Una lettrice ci
ha presentato le seguenti questioni.
Caro fratello
Nicola, sono Mary, una figlia di Dio, mamma, moglie e studente di Scienze
Sociali. Ho sospeso quest’anno gli studi per problematiche economiche, ma prima
di sospendere, mi durante il mio corso di studi sono posta tante domande in
merito a un esame, per il quale ho studiato, che è «Antropologia culturale».
Un esame affascinante ma intrinseco di caratteristiche, che riguardano il genere
umano e il modo, in cui esso si è adattato in tutti gli angoli della Terra.
Insomma, si tratta della capacità dell’uomo di sviluppare tecniche di
sopravvivenza e tecniche socialmente utili.
Tuttavia, in tutto questo studio, che ha a che fare anche con un percorso
storico, scientifico e religioso, mi son chiesta (alla luce della conoscenza
biblica) come è possibile che esistano oggi popolazioni di esseri umani, che
vivono allo
stato tribale e con sistemi di parentela a noi inconcepibili (come
l’incesto e l’avunculato)?
Poi, ancora, la mia osservazione nasce dal momento, in cui ho studiato che gli
Occidentali hanno avuto la pretesa di «civilizzare» gli Indiani, ovvero
gli indigeni della terra, che oggi chiamiamo Americani.
Insomma, fratello Nicola, non voglio risposte assolute, poiché comprendo che nel
cuore dell’uomo c’è stato sempre il desiderio di dominare e sete di
potere. Ciò che mi chiedo è questo: è così importante intervenire nei
sistemi culturali degli indigeni di queste terre, per far si che diventino
come noi? ovvero «civilizzati»? Premetto che per un antropologo non è
possibile stabilire chi è civilizzato e chi no, poiché ogni società usa il suo
sistema culturale per relazionarsi e vivere insieme. Tuttavia, alla luce della
volontà del Signore, come bisognerebbe interagire con loro per portare la
Parola? Molti missionari oggi fanno questo, oggi come ieri, portano la Parola in
molti popoli non occidentali e so che è molto difficile per loro. Tuttavia, in
qualche modo so che devono adattarsi alle regole del posto, per
interagire e fare la volontà del Padre.
Caro fratello, nella speranza di essere stata chiara, ripeto che non cerco
risposte assolute, ma solo di avere spiegazioni tali da essere preparata un
giorno
che sosterrò tale esame, poiché vorrei dare la mia impressione anche in merito
al concetto creazionista. Grazie per i meravigliosi studi, i quali possiamo
leggere sul tuo sito. Che Dio ti benedica sempre, ti abbraccio nell’amore del
Signore! {Mary Di Lauro; 07-08-2011}
Ad aspetti rilevanti di tali questioni rispondiamo qui di seguito. |
1. ENTRIAMO IN TEMA: Per
capirsi, bisogna distinguere due processi culturali differenti.
■
L’acculturazione è nell’etnologia quel processo di adattamento, spesso
forzoso, di un popolo o di un gruppo sociale a una cultura dominante. Similmente
si può parlare anche di quel processo mediante il quale vengono a modificarsi
costumi, usanze e cultura di un gruppo sociale o di un popolo, quando è esposto
a rapporti e contatti prolungati con altri gruppi o popoli.
Nella sociologia è visto come quel processo di interazione e integrazione
culturale tra strutture culturali differenti e tra gruppi sociali diversi
(fonti:
qui e
qui).
■
L’inculturazione è nella sociologia quel processo, per mezzo del quale
l’individuo assimila la cultura del proprio gruppo, durante il processo di
socializzazione (fonti:
qui e
qui).
L’antropologia
culturale è una branca molto affascinante del sapere. Tuttavia, spesso
dipende da chi l’insegna, ossia se è uno studioso neutrale (che abbia una
convinzione religiosa personale o meno), un ateo o agnostico, un occultista
(esoterista, spiritista, medium), un militante del paganesimo e cultore dei riti
religiosi tribali, una persona ostile al cristianesimo e così via. Non tutti gli
antropologi culturali sono neutrali, ma a volte usano questa branca di
studio per scopi ideologici. Si percuote il sacco per colpire il gatto, che c’è
dentro.
2. UNA PROBLEMATICA REALE:
L’aggregamento di famiglie, schiatte, tribù, popoli e nazioni dipende da
fattori interni ed esterni, ad esempio, da legami di sangue, lingua, tradizioni,
costumi, dominio di una mano forte su di loro, pericoli esterni, offesa e difesa
e così via. Giustamente tali entità in piccolo come in grande cercano di
sopravvivere e di organizzarsi in senso sociale, proprio per dare un
freno al male, all’arbitrio e all’ingiustizia. A volte, convenzioni nate
in situazioni specifiche di necessità (p.es. matriarcato, matrimonio fra
consanguinei, avunculato [esso prevede che la potestà sulla prole non spetta al
padre, ma allo zio materno]), vengono perpetuate nel tempo anche laddove sono
oramai anacronistiche, avendo conferito loro un aspetto di tradizione sacra.
La pretesa di
imporre la propria civiltà ai popoli vinti o a quelli che si ritiene
barbari, è stata da sempre una realtà in tutte le fasi della storia. Certo, a
volte, succede che la civiltà vinta (anch’essa era una civiltà!) si vendica, per
così dire, contaminando con particolari suoi elementi la civiltà dei
dominatori. Questi sono processi storico-culturali, che nulla hanno a che fare
col cristianesimo in sé.
Quando i
conquistatori occidentali arrivarono in America, in Asia e in altre parti
del mondo, essi non ci andarono certo come benefattori cristiani. Essi
intervennero nei sistemi culturali degli indigeni di quelle terre e cercarono di
«civilizzarli» (meglio occidentalizzarli), per imporre il loro dominio politico
e commerciale su di loro. Essi si servirono al riguardo anche della religione.
Anche oggigiorno i potenti cercano di servirsi delle religioni per imporre le
loro ideologie.
È vero che i conquistatori lavorarono insieme alle potenti confessioni
religiose occidentali, in capo a tutte il cattolicesimo romano, ma non tutti
coloro che andarono in missione tra tali popoli erano collusi col potere o
avevano mire politiche, ma intendevano portare la Parola di Dio. Purtroppo le
chiese territoriali vedevano un’equivalenza fra società occidentale e
cristianesimo, visto che il pedobattesimo era altresì l’iscrizione all’anagrafe,
se così si poteva chiamare. Tali confessioni cristiane replicarono tale
equivalenza anche in terra di missione, ritenendo che cristianizzare
significasse occidentalizzare.
Tutto ciò non si basava sull’insegnamento biblico, ma sul fatto che le autorità
ecclesiali erano di pari tempo autorità civili (cfr. vescovi conti, Stato della
chiesa, chiesa di Stato). Secondo l’amillenarismo, la chiesa era
considerata il regno escatologico di Cristo e la società occidentale l’unica
espressione possibile di tale regno, su cui regnavano, in modo vicario,
l’imperatore e il papa.
3. EVANGELO E NON ACCULTURAMENTO:
Quando gli apostoli del Signore e gli altri missionari andarono in capo
al mondo per portare l’Evangelo, non avevano mire politiche, desiderio di
dominio e sete di potere. Essi predicavano la Buona Novella non una cultura
particolare, neppure quella giudaica.
All’inizio la chiesa era solo giudaica e i problemi non si ponevano. Quando Dio
costrinse Pietro e altri Giudei a predicare l’Evangelo anche ai Gentili, il
problema non fu riconosciuto subito, visto che molti dei neoconvertiti erano già
proseliti giudaici. Quando il problema della cultura ebraica si fece acuto,
certo i farisei cristianizzati pretesero che i cristiani gentili si facessero
circoncidere, diventando così Giudei, e ubbidissero perciò alla legge mosaica
(At 15,1.5). Essi intrapresero anche campagne di persuasione nelle chiese a
maggioranza gentile, portando molto scompiglio e malumore. Nel Concilio di
Gerusalemme arrivarono Paolo e Barnaba come esponenti delle chiese gentili e
presentarono la problematica. Alla fine, la chiesa di Gerusalemme, i loro
conduttori e gli apostoli (tutti Giudei!) decisero, perché convinti dallo
Spirito Santo, quanto segue, scrivendolo pure a tali chiese: «Gli apostoli e
i fratelli anziani, ai fratelli di fra i Gentili che sono in Antiochia, in Siria
e in Cilicia, salute. Poiché abbiamo inteso che alcuni, partiti di fra noi, vi
hanno turbato coi loro discorsi, sconvolgendo le anime vostre,
benché non avessimo dato loro mandato di sorta, è parso bene a noi, riuniti di
comune accordo, di scegliere degli uomini e di mandarveli assieme ai nostri cari
Barnaba e Paolo, i quali hanno esposto la propria vita per il nome del Signor
nostro Gesù Cristo. Vi abbiamo dunque mandato Giuda e Sila; anch’essi vi diranno
a voce le medesime cose. Poiché è parso bene allo Spirito Santo ed a noi
di non imporvi altro peso all’infuori di queste cose, che sono
necessarie; cioè: che v’asteniate dalle cose sacrificate agli idoli, dal sangue,
dalle cose soffocate, e dalla fornicazione; dalle quali cose ben farete a
guardarvi. State sani» (At 15,23-29). Questa fu una decisione storica, che
metteva fine a tanta sofferenza e per questo «quando i fratelli [delle chiese
a maggioranza gentile] l’ebbero letta, si rallegrarono della consolazione che
recava» (v. 31).
Da qui in poi, l’evangelizzazione dei popoli non-giudaici doveva avvenire
senza una loro giudaizzazione.
Il grande mandato missionario di Gesù non prevedeva una dittatura
culturale con le tradizioni religiose dei mandati sugli indigeni, ma la
predicazione dell’Evangelo, che consisteva nell’annuncio della sua persona, del
suo mandato e del suo sacrificio espiatorio. «Andando dunque, ammaestrate
tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo, insegnando loro d’osservare tutto ciò, che
v’ho comandato! Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento
dell’era» (Mt 28,19s).
Non leggiamo mai di un tentativo del missionario Paolo di comunicare una
particolare cultura alle persone, che evangelizzava. Al contrario, egli si
adeguava alla cultura ospitante per comunicare all’interno di essa la Buona
Novella di Cristo. Ecco le sue stesse parole: «Pur essendo libero da tutti,
mi son fatto
servo a tutti, per guadagnarne il maggior numero. E coi Giudei, mi sono
fatto Giudeo, per guadagnare i Giudei. Con quelli che sono sotto la legge,
mi sono fatto come uno sotto la legge (benché io stesso non sia
sottoposto alla legge), per guadagnare quelli che son sotto la legge. Con quelli
che sono senza legge, mi son fatto come se fossi senza legge (benché io
non sia senza legge riguardo a Dio, ma sotto la legge di Cristo), per guadagnare
quelli che sono senza legge. Coi deboli mi son fatto debole, per
guadagnare i deboli; mi faccio ogni cosa a tutti, per salvarne a ogni
modo alcuni. E tutto faccio a motivo dell’Evangelo, alfine d’esserne partecipe
anch’io» (1 Cor 9,19-23).
L’apostolo Paolo si adeguava lui alla cultura altrui, senza perdere certo
le sue convinzioni, pur di raggiungere col l’Evangelo coloro, che avevano una
cultura differente dalla sua. Perciò, il suo linguaggio durante la sua
predicazione nell’areopago (At 17,22-34) era del tutto diversa da quella che
usava fare nelle sinagoghe (At 13,16ss; 17,1-4) o dinanzi ai Giudei (At 22,1-22;
cfr. 26,1-23).
Quando l’Evangelo raggiunge una persona all’interno della sua propria cultura,
egli diventa il lievito migliore per l’Evangelo, quindi luce e sale in
quella specifica realtà. Anche quando il missionario va via, i testimoni
dell’Evangelo rimangono. Per questo insegnava la seguente condotta morale: «Non
siate d’intoppo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio:
così come anch’io compiaccio a tutti in ogni cosa, non cercando l’utile
mio proprio, ma quello dei molti, affinché siano salvati» (1 Cor 10,32s).
Seguendo l’esempio di Cristo, Paolo seguiva questo motto di vita: «Ora, noi
che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei deboli e non
compiacere a noi stessi. Ciascuno di noi compiaccia al prossimo nel bene,
a scopo di edificazione» (Rm 15,1ss). Egli era convinto che l’Evangelo
avesse in sé stesso la dinamica di trasformare le persone e, quindi, le
culture, in senso positivo, senza snaturare le culture stesse, ma
purificandole da tutto ciò, che era in palese contrasto con l’Evangelo stesso. A
ciò si devono il nutrito elenco dei trasgressori esclusi dal regno di Dio e
l’aggiunta: «E tali eravate alcuni, ma siete stati lavati,
ma siete stati santificati, ma siete stati giustificati nel nome del
Signor Gesù Cristo, e mediante lo Spirito del Dio nostro. Ogni cosa m’è
lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa m’è lecita, ma io non mi
lascerò dominare
da cosa alcuna» (1 Cor 6,9-12). Come si vede, Paolo combatteva il peccato e
non la cultura in sé, visto che non cercava di imporre la propria.
Per quanto era possibile, Paolo cercava di non scandalizzare i Giudei; ad
esempio, circoncise Timoteo, che aveva il padre greco (At 16,3; cfr. invece gal
2,3); accettò di sottoporsi a un rito di purificazione presso il tempio a
Gerusalemme (At 21,24); non cercò di scandalizzare i cristiani giudei a causa
delle loro leggi alimentari (1 Cor 8,13). D’altra parte, fu veemente contro
tutti i cristiani giudei, che cercavano di vivere uno stile di vita giudeo
nelle chiese a maggioranza gentile, trascinando altri in tale simulazione (Gal
2,11ss); e rimproverò i cristiani gentili, che cominciavano a rinunciare
allo loro cultura, mettendosi a giudaizzare (cfr. Gal 1,1ss). Egli denunciò
coloro, che volevano acculturare i cristiani gentili col giudaismo, chiamandoli
«falsi fratelli, introdottisi di soppiatto, i quali s’erano
insinuati fra noi per spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, col fine di
ridurci in servitù. Alle imposizioni di costoro noi non cedemmo neppure
per un momento, affinché la verità dell’Evangelo rimanesse ferma tra voi»
(Gal 2,4s).
4. ASPETTI CONCLUSIVI:
Analizzando il NT, abbiamo visto che l’apostolo Paolo non pretese la
giudaizzazione dei cristiani gentili, ma si scagliò con veemenza contro i
giudaisti, che intendevano stravolgere la cultura dei discepoli, imponendo la
propria. Egli mostrò il suo procedere, che era quello di adeguarsi al mondo
delle idee dei suoi interlocutori e di portare la Buona Notizia di Cristo
proprio in modo adeguato a tale mentalità. Egli non snaturò l’Evangelo, ma
neppure cercò di cambiare cultura e società dei suoi interlocutori. Egli
confidava che lo Spirito di Dio avrebbe condotti i discepoli indigeni in
tutta la verità, mostrando loro che cosa era conforme alla dottrina di Cristo e
che cosa era contrario ad essa.
Se, nei secoli scorsi, molti dei missionari cattolici (e in parte
protestanti), che seguirono i conquistatori, avessero applicato i principi
insegnati dagli apostoli nel NT, non avrebbero semplicemente cristianizzato i
popoli, occidentalizzandoli, ma avrebbero predicato l’Evangelo in modo conforme
alla cultura ospitante e istruendo nella sana dottrina coloro, che si erano
ravveduti ed erano stati rigenerati dal Signore. E i redenti indigeni avrebbero
portato
luce e sale nel loro proprio ambiente, non stravolgendo propria cultura e la
propria società, ma nobilitando gli aspetti positivi e contribuendo a
sostituire gli aspetti deteriori con quelli, che onorano Dio.
Ci sono stati, comunque, varie missioni evangeliche e tanti loro
missionari, che si sono resi conto del problema già da moltissimo tempo e che si
sono adeguati loro alla cultura ospitante. In genere anche i missionari
cattolici e protestanti
hanno cambiato da tempo la loro strategia.
Anche
oggigiorno, le società sono fatte di subculture e di «tribù culturali».
Anche nei loro confronti si pone lo stesso problema: raggiungere con l’Evangelo
coloro, che sono differenti da noi per cultura, adeguandoci a loro nel
bene; e sostenere moralmente coloro, che si convertiranno in tali ambienti,
perché siano essi stessi sale e luce all’interno delle loro «tribù culturali».
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Missione_acculturaz_Avv.htm
13-08-2011; Aggiornamento: |