Ho ricevuto un commento da parte di un lettore all’articolo «Piano personale e istituzionale dei conduttori: Disciplina e abuso di potere nella chiesa». Poiché ciò era parte di una
lettera privata, riporto e sintetizzo le parti salienti, dando all’autore anche
uno pseudonimo. Qui di seguito, quando parliamo di «missionari», intendiamo
quelli fondatori di chiese. Ecco qui di seguito le sue argomentazioni.
La mia domanda è la
seguente: «A chi devono rispondere i missionari?». È molto pericoloso,
quando un apostolo (o missionario fondatore) crede di non dover rispondere delle
proprie azioni, perché questo fornirebbe un alibi proprio all’autoritarismo, a
«santoni», a «guru» o a vari «Diotrefe», che ammorbano la testimonianza
dell’Evangelo.
Sebbene Paolo evidenziasse la sua diretta dipendenza da Dio, essendo
apostolo per volontà del Signore, pure non si sottrasse al fatto di dover
rendere conto agli uomini. Trarre la propria vocazione dalla autorità da Dio,
non costituisce un assegno in bianco, un salvacondotto, che lo esime da critiche
o giudizi fraterni. Lo stesso Paolo affermò di essersi guadagnato sul campo
il suo privilegio di apostolo, e ciò gli permetteva di rivolgere richiami e
ammonimenti pieni di autorità spirituale alle chiese, a cui scriveva.
Torno alla domanda d’ingresso: «A chi rispondono i missionari? Alla loro
chiesa mandante?». Non lo escludo, ma per Paolo francamente non mi sembra.
Infatti, pur essendo mandato dalla chiesa di Antiochia, non fece mai menzione di
un suo dover
rendere conto ad essa del suo operato. Tuttavia, Paolo non si sottrasse dal
dare una giustificazione del suo operato in presenza di anziani e apostoli (Atti
15,1-2; 21,17-26). La stessa cosa accadde per l’apostolo Pietro (Atti 11,1-18).
{Bileam Basco, ps.; 15-10-2010} |
È vero che alcuni possano abusare della
loro autorità, appellandosi a una chiamata divina, e possano cercare un qualche
alibi al loro comportamento, basandosi su una particolare investitura da parte
del Signore. Tuttavia, non è di questo che vogliamo discutere qui. Si fa sempre
bene a provare gli spiriti, per vedere se sono da Dio (1 Gv 4,1), e a stare
attenti a presunti «sommi apostoli» (2 Cor 11,13ss). Qui ci preme affrontare
solo la questione, se i missionari debbano rendere conto alla loro chiesa
mandante o ad altre istanze.
1. PAOLO, PIETRO E LA CHIESA DI
GERUSALEMME: Alla domanda: «A chi devono rispondere i
missionari?», la risposta è evidente: alla propria chiesa mandante e solo a
quella.
■ In Atti 15,1s non leggo che Paolo dovette rendere conto del suo operato
in presenza degli anziani e apostoli di Gerusalemme, ma che fu inviato dalla sua
chiesa mandante,
Antiochia, a rappresentare nel concilio di Gerusalemme il punto di vista
delle chiese a maggioranza gentile. Infatti, è scritto che nella chiesa di
Antiochia «fu deciso che Paolo, Barnaba e alcuni altri dei fratelli
salissero a Gerusalemme agli apostoli ed anziani
per trattare questa questione» (At 15,2; cfr. 14,26ss).
Nella chiesa di
Gerusalemme essi non resero conto del loro operato, ma narrarono in senso
di testimonianza «quanto grandi cose Dio aveva fatte con loro» (v. 4).
L’esamina della questione e la discussione in merito avvennero in seguito (vv.
6s). Infatti, alla fine del dibattimento, Paolo e Barnaba, accompagnati da una
delegazione, furono incaricati di portare un documento ufficiale da parte di
apostoli e fratelli anziani di Gerusalemme, indirizzato «ai fratelli di fra i
Gentili che sono in Antiochia, in Siria ed in Cilicia» (vv. 22s). Il
contenuto di tale lettera non riguardava Paolo e Barnaba, ma le questioni poste
relativamente alla necessità o meno di circoncidere i credenti gentili e si
assoggettarli alla legge mosaica (vv. 1.5).
■ In Atti 21,17-26 non si trattava del fatto che Paolo dovesse rendere
conto alla chiesa di Gerusalemme del suo operato di apostolo, visto che non era
la sua chiesa mandante; anche qui egli testimoniò, per comunione, delle «cose
che Dio aveva fatte fra i Gentili, per mezzo del suo ministero. Ed essi,
uditele, glorificavano Dio» (vv. 19s). La questione, che poi fu affrontata,
riguardava precise accuse fatte dai giudaizzanti (vv. 20s), che avrebbero potuto
inficiare non tanto la comunione con i credenti di Gerusalemme, ma scatenare
l’ira dei Giudei storici (v. 22), creando un tumulto tale che la chiesa giudaica
ne poteva avere danno. Sebbene Paolo avesse seguito il consiglio dei
responsabili della chiesa di Gerusalemme (vv. 23-26), il tumulto scoppio lo
stesso (v. 27ss).
■ Atti 11,1-18 è pertinente, poiché l’assemblea di Gerusalemme aveva
mandato Pietro e lo sosteneva, essendo il suo ministero a tempo pieno (At 6,4; 1
Cor 9,4-7).
Quando avvennero i fatti a Samaria, e Filippo non ne veniva del tutto a
capo, è scritto che «gli apostoli che erano a Gerusalemme,… vi mandarono
Pietro e Giovanni» (At 8,14). Poi, essi, dopo aver svolto lì il loro
ministero, «se ne tornarono a Gerusalemme» (v. 25).
Pietro era stato a casa del romano
Cornelio in Cesarea (At 10,1ss) e successivamente rientrò nella sua chiesa
locale in Gerusalemme (At 11,1s); qui dovette rendere conto di quanto accaduto.
Essendo in Gerusalemme la chiesa mandante di Pietro, era evidente che egli
dovesse rispondere lì dei suoi atti. Qui egli dovette ascoltare le accuse di
«quelli della circoncisione» (vv. 2s), rispose nel merito, raccontando i fatti
(vv. 4-16), e terminò con questa domanda retorica: «Chi ero io da potermi
opporre a Dio?» (v. 17). Ciò sortì il suo effetto positivo (v. 18). Era
evidente, quindi, che Pietro dovesse rendere conto alla sua chiesa mandante.
2. PAOLO E LA CHIESA DI ANTIOCHIA:
Il mio interlocutore ritorna sulla domanda: «A chi rispondono i missionari?».
Poi, riguardo alla chiesa di Antiochia, afferma che Paolo non avrebbe mai fatto
«menzione di un suo dover rendere conto ad essa del suo operato». Poiché non
posso condividere tali affermazioni, non mi resta che approfondire anche questo
punto.
■ Paolo partì da Antiochia con Barnaba
(At 13,1ff) e, dopo il viaggio missionario, essi «navigarono verso
Antiochia, di dove erano stati
raccomandati alla grazia di Dio, per l’opera che avevano compiuta. Giunti
là e radunata la chiesa, riferirono tutte
le cose, che Dio aveva fatte per mezzo di loro, e come aveva aperta la
porta della fede ai Gentili. E stettero
non poco tempo coi discepoli» (At 14,26ss). Questo è ciò che fanno
ancora oggigiorno i missionari. In tale periodo la chiesa usò Paolo e Barnaba
addirittura per risolvere una questione teologica importante, inviandoli come
emissari a Gerusalemme (At 15). Da qui tornarono ad Antiochia con una lettera
ufficiale e una rappresentanza del concilio (vv. 22s.30). E Paolo e Barnaba
rimasero ancora per un periodo ad Antiochia, per insegnare ed evangelizzare (v.
35).
■ Fu da Antiochia che Paolo partì nuovamente
in missione con un’altra squadra missionaria (At 15,36.40s). Dopo vari viaggi e
peripezie missionarie, sebbene fosse sbarcato a Cesarea e, per la vicinanza,
fosse salito a Gerusalemme per salutare la chiesa, la sua stazione finale fu
nuovamente in Antiochia (At 18,22). Luca, sintetizzando, narrò che
Paolo, come era già successo precedentemente, si fermò qui alquanto tempo (v.
23). Poi, allo stesso modo, «partì, percorrendo di luogo in luogo il paese
della Galazia e la Frigia, confermando tutti i discepoli». Alla fine, come
l’ultima volta, sbarcò nuovamente a Cesarea (At 21,8) e si recò
nuovamente a Gerusalemme (vv. 15.17), probabilmente per fare come l’ultima
volta, ossia per salutare la chiesa. Non ebbe però più occasione per tornare ad
Antiochia, come faceva di consueto, perché fu arrestato in Gerusalemme (vv.
31ss) e da lì fu trasferito prima nel carcere di Cesarea e poi inviato a Roma da
Cesare.
■ Paolo parlò del suo legame con la chiesa di Antiochia anche in Galati
2,12ss, dove riportò un aneddoto significativo. Nella sua assemblea
locale Paolo, dopo l’arrivo di una rappresentanza della chiesa di Gerusalemme,
proveniente da Giacomo, si sentì in dovere di prendere posizione rispetto a
Pietro, che si era messo a giudaizzare e che aveva trascinato anche altri
cristiani giudei in tale simulazione.
Da tutto ciò
risulta che il legame di Paolo con la comunità di Antiochia era indiscutibile,
trattandosi della sua
chiesa mandante. Quando vi tornò, passò periodi abbastanza lunghi in
essa, mettendosi al servizio dei fratelli e accettando incarichi dalla chiesa.
Durante quei periodi di permanenza, essa era semplicemente la sua
chiesa locale. Spero che le
mie risposte chiariscano sufficientemente al mio interlocutore e ad altri, che
Paolo riconosceva l’assemblea di Antiochia come la sua chiesa mandante, e che
essa riteneva Paolo come loro missionario.
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Mission_chiesa_manda_UnV.htm
22-10-2010; Aggiornamento: 18-06-2015 |