Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Dall’avvento alla parusia

 

Missione

 

 

 

 

La prima parte del «Panorama del NT» porta il titolo «Dall’avvento alla parusia», ossia dalla prima alla seconda venuta del Signor Gesù. Questo titolo evidenzia la tensione in cui erano posti i cristiani del primo secolo (e noi oggi). Essi guardavano indietro all’incarnazione, ai patimenti e alla risurrezione di Gesù quale Messia (primo avvento) e guardavano parimenti avanti alla manifestazione del Signore, del suo regno e della sua salvezza. Il termine «avvento» mette quindi in evidenza l’abbassamento del Messia , mentre «parusia» (gr. parousía «venuta, arrivo») evidenzia la manifestazione gloriosa del Signore alla fine dei tempi. Questo è altresì l’uso che si fa di questi due termini nella teologia.

   Ecco le sezioni dell'opera:
■ Aspetti introduttivi
■ Gesù di Nazaret
■ Gli Evangeli
■ Dall’ascensione alla fine dei tempi
■ Aspetti conclusivi

 

► Vedi al riguardo la Recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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MISSIONE CRISTIANA E ACCULTURAZIONE OCCIDENTALE

 

 di Nicola Martella

 

Una lettrice ci ha presentato le seguenti questioni.

 

Caro fratello Nicola, sono Mary, una figlia di Dio, mamma, moglie e studente di Scienze Sociali. Ho sospeso quest’anno gli studi per problematiche economiche, ma prima di sospendere, mi durante il mio corso di studi sono posta tante domande in merito a un esame, per il quale ho studiato, che è «Antropologia culturale». Un esame affascinante ma intrinseco di caratteristiche, che riguardano il genere umano e il modo, in cui esso si è adattato in tutti gli angoli della Terra. Insomma, si tratta della capacità dell’uomo di sviluppare tecniche di sopravvivenza e tecniche socialmente utili.

     Tuttavia, in tutto questo studio, che ha a che fare anche con un percorso storico, scientifico e religioso, mi son chiesta (alla luce della conoscenza biblica) come è possibile che esistano oggi popolazioni di esseri umani, che vivono allo stato tribale e con sistemi di parentela a noi inconcepibili (come l’incesto e l’avunculato)?

     Poi, ancora, la mia osservazione nasce dal momento, in cui ho studiato che gli Occidentali hanno avuto la pretesa di «civilizzare» gli Indiani, ovvero gli indigeni della terra, che oggi chiamiamo Americani.

     Insomma, fratello Nicola, non voglio risposte assolute, poiché comprendo che nel cuore dell’uomo c’è stato sempre il desiderio di dominare e sete di potere. Ciò che mi chiedo è questo: è così importante intervenire nei sistemi culturali degli indigeni di queste terre, per far si che diventino come noi? ovvero «civilizzati»? Premetto che per un antropologo non è possibile stabilire chi è civilizzato e chi no, poiché ogni società usa il suo sistema culturale per relazionarsi e vivere insieme. Tuttavia, alla luce della volontà del Signore, come bisognerebbe interagire con loro per portare la Parola? Molti missionari oggi fanno questo, oggi come ieri, portano la Parola in molti popoli non occidentali e so che è molto difficile per loro. Tuttavia, in qualche modo so che devono adattarsi alle regole del posto, per interagire e fare la volontà del Padre.

     Caro fratello, nella speranza di essere stata chiara, ripeto che non cerco risposte assolute, ma solo di avere spiegazioni tali da essere preparata un giorno che sosterrò tale esame, poiché vorrei dare la mia impressione anche in merito al concetto creazionista. Grazie per i meravigliosi studi, i quali possiamo leggere sul tuo sito. Che Dio ti benedica sempre, ti abbraccio nell’amore del Signore! {Mary Di Lauro; 07-08-2011}

 

Ad aspetti rilevanti di tali questioni rispondiamo qui di seguito.

 

 

1.  ENTRIAMO IN TEMA: Per capirsi, bisogna distinguere due processi culturali differenti.

     ■ L’acculturazione è nell’etnologia quel processo di adattamento, spesso forzoso, di un popolo o di un gruppo sociale a una cultura dominante. Similmente si può parlare anche di quel processo mediante il quale vengono a modificarsi costumi, usanze e cultura di un gruppo sociale o di un popolo, quando è esposto a rapporti e contatti prolungati con altri gruppi o popoli.

     Nella sociologia è visto come quel processo di interazione e integrazione culturale tra strutture culturali differenti e tra gruppi sociali diversi (fonti: qui e qui).

     ■ L’inculturazione è nella sociologia quel processo, per mezzo del quale l’individuo assimila la cultura del proprio gruppo, durante il processo di socializzazione (fonti: qui e qui).

 

L’antropologia culturale è una branca molto affascinante del sapere. Tuttavia, spesso dipende da chi l’insegna, ossia se è uno studioso neutrale (che abbia una convinzione religiosa personale o meno), un ateo o agnostico, un occultista (esoterista, spiritista, medium), un militante del paganesimo e cultore dei riti religiosi tribali, una persona ostile al cristianesimo e così via. Non tutti gli antropologi culturali sono neutrali, ma a volte usano questa branca di studio per scopi ideologici. Si percuote il sacco per colpire il gatto, che c’è dentro.

 

 

2.  UNA PROBLEMATICA REALE: L’aggregamento di famiglie, schiatte, tribù, popoli e nazioni dipende da fattori interni ed esterni, ad esempio, da legami di sangue, lingua, tradizioni, costumi, dominio di una mano forte su di loro, pericoli esterni, offesa e difesa e così via. Giustamente tali entità in piccolo come in grande cercano di sopravvivere e di organizzarsi in senso sociale, proprio per dare un freno al male, all’arbitrio e all’ingiustizia. A volte, convenzioni nate in situazioni specifiche di necessità (p.es. matriarcato, matrimonio fra consanguinei, avunculato [esso prevede che la potestà sulla prole non spetta al padre, ma allo zio materno]), vengono perpetuate nel tempo anche laddove sono oramai anacronistiche, avendo conferito loro un aspetto di tradizione sacra.

     La pretesa di imporre la propria civiltà ai popoli vinti o a quelli che si ritiene barbari, è stata da sempre una realtà in tutte le fasi della storia. Certo, a volte, succede che la civiltà vinta (anch’essa era una civiltà!) si vendica, per così dire, contaminando con particolari suoi elementi la civiltà dei dominatori. Questi sono processi storico-culturali, che nulla hanno a che fare col cristianesimo in sé.

     Quando i conquistatori occidentali arrivarono in America, in Asia e in altre parti del mondo, essi non ci andarono certo come benefattori cristiani. Essi intervennero nei sistemi culturali degli indigeni di quelle terre e cercarono di «civilizzarli» (meglio occidentalizzarli), per imporre il loro dominio politico e commerciale su di loro. Essi si servirono al riguardo anche della religione. Anche oggigiorno i potenti cercano di servirsi delle religioni per imporre le loro ideologie.

     È vero che i conquistatori lavorarono insieme alle potenti confessioni religiose occidentali, in capo a tutte il cattolicesimo romano, ma non tutti coloro che andarono in missione tra tali popoli erano collusi col potere o avevano mire politiche, ma intendevano portare la Parola di Dio. Purtroppo le chiese territoriali vedevano un’equivalenza fra società occidentale e cristianesimo, visto che il pedobattesimo era altresì l’iscrizione all’anagrafe, se così si poteva chiamare. Tali confessioni cristiane replicarono tale equivalenza anche in terra di missione, ritenendo che cristianizzare significasse occidentalizzare.

     Tutto ciò non si basava sull’insegnamento biblico, ma sul fatto che le autorità ecclesiali erano di pari tempo autorità civili (cfr. vescovi conti, Stato della chiesa, chiesa di Stato). Secondo l’amillenarismo, la chiesa era considerata il regno escatologico di Cristo e la società occidentale l’unica espressione possibile di tale regno, su cui regnavano, in modo vicario, l’imperatore e il papa.

 

 

3.  EVANGELO E NON ACCULTURAMENTO: Quando gli apostoli del Signore e gli altri missionari andarono in capo al mondo per portare l’Evangelo, non avevano mire politiche, desiderio di dominio e sete di potere. Essi predicavano la Buona Novella non una cultura particolare, neppure quella giudaica.

     All’inizio la chiesa era solo giudaica e i problemi non si ponevano. Quando Dio costrinse Pietro e altri Giudei a predicare l’Evangelo anche ai Gentili, il problema non fu riconosciuto subito, visto che molti dei neoconvertiti erano già proseliti giudaici. Quando il problema della cultura ebraica si fece acuto, certo i farisei cristianizzati pretesero che i cristiani gentili si facessero circoncidere, diventando così Giudei, e ubbidissero perciò alla legge mosaica (At 15,1.5). Essi intrapresero anche campagne di persuasione nelle chiese a maggioranza gentile, portando molto scompiglio e malumore. Nel Concilio di Gerusalemme arrivarono Paolo e Barnaba come esponenti delle chiese gentili e presentarono la problematica. Alla fine, la chiesa di Gerusalemme, i loro conduttori e gli apostoli (tutti Giudei!) decisero, perché convinti dallo Spirito Santo, quanto segue, scrivendolo pure a tali chiese: «Gli apostoli e i fratelli anziani, ai fratelli di fra i Gentili che sono in Antiochia, in Siria e in Cilicia, salute. Poiché abbiamo inteso che alcuni, partiti di fra noi, vi hanno turbato coi loro discorsi, sconvolgendo le anime vostre, benché non avessimo dato loro mandato di sorta, è parso bene a noi, riuniti di comune accordo, di scegliere degli uomini e di mandarveli assieme ai nostri cari Barnaba e Paolo, i quali hanno esposto la propria vita per il nome del Signor nostro Gesù Cristo. Vi abbiamo dunque mandato Giuda e Sila; anch’essi vi diranno a voce le medesime cose. Poiché è parso bene allo Spirito Santo ed a noi di non imporvi altro peso all’infuori di queste cose, che sono necessarie; cioè: che v’asteniate dalle cose sacrificate agli idoli, dal sangue, dalle cose soffocate, e dalla fornicazione; dalle quali cose ben farete a guardarvi. State sani» (At 15,23-29). Questa fu una decisione storica, che metteva fine a tanta sofferenza e per questo «quando i fratelli [delle chiese a maggioranza gentile] l’ebbero letta, si rallegrarono della consolazione che recava» (v. 31).

     Da qui in poi, l’evangelizzazione dei popoli non-giudaici doveva avvenire senza una loro giudaizzazione.

     Il grande mandato missionario di Gesù non prevedeva una dittatura culturale con le tradizioni religiose dei mandati sugli indigeni, ma la predicazione dell’Evangelo, che consisteva nell’annuncio della sua persona, del suo mandato e del suo sacrificio espiatorio. «Andando dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro d’osservare tutto ciò, che v’ho comandato! Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento dell’era» (Mt 28,19s).

     Non leggiamo mai di un tentativo del missionario Paolo di comunicare una particolare cultura alle persone, che evangelizzava. Al contrario, egli si adeguava alla cultura ospitante per comunicare all’interno di essa la Buona Novella di Cristo. Ecco le sue stesse parole: «Pur essendo libero da tutti, mi son fatto servo a tutti, per guadagnarne il maggior numero. E coi Giudei, mi sono fatto Giudeo, per guadagnare i Giudei. Con quelli che sono sotto la legge, mi sono fatto come uno sotto la legge (benché io stesso non sia sottoposto alla legge), per guadagnare quelli che son sotto la legge. Con quelli che sono senza legge, mi son fatto come se fossi senza legge (benché io non sia senza legge riguardo a Dio, ma sotto la legge di Cristo), per guadagnare quelli che sono senza legge. Coi deboli mi son fatto debole, per guadagnare i deboli; mi faccio ogni cosa a tutti, per salvarne a ogni modo alcuni. E tutto faccio a motivo dell’Evangelo, alfine d’esserne partecipe anch’io» (1 Cor 9,19-23).

     L’apostolo Paolo si adeguava lui alla cultura altrui, senza perdere certo le sue convinzioni, pur di raggiungere col l’Evangelo coloro, che avevano una cultura differente dalla sua. Perciò, il suo linguaggio durante la sua predicazione nell’areopago (At 17,22-34) era del tutto diversa da quella che usava fare nelle sinagoghe (At 13,16ss; 17,1-4) o dinanzi ai Giudei (At 22,1-22; cfr. 26,1-23).

     Quando l’Evangelo raggiunge una persona all’interno della sua propria cultura, egli diventa il lievito migliore per l’Evangelo, quindi luce e sale in quella specifica realtà. Anche quando il missionario va via, i testimoni dell’Evangelo rimangono. Per questo insegnava la seguente condotta morale: «Non siate d’intoppo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio: così come anch’io compiaccio a tutti in ogni cosa, non cercando l’utile mio proprio, ma quello dei molti, affinché siano salvati» (1 Cor 10,32s).

     Seguendo l’esempio di Cristo, Paolo seguiva questo motto di vita: «Ora, noi che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei deboli e non compiacere a noi stessi. Ciascuno di noi compiaccia al prossimo nel bene, a scopo di edificazione» (Rm 15,1ss). Egli era convinto che l’Evangelo avesse in sé stesso la dinamica di trasformare le persone e, quindi, le culture, in senso positivo, senza snaturare le culture stesse, ma purificandole da tutto ciò, che era in palese contrasto con l’Evangelo stesso. A ciò si devono il nutrito elenco dei trasgressori esclusi dal regno di Dio e l’aggiunta: «E tali eravate alcuni, ma siete stati lavati, ma siete stati santificati, ma siete stati giustificati nel nome del Signor Gesù Cristo, e mediante lo Spirito del Dio nostro. Ogni cosa m’è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa m’è lecita, ma io non mi lascerò dominare da cosa alcuna» (1 Cor 6,9-12). Come si vede, Paolo combatteva il peccato e non la cultura in sé, visto che non cercava di imporre la propria.

     Per quanto era possibile, Paolo cercava di non scandalizzare i Giudei; ad esempio, circoncise Timoteo, che aveva il padre greco (At 16,3; cfr. invece gal 2,3); accettò di sottoporsi a un rito di purificazione presso il tempio a Gerusalemme (At 21,24); non cercò di scandalizzare i cristiani giudei a causa delle loro leggi alimentari (1 Cor 8,13). D’altra parte, fu veemente contro tutti i cristiani giudei, che cercavano di vivere uno stile di vita giudeo nelle chiese a maggioranza gentile, trascinando altri in tale simulazione (Gal 2,11ss); e rimproverò i cristiani gentili, che cominciavano a rinunciare allo loro cultura, mettendosi a giudaizzare (cfr. Gal 1,1ss). Egli denunciò coloro, che volevano acculturare i cristiani gentili col giudaismo, chiamandoli «falsi fratelli, introdottisi di soppiatto, i quali s’erano insinuati fra noi per spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, col fine di ridurci in servitù. Alle imposizioni di costoro noi non cedemmo neppure per un momento, affinché la verità dell’Evangelo rimanesse ferma tra voi» (Gal 2,4s).

 

 

4.  ASPETTI CONCLUSIVI: Analizzando il NT, abbiamo visto che l’apostolo Paolo non pretese la giudaizzazione dei cristiani gentili, ma si scagliò con veemenza contro i giudaisti, che intendevano stravolgere la cultura dei discepoli, imponendo la propria. Egli mostrò il suo procedere, che era quello di adeguarsi al mondo delle idee dei suoi interlocutori e di portare la Buona Notizia di Cristo proprio in modo adeguato a tale mentalità. Egli non snaturò l’Evangelo, ma neppure cercò di cambiare cultura e società dei suoi interlocutori. Egli confidava che lo Spirito di Dio avrebbe condotti i discepoli indigeni in tutta la verità, mostrando loro che cosa era conforme alla dottrina di Cristo e che cosa era contrario ad essa.

     Se, nei secoli scorsi, molti dei missionari cattolici (e in parte protestanti), che seguirono i conquistatori, avessero applicato i principi insegnati dagli apostoli nel NT, non avrebbero semplicemente cristianizzato i popoli, occidentalizzandoli, ma avrebbero predicato l’Evangelo in modo conforme alla cultura ospitante e istruendo nella sana dottrina coloro, che si erano ravveduti ed erano stati rigenerati dal Signore. E i redenti indigeni avrebbero portato luce e sale nel loro proprio ambiente, non stravolgendo propria cultura e la propria società, ma nobilitando gli aspetti positivi e contribuendo a sostituire gli aspetti deteriori con quelli, che onorano Dio.

     Ci sono stati, comunque, varie missioni evangeliche e tanti loro missionari, che si sono resi conto del problema già da moltissimo tempo e che si sono adeguati loro alla cultura ospitante. In genere anche i missionari cattolici e protestanti hanno cambiato da tempo la loro strategia.

     Anche oggigiorno, le società sono fatte di subculture e di «tribù culturali». Anche nei loro confronti si pone lo stesso problema: raggiungere con l’Evangelo coloro, che sono differenti da noi per cultura, adeguandoci a loro nel bene; e sostenere moralmente coloro, che si convertiranno in tali ambienti, perché siano essi stessi sale e luce all’interno delle loro «tribù culturali».

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Missione_acculturaz_Avv.htm

13-08-2011; Aggiornamento:

 

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