella notte, in cui fu tradito: «Con
brama ho bramato di mangiare
questa Pasqua con voi, prima che io soffra» (Lc 22,15).
L’eucaristia è ciò, che è diventata questa «Cena del Signore», dopo molti
secoli di sviluppi, di influenze e trasformazioni dottrinali.
Premetto che amo i figli di Dio, rigenerati dallo Spirito Santo,
indipendentemente dalla frequenza, con cui celebrano ciò, che intendono per
«Cena del Signore». L’oggetto di questo tema è nato da precise domande di un
lettore. Questo scritto vuole essere la base di una riflessione comune e di un
confronto fraterno. Dio salva per grazia mediante la fede; i segni della grazia
di Dio, come battesimo e Cena del Signore, non hanno in sé alcuna forza di
salvare, ma tutt’al più sono solo occasione per far esprimere concretamente la
fede e per alimentarla. Al ladrone in croce Gesù promise il Paradiso, sebbene
egli non fosse stato battezzato nel nome di Cristo e non avesse mai partecipato
alla Pasqua cristiana o a qualsiasi culto della chiesa.
1. LE QUESTIONI: Un lettore mi ha scritto quanto segue: […]
mi sono imbattuto casualmente sul suo sito mentre facevo ricerche per curiosità
personale sul tema in oggetto [= Cena del Signore]. Ho trovato molte
informazioni interessanti, ma se non la disturbo eccessivamente, desidero
sottoporre alla sua attenzione alcune domande.
■ 1. L’espressione «frazione del pane» nel NT indica sempre e solo un
pasto ordinario o anche la cena del Signore? Le faccio questa domanda perché
diversi commentari cattolici e anche evangelici, che ho consultato, riferiscono
che tale espressione è addirittura un termine tecnico per indicare la Santa
Cena, almeno in Atti 2,42.46; 20,7.
■ 2. 1 Corinzi 11,17-34 parla della cena del Signore annuale o di una
celebrazione frequente, visto che sembra che Paolo parli delle normali riunioni
(versi 18-20), che avvenivano settimanalmente (la domenica?).
■ 3. Se nel NT è attestata solo la celebrazione annuale il 14 Nisan, in
continuità con la pasqua ebraica, come e quando è avvenuto il passaggio a
una celebrazione frequente? È forse legato al cambiamento dal culto del sabato a
quello della domenica?
■ 4. Come sono nate, da una celebrazione annuale, addirittura due
celebrazioni distinte, ossia la Cena del Signore settimanale o quotidiana e
la Pasqua cristiana annuale?
■ 5. I Quartodecimani, alla Cena del Signore, che celebravano solo una
volta all’anno il 14 Nisan, affiancavano anche l’eucarestia domenicale, come
sembra testimoniare Eusebio di Cesarea nella sua storia ecclesiastica?
■ 6. I padri della chiesa più antichi (Didaché, Ignazio, Barnaba,
Giustino) testimoniano realmente una celebrazione eucaristica domenicale, come
sostengono vari commentatori?
Queste in sintesi
le domande, cui non riesco a dare una risposta. Le sarei molto grato se potesse
fornirmi una risposta esaustiva ed eventualmente indicarmi qualche fonte, cui
fare riferimento per ulteriori ricerche chiarificatrici! {C.P.; 28-08-2014}
2. LE RISPOSTE: Quanto qui segue, è la ricerca e la
ricostruzione di una verità storica
ed esegetica. Non ha, quindi, lo scopo di modificare le abitudini cultuali e
religiose delle chiese riguardo alla Cena del Signore o alla sua rammemorazione
pasquale; ognuno tragga le conclusioni, che vuole, per la propria prassi
personale ed ecclesiale. Penso che quanto affermò Paolo riguardo al «giorno»
(Rm 14,5s), si possa applicare anche qui. L’effetto benefico può essere,
ad esempio, quello di non pensare che la propria prassi cultuale al riguardo sia
l’unica «biblica» a differenza delle altre.
Per comodità, seguo la numerazione sopra indicata, riferendomi punto per punto a
quanto chiesto dal lettore.
2.1. LA
FRAZIONE DEL PANE: Molti commentari cattolici ed evangelici non partono
da un’esegesi storica, letteraria e culturale, ma hanno mire dogmatiche. Il loro
intento è rendere plausibile
la prassi odierna, presente nelle chiese: quella della messa quotidiana in campo
cattolico e quella della Cena del Signore domenicale (o con altra cadenza) in
molte chiese evangeliche. Quindi, premettendo che la propria prassi odierna,
diffusa per consenso denominazionale, sia quella del NT, si usano volentieri
brani come Atti 2,42.46; 20,7, per confermarla, poiché tali brani vengono
riempiti col significato, che corrisponde alle proprie convinzioni. Ho già
parlato altrove di tali questioni, perciò non intendo ripetermi in larghezza.
Quanto ad Atti 2,42.46, si dovrebbe spiegare con sufficienza di
argomenti come la Pasqua, una della feste maggiori del giudaismo, che
necessitava tanta preparazione (p.es. pane azzimo), fosse divenuta una
ricorrenza quotidiana per la chiesa giudaica di Gerusalemme, in cui tutti erano
«zelanti per la legge» (At 21,20). È semplicemente inverosimile
e anacronistico. Verso la fine della carriera di paolo, tali Giudei cristiani,
essendo molto conservatori, accusarono l’apostolo di deviazione dalla legge
e lo indussero a recare al tempio un sacrificio di purificazione rituale,
pagando anche per altri cristiani giudei, per dimostrare dinanzi agli occhi di
tutti, che egli si comportava da «osservatore della
legge» (vv. 21-24).
Quanto ad Atti 20,7, si trascura che il primo giorno della settimana
cominciava sabato sera; per parlare Paolo fino a mezzanotte e poi fino
all’alba, è verosimile che tali credenti si siano radunati sabato sera, dopo il
lavoro. Inoltre, si dovrebbe spiegare con sufficienza di argomenti perché a
mezzanotte Paolo, «essendo risalito, ruppe il
pane e prese cibo», ossia da solo (v.
11). La stessa espressione idiomatica non può essere usata in due modi
differenti in pochi versi. È evidente che Paolo non celebrò da solo la Cena del
Signore, ma prese semplicemente un boccone, come diremmo noi oggi. Così fecero
anche tutti i credenti durante l’agape, mentre Paolo parlava; ciò non era
inverosimile nell’antichità.
L’espressione giudaica «rompere il pane» derivava dalla prassi quotidiana
si frangere il pane, facendone la benedizione. Ciò avveniva sia nel contesto
domestico (Lc 24,30 Gesù era qui ospite non riconosciuto; cfr. v. 35), sia per
eventi particolari, come il mangiare in tempo di lutto (Gr 16,7; cfr. il divieto
per Ezechiele: «Non mangiare il pane della gente»;
Ez 24,17). È ciò che faceva Gesù abitualmente con i suoi discepoli e, in casi
particolari, con le folle (Mt 14,19; 15,36; Mc 8,19s). Non è un caso che
in Atti 2,42.46 i credenti, «rompendo il pane
nelle case, prendevano il loro cibo insieme».
In
Atti 20,7 si trattava semplicemente di un’agape fraterna, in cui i
credenti mangiavano insieme (cfr. Gd 1,12).
2.2.
FREQUENZA DELLA «CENA DEL SIGNORE»: Le chiese del NT si radunavano
abitualmente nelle case, specialmente in quelle più spaziose (At 12,12) e
in quelle dei conduttori (Rm 16,5; 1 Cor 16,19); in Colosse c’erano almeno due
di tali «chiese in casa» (Col 4,15; Flm 1,2). Per eventi particolari (agapi,
incontri decisionali, ecc.) si radunavano insieme, ad esempio nella proprietà o
nel podere di qualche cristiano possidente (Rm 16,23).
Per tali incontri particolari, di cui si parla nell’epistola ai Corinzi, Paolo
usò l’espressione
synérchomai en ekklēsía «radunarsi in
assemblea (solenne)» (1 Cor 11,18). Ad esempio, mentre abitualmente alla
donna era concesso di «proclamare» (profēteúō; 1 Cor 11,5), ossia parlare
pubblicamente per edificare, esortare e consolare (1 Cor 14,3), in tali incontri
solenni non era concesso alla donna di prendere la parola (1 Cor 14,35). Quindi,
in 1 Corinzi 11,19ss non si trattava delle «normali riunioni».
Non c’è traccia nel NT che le normali riunioni avvenissero in tempi stabiliti,
settimanalmente o particolarmente di domenica. Erano i cristiani giudei a
osservare il «giorno», ossia il sabato (Rm 14,5s; cominciava venerdì sera!),
mentre i cristiani gentili non avevano tale abitudine, non conoscendo neppure la
settimana, poiché per loro erano «tutti i giorni
uguali» (Rm 14,5). Allora i
credenti erano spesso perseguitati; perciò, come sappiamo dagli antichi
scrittori cristiani, essi si radunavano quando potevano e volevano, spesso ciò
accadeva la sera dopo il lavoro, senza distinzione di giorni.
La «Cena del Signore» come celebrazione frequente, staccata dalla Pasqua,
è nata in tempi post-apostolici. Nel NT non ve n’è traccia.
L’epistola, che conosciamo come 1 Corinzi, ci offre degli indizi
particolari sul tempo, in cui fu scritta, quindi al suo «ambito vitale». Paolo
scrisse ai Corinzi in tempo di Pasqua; questa epistola è una vera e
propria parenesi pasquale. Egli fece riferimento al vecchio lievito e alla nuova
pasta, che bisognava creare da ogni Pasqua in poi (1 Cor 5,6s). Il Messia fu
indicato come la «nostra Pasqua immolata per noi» (v.
7), ossia come agnello pasquale. L’esortazione a celebrare «la festa» non col
vecchio lievito, ma con gli azzimi, mostra che la Pasqua doveva ancora venire
(v. 8). Quindi, i Corinzi erano al corrente della Pasqua annuale e della sua
dinamica, per poi essere applicata pure in senso morale (vv. 8ss).
Anche in 1 Corinzi 10
c’è un riferimento alla Pasqua cristiana, durante la quale «l’unico pane»
veniva spezzato, per ricordare il corpo spezzato del Signore. L’apostolo esordì
con lo «stesso cibo spirituale» e la stessa «bevanda spirituale», che ebbe
Israele nel deserto, applicando poi tutto a Cristo (vv. 1-4). Poi, dopo aver
parlato della purificazione morale necessaria (a Pasqua ci si doveva disfare del
vecchio lievito), arrivò al punto, che letteralmente recita: «Il calice della
benedizione, che noi benediciamo, non è la comunione del sangue di Cristo? Il
pane, che noi rompiamo, non è la comunione del corpo di Cristo? Infatti, un
pane, un corpo siamo noi, i molti, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane»
(vv. 16s). È evidente che il «calice della benedizione» era il calice, che si
benediceva a Pasqua (cfr. Mt 26,27). Il pane esprimeva l’unità di tutti i
credenti, che manifestavano così di essere parte del corpo del Signore,
l’assemblea messianica.
Anche in 1 Corinzi 11
si parla di un evento particolare, visto che si parla di «radunarsi in
assemblea (solenne)» (vv. 18.20), mentre abitualmente i credenti si
radunavano in vari gruppi nelle case. Non è chiaro se Paolo descrivesse qui le
agapi occasionali di tutti i credenti del luogo (cfr. vv. 21s.33s), in cui essi
mangiavano insieme, oppure si riferisse alla Pasqua cristiana, designata qui
come «mangiare la Cena del Signore» (cfr. v. 20). Nel primo caso, con
l’introduzione del «memoriale pasquale» (vv. 23ss), Paolo, trovandosi nel tempo
precedente alla Pasqua, intendeva mettere dinanzi ai loro occhi l’istituzione
del nuovo patto e le sue implicazioni quale «corpo del Signore». Nel secondo
caso, l’apostolo intendeva ricordare loro il vero senso della «Cena del
Signore» quale rammemorazione dell’ultima Pasqua del Signore. In tale contesto «questo
pane» era il pane azzimo della Pasqua; «questo calice» (v. 26; o
«calice del Signore», v. 27) era il calice pasquale, con cui Gesù introdusse il
nuovo patto.
Sorprende pure che Paolo abbia affrontato il tema della risurrezione in
1 Corinzi 15. Infatti anch’esso era un tema della Pasqua cristiana, seguendo
la risurrezione del Signore immediatamente a essa (vv. 3s). Era specialmente in
tempo pasquale che si predicava che Cristo era risuscitato dai morti (v. 12);
tuttavia, alcuni Corinzi, pur partecipando alla Pasqua cristiana e credendo alla
risurrezione di Cristo, affermavano che non ci sarebbe stata una risurrezione
dei morti. Paolo mostrò l’incongruenza di una tale credenza (vv. 13-19.29ss) e
attestò che Cristo è effettivamente risuscitato dai morti, per essere la
primizia di quelli che dormono e che risusciteranno a loro tempo (vv.
20ss.35ss).
Quindi, questa epistola è una vera e propria parenesi pasquale.
2.3. PASQUA E
CENA DEL SIGNORE IN AMBITO GIUDAICO: Gesù non introdusse celebrazioni
particolari, ma reinterpretò quelle esistenti. Egli scelse di introdurre il
nuovo patto proprio in concomitanza con la
Pasqua ebraica, dandogli un nuovo significato. Gesù fece aspettare i
discepoli fino a Pentecoste, per far manifestare lo Spirito Santo su di
loro (At 2,1), dando così un nuovo significato
pure a questa festa, importante per gli Ebrei (festa delle settimane o della
raccolta). Paolo ci teneva ad arrivare per Pentecoste a Gerusalemme, per vivere
tale occasione particolare (At 20,16; cfr. 1 Cor 16,8). Luca, essendo ebreo, ci
ricordò che Erode mise in prigione Pietro nei «giorni degli azzimi» (At
12,3), ossia nel periodo pasquale, e che, per non irritare gli Ebrei, voleva
metterlo a pubblico giudizio dopo la Pasqua (v. 4). I «giorni degli azzimi»
scandiva anche gli impegni missionari di Paolo, che partì solo dopo tale periodo
(At 20,6), avendo ragionevolmente festeggiato la Pasqua con la chiesa locale di
Filippi, in cui si venne a trovare.
Verso la fine della carriera missionaria di Paolo, i conduttori della chiesa di
Gerusalemme non vedevano neppure una contraddizione nel fatto di credere
nell’unico sacrificio espiatorio di Gesù e di fare riti di purificazione
presso il tempio (At 21,23s; v. 26. Paolo), sebbene questi implicassero dei
sacrifici (cfr. Lc 14,10s.23.32; 15,13ss; Nu 6,9ss). Ciò accadeva anche in caso
di voto solenne, cosa che anche Paolo fece (At 18,18); la conclusione di
un voto avveniva, offrendo un sacrificio presso il tempio (cfr. Lv 22,18ss.21ss;
Nu 15,3.8).
Perciò, è difficile che tale cambiamento ci sia stato nell’ambito del
cristianesimo giudaico, dove tutti erano «zelanti per la legge» (At 21,20).
Anche la vita dei cristiani giudaici era condizionato dal calendario liturgico
ebraico; quelli della chiesa di Gerusalemme non vedevano alcuna contraddizione
nel partecipare al culto nel tempio, nell’incontrarsi sotto il portico di
Salomone (At 5,12) e nell’edificarsi poi nelle case (At 2,42-47).
Quanto al presunto cambiamento dal culto del sabato a quello della domenica,
anche di ciò non v’è traccia nel NT. Le chiese giudaiche erano troppo legate
alla legge, quindi ai sabati (settimanali, mensili e festivi). Le chiese
gentili, al tempo del NT, non conoscevano giorni sacri settimanali (Rm 14,5s).
La Pasqua di Gesù o «Cena del Signore» non aveva nulla a che fare con un giorno
settimanale. L’introduzione della domenica avvenne alcuni secoli dopo.
2.4. IL
PASSAGGIO DALLA PASQUA O CENA DEL SIGNORE AD ALTRO: Abbiamo visto che,
essendo tutti gli apostoli e la maggior parte dei loro collaboratori
giudei, difficilmente poteva essere introdotto un tale cambiamento da loro,
poiché essi stessi, pur non imponendo ai Gentili la legge, erano personalmente
legati al calendario liturgico del giudaismo.
Perciò, tale passaggio avvenne nelle chiese gentili, che non erano
obbligate a osservare la legge mosaica, come fu deciso nel Concilio di
Gerusalemme (At 15,28s; cfr. vv. 10.19ss). Essi non osservavano, in genere,
neppure dei giorni settimanali particolari (Rm 14,5s). Paolo aveva istruito le
chiese a maggioranza gentile a non osservare sabati, noviluni e altre ricorrenze
giudaiche e aveva rimproverato pesantemente coloro, che sobillati dai giudaisti,
ritenevano di doverlo fare (Gal 4,10s; Col 2,16s).
È probabile che in tempi post-apostolici tale costume di festeggiare la Pasqua
del nuovo patto in altri momenti dell’anno sia nata in qualche chiesa a
maggioranza gentile, magari durante qualche agape solenne (ricordiamo che i
credenti si radunavano abitualmente nelle case); è facile, poi, che tale usanza
sia stata copiata da altre assemblee allo stesso modo o in altri modi. Infine,
si creò un altro consenso, che si consolidò nel tempo, specialmente quando venne
introdotto un clero (mutuato a altre religioni) e l’idea sacramentale (mutuato
alle «religioni dei misteri»). Tuttavia, di tutto ciò non c’è alcuna traccia
ancora nel NT.
Bisogna tener presente che, nei secoli, entrarono nelle chiese persone devote a
vari culti pagani; essi, diventando cristiani, non sempre si liberarono delle
ideologie religiose di provenienza, ma le cristianizzarono. Ciò portò alla
modificazione della consapevolezza dottrinale dei segni e dei riti presenti
nelle chiese. Alcuni di tali convertiti erano stati addirittura sacerdoti nelle
«religioni dei misteri» e introdussero concezioni gnostiche e
sacramentaliste nel cristianesimo. In tal modo, sotto la spinta culturale del
diffuso gnosticismo, venne introdotta anche l’idea di un
clero speciale, che amministrasse tali «misteri» (gr. mysterion
= lat. sacramentum). Il sacerdozio universale, insegnato dagli apostoli,
fu soppiantato dal clericalismo, che introdusse molte novità, come un uso
frequente della «Cena del Signore» e vari giorni sacri, come la domenica,
i giorni di penitenza e gli inizi di un calendario liturgico cristiano.
2.5.
QUARTODECIMANI: Eusebio di Cesarea
(ca. 265-340) non era certo uno scrittore neutrale, essendo stato zelante
consigliere e biografo dell’imperatore romano Costantino I. La sua storia
ecclesiastica doveva portare allo status quo, creato da tale imperatore, che
dominò la chiesa di stato, ma si fece battezzare solo sul letto di morte.
Inoltre, Eusebio non visse da testimone le cose, di cui narra. Molte delle sue
informazioni provengono non da fonti scritte, ma dal sentito dire. Il suo
pensiero fu condizionato dal metodo allegorico di Origene, condizionato dallo
gnosticismo, di cui redasse l’Apologia. Inoltre, Eusebio fu per lungo tempo un
seguace di Ario. In pratica la sua «storia ecclesiastica» era una presunta
storia di una nazionale cristiana, che egli faceva coincidere con l’impero di
Costantino. Secondo la
Enciclopedia Britannica, Eusebio non può essere considerato un grande
storico, essendo le sue valutazioni di parte e il suo intento apologetico. Anche
delle citazioni, che fa di altri scrittori, può avere riportato solo le parti,
che tirano acqua al mulino delle sue tesi. Ad esempio, lo storico svizzero Jacob
Burckhardt considerò Eusebio così: «Il primo storico interamente disonesto
dell’antichità».
Il nome «Quartodecimani» designa specialmente le chiese cristiane
d’Oriente, i quali celebravano la Pasqua all’ebraica, ossia il 14° giorno del
mese di Nisan, qualunque giorno esso fosse. Essi furono accusati da altri di
essere giudaizzanti. Tale prassi fu attestata nelle chiese orientali proprio da
Eusebio anche nel 3° secolo. Sebbene la decisione presa dal Concilio di Nicea
(325) di celebrare la Pasqua di domenica, su spinta di Costantino e del vescovo
di Roma, le chiese orientali continuarono con le loro usanze di celebrare la
Pasqua il 14° giorno del mese di Nisan, e ciò accadde almeno fino al 341
(concilio di Antiochia). Le chiese d’oriente accusarono i loro delegati di
essersi asservirti al potere temporale. Ci furono chiese, che non si fecero
scoraggiare dalle decisioni dei concili e dalla minaccia di scomunica e
continuarono con la loro prassi pasquale. Ancora nel 5° e nel 6° secolo si parla
di singole chiese, che seguivano la tradizione dei «Quartodecimani».
Sul fatto che i «Quartodecimani» del 2° secolo, seguendo la tradizione ebraica
della Pasqua, celebrassero anche la «Cena del Signore» la domenica, non
ho trovato fonti attendibili. Personalmente penso che, fino a prova contraria,
ci sia da dubitarne.
2.6. I
COSIDDETTI PADRI DELLA CHIESA: Io sono un esegeta; perciò non mi
appassiono molto delle storie della chiese, poiché ognuno propone
la sua e perché ognuno legge le fonti a modo suo. Inoltre, ti tanti scrittori
dei primi secoli abbiamo solo citazioni di seconda mano. Di alcuni scrittori
abbiamo solo frammenti. E dei manoscritti più o meno completi degli scrittori
cristiani dei primi secoli nessuno è autografo, ma essi sono copie distanti
anche secoli dagli originali. Nessuno può dimostrare che non siano stati
manipolati in seguito, per accreditare le convinzioni della chiesa di stato. Ad
esempio, ci sono forti dubbi che i manoscritti della Didaché
corrispondano al testo antico (2°-3° sec.), poiché i manoscritti esistenti sono
molto recenti. La chiesa di Roma aveva un ufficio apposito per contraffare
antichi documenti a suo favore o per inventarne altri (cfr. la presunta «Donazione
di Costantino» con cui il vescovo di Roma imbrogliò la cristianità e vari
imperatori). La lettera di Barnaba è un apocrifo, sorta dopo la morte di
questo apostolo della chiesa di Antiochia; il Barnaba biblico era molto più
anziano di Paolo, e quest’ultimo morì intorno al 64-67 d.C., quindi abbastanza
prima della distruzione di Gerusalemme. Quindi, essendo morto Barnaba intorno
all’anno 61 d.C., tale lettera è un falso. Ignazio di Antiochia (35-107)
e Giustino (100-162/168), come altri del loro tempo, contengono nei loro
scritti aspetti affini alla Scrittura e altri, che rispecchiano le loro
convinzioni e interpretazioni soggettive. Giustino fu, in effetti, un filosofo e
apologeta cristiano.
Come detto sopra, essendo io un esegeta della sacra Scrittura e non essendoci
sempre certezza sulle fonti originali di tali cosiddetti «padri della chiesa»,
preferisco ragionare sui testi biblici. Lascio ad altri gli eventuali
approfondimenti su tali scrittori del 2°-4° secolo. In tale periodo era
tutto in sommovimento, c’erano accese guerre di potere all’interno della
nomenclatura ecclesiastica, che si era formata. Dalle chiese libere, in
comunione fra loro, si passò alle chiese territoriali, ai patriarcati e alle
furenti dispute di chi fosse il primo fra i vescovi. Dottrine e poteri erano
mischiati fra loro. In tale variopinta confusione, entrarono da fuori vari
costumi religiosi, che furono cristianizzati; e pure all’interno delle chiese
sorsero varie tradizioni ecclesiastiche.
Di ognuno di tali cosiddetti «padri della chiesa» bisognerebbe accertare, ad
esempio, a quando risale il manoscritto più antico in nostro possesso. Inoltre,
come nel caso di Eusebio di Cesarea, bisognerebbe appurare pure l’attendibilità
storica di ciò, che afferma, e se ciò, che scrive, sia viziato dalle sue
convinzioni di parte.
3. ASPETTI CONCLUSIVI: Come ho detto fin dall’inizio, il
nostro intento è quello di appurare una verità storica ed esegetica.
Ognuno, poi, può trarre le sue conclusioni. Quando si proietta la propria
prassi cultuale nel NT, si penserà di trovare abbastanza riscontri per essa,
poiché oramai si è creato un consenso che le cose starebbero così. Quando si va
alla Scrittura, per scoprire la verità in essa insita a prescindere, si
ha la possibilità di capirla per quello, che veramente è, per poi modificare il
proprio pensiero e la propria prassi.
Abbiamo visto che c’era una chiesa gerosolimitana, costituita da
migliaia di Giudei tutti zelanti per la legge (At 21,20) e legati al
tempio, all’anno liturgico ebraico e ai riti di purificazione (At 21,23s26). Il
passaggio da una celebrazione pasquale a un’altra prassi avrebbe creato accese e
violente discussioni, come per altre questioni (cfr.
At 11,1ss; 15,1.5), di cui però non v’è alcuna traccia nel NT. Abbiamo
anche visto che gli apostoli e Paolo, pur non imponendo la legge ai Gentili,
erano personalmente legati alla cultura giudaica, al tempio (At 2,46; 3,1ss
preghiera dell’ora nona; 4,1 predicazione; 5,1s.42 insegnamento; 5,12
sotto il portico di Salomone; 22,17 Paolo pregò nel tempio; 24,6 Paolo
adorò nel tempio; 24,17 Paolo portò elemosine e
presentò offerte), alla prassi cultuale (At 18,18 tosare il capo; 21,26s
rito di purificazione con sacrificio [= 24,18]) e al calendario liturgico
d’Israele nelle loro narrazioni (At 12,3s) e nella loro prassi. Paolo,
difendendosi pubblicamente dinanzi a Festo, affermò:
«Io non ho peccato né contro la legge dei Giudei, né contro il tempio, né
contro Cesare» (At 25,8).
Quindi, all’interno del cristianesimo giudaico non vi fu alcun cambiamento, ma
una reinterpretazione cristologica degli elementi già presenti nel
giudaismo, compreso le feste (specialmente Pasqua e Pentecoste) e l’anno
liturgico.
La Pasqua era l’unica festa, al cui riguardo l’apostolo Paolo esortò i
cristiani gentili (1 Cor 5,7s). Nella 1 Corinzi abbiamo visto i tanti
riferimenti alla Pasqua (5; 10; 11) e alla risurrezione (15). Abbiamo anche
visto che un mutamento dalla «Cena del Signore» pasquale a un altro uso non
avvenne nel cristianesimo giudaico, ma nel variegato nel
cristianesimo gentile, e cioè in tempi post-apostolici. Ciò fu possibile,
perché i cristiani gentili non erano legati alla legge (cfr. At 15), all’anno
liturgico giudaico, alla settimana ebraica, a particolari giorni da osservare
(Rm 14,5s; Gal 4,10s; Col 2,16s). È difficile dimostrare che tali cambiamenti
siano avvenuti al tempo degli apostoli e del NT. 1 Corinzi 11 non
dimostra, in modo inequivocabile, tale cambiamento; anzi, sembra che Paolo
volesse raddrizzare il tiro in tale chiesa locale, riportandola all’originale
(cfr. la menzione letterale del «memoriale pasquale»; cfr. i vari accenni alla
Pasqua nell’epistola!). In tale assemblea tante cose erano state storte dai
cosiddetti «super apostoli», ossia da esoteristi giudaici, che avevano preso il
potere della chiesa, seducendola e stravolgendola (cfr. 2 Cor 11,3ss.13ss).
Tale mutamento è avvenuto lentamente in alcune chiese a maggioranza gentile.
Poi, nel corso dei secoli, il resto lo fecero lentamente l’imitazione, il
consenso, le imposizioni dall’alto da parte di una nomenclatura religiosa, che
intanto aveva preso il potere nelle chiese, e i concili ingiunti dai cosiddetti
imperatori cristiani. Allora furono imposti giorni sacri e altri
elementi; l’acquisizione di un sacerdozio particolare nelle chiese,
imitando le altre religioni, e l’influenza della gnosi e delle «religioni dei
misteri» rese necessario che il clero avesse un «mistero» (gr.
mysterion; lat. sacramentum) da amministrare di frequente. Perciò, la
«Cena del Signore» pasquale divenne dapprima settimanale (dichiarando il
primo giorno della settimana come sacro, lat. Dominica dies «giorno del
signore») e poi quotidiana. Come abbiamo visto, per vari secoli non tutti
si adeguarono alle decisioni dall’alto, specialmente nelle chiese presenti nella
parte orientale dell’impero romano.
Concludo, ribadendo nuovamente che a me non interessa mutare la prassi delle
chiese attuali. La presa di coscienza degli aspetti storici ed esegetici
possono portare beneficamente a questi aspetti: ▪
1. Non strumentalizzare certi brani e certe espressioni della Scrittura,
che in origine intendevano altro; ▪ 2. Non considerare la propria prassi
cultuale inerente la «Cena del Signore» quella «biblica» e, quindi, non
modificabile; ▪ 3. Non giudicare altre chiese, che hanno una prassi
cultuale differente e un ritmo diverso al riguardo (esistono ritmi settimanali,
quindicinali, mensili, ecc.); ▪ 4. Riflettere a nuovo quale sia una
prassi cultuale, che non diventi rito ripetitivo e, quindi, quasi una ricorrente
rappresentazione coreografica sempre uguale; ▪ 5. Riflettere come si sia
passati da una «cena pasquale», familiare e colloquiale (così in Israele,
cfr. Es 12,3s26s; Gesù con i discepoli, cfr. Mt 26,19ss; Lc 22,12-15; Gv
13,1ss.21ss) a un «rito sacrale», spesso formale, rigoroso e
imperterrito, passivo, solo contemplativo e che spinge di solito a una silente
introversione personale.
►
In Atti 2 si trattava di una quotidiana «Cena del Signore»? {Nicola Martella} (A)
►
Rompere il pane: la cena del Signore? {Nicola Martella} (T)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Pasqua_eucar_UnV.htm
15-09-2014; Aggiornamento: |