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Le diversità possono essere una risorsa oppure diventano un problema.
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■ Entriamo in tema (il problema)
■ Uniti nella verità
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Il libro è adatto primariamente per conduttori di chiesa, per diaconi e per collaboratori attivi; si presta pure per il confronto fra leader e per la formazione dei collaboratori. È un libro utile per le «menti pensanti» che vogliano rinnovare la propria chiesa, mettendo a fuoco le cose essenziali dichiarate dal NT.

 

Vedi al riguardo la recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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I MISSIONARI E LA CHIESA MANDANTE

 

 di Nicola Martella

 

Ho ricevuto un commento da parte di un lettore all’articolo «Piano personale e istituzionale dei conduttori: Disciplina e abuso di potere nella chiesa». Poiché ciò era parte di una lettera privata, riporto e sintetizzo le parti salienti, dando all’autore anche uno pseudonimo. Qui di seguito, quando parliamo di «missionari», intendiamo quelli fondatori di chiese. Ecco qui di seguito le sue argomentazioni.

 

La mia domanda è la seguente: «A chi devono rispondere i missionari?». È molto pericoloso, quando un apostolo (o missionario fondatore) crede di non dover rispondere delle proprie azioni, perché questo fornirebbe un alibi proprio all’autoritarismo, a «santoni», a «guru» o a vari «Diotrefe», che ammorbano la testimonianza dell’Evangelo.

     Sebbene Paolo evidenziasse la sua diretta dipendenza da Dio, essendo apostolo per volontà del Signore, pure non si sottrasse al fatto di dover rendere conto agli uomini. Trarre la propria vocazione dalla autorità da Dio, non costituisce un assegno in bianco, un salvacondotto, che lo esime da critiche o giudizi fraterni. Lo stesso Paolo affermò di essersi guadagnato sul campo il suo privilegio di apostolo, e ciò gli permetteva di rivolgere richiami e ammonimenti pieni di autorità spirituale alle chiese, a cui scriveva.

     Torno alla domanda d’ingresso: «A chi rispondono i missionari? Alla loro chiesa mandante?». Non lo escludo, ma per Paolo francamente non mi sembra. Infatti, pur essendo mandato dalla chiesa di Antiochia, non fece mai menzione di un suo dover rendere conto ad essa del suo operato. Tuttavia, Paolo non si sottrasse dal dare una giustificazione del suo operato in presenza di anziani e apostoli (Atti 15,1-2; 21,17-26). La stessa cosa accadde per l’apostolo Pietro (Atti 11,1-18). {Bileam Basco, ps.; 15-10-2010}

 

È vero che alcuni possano abusare della loro autorità, appellandosi a una chiamata divina, e possano cercare un qualche alibi al loro comportamento, basandosi su una particolare investitura da parte del Signore. Tuttavia, non è di questo che vogliamo discutere qui. Si fa sempre bene a provare gli spiriti, per vedere se sono da Dio (1 Gv 4,1), e a stare attenti a presunti «sommi apostoli» (2 Cor 11,13ss). Qui ci preme affrontare solo la questione, se i missionari debbano rendere conto alla loro chiesa mandante o ad altre istanze.

 

1.  PAOLO, PIETRO E LA CHIESA DI GERUSALEMME: Alla domanda: «A chi devono rispondere i missionari?», la risposta è evidente: alla propria chiesa mandante e solo a quella.

     ■ In Atti 15,1s non leggo che Paolo dovette rendere conto del suo operato in presenza degli anziani e apostoli di Gerusalemme, ma che fu inviato dalla sua chiesa mandante, Antiochia, a rappresentare nel concilio di Gerusalemme il punto di vista delle chiese a maggioranza gentile. Infatti, è scritto che nella chiesa di Antiochia «fu deciso che Paolo, Barnaba e alcuni altri dei fratelli salissero a Gerusalemme agli apostoli ed anziani per trattare questa questione» (At 15,2; cfr. 14,26ss). Nella chiesa di Gerusalemme essi non resero conto del loro operato, ma narrarono in senso di testimonianza «quanto grandi cose Dio aveva fatte con loro» (v. 4). L’esamina della questione e la discussione in merito avvennero in seguito (vv. 6s). Infatti, alla fine del dibattimento, Paolo e Barnaba, accompagnati da una delegazione, furono incaricati di portare un documento ufficiale da parte di apostoli e fratelli anziani di Gerusalemme, indirizzato «ai fratelli di fra i Gentili che sono in Antiochia, in Siria ed in Cilicia» (vv. 22s). Il contenuto di tale lettera non riguardava Paolo e Barnaba, ma le questioni poste relativamente alla necessità o meno di circoncidere i credenti gentili e si assoggettarli alla legge mosaica (vv. 1.5).

 

     ■ In Atti 21,17-26 non si trattava del fatto che Paolo dovesse rendere conto alla chiesa di Gerusalemme del suo operato di apostolo, visto che non era la sua chiesa mandante; anche qui egli testimoniò, per comunione, delle «cose che Dio aveva fatte fra i Gentili, per mezzo del suo ministero. Ed essi, uditele, glorificavano Dio» (vv. 19s). La questione, che poi fu affrontata, riguardava precise accuse fatte dai giudaizzanti (vv. 20s), che avrebbero potuto inficiare non tanto la comunione con i credenti di Gerusalemme, ma scatenare l’ira dei Giudei storici (v. 22), creando un tumulto tale che la chiesa giudaica ne poteva avere danno. Sebbene Paolo avesse seguito il consiglio dei responsabili della chiesa di Gerusalemme (vv. 23-26), il tumulto scoppio lo stesso (v. 27ss).

 

     ■ Atti 11,1-18 è pertinente, poiché l’assemblea di Gerusalemme aveva mandato Pietro e lo sosteneva, essendo il suo ministero a tempo pieno (At 6,4; 1 Cor 9,4-7).

     Quando avvennero i fatti a Samaria, e Filippo non ne veniva del tutto a capo, è scritto che «gli apostoli che erano a Gerusalemme,… vi mandarono Pietro e Giovanni» (At 8,14). Poi, essi, dopo aver svolto lì il loro ministero, «se ne tornarono a Gerusalemme» (v. 25).

     Pietro era stato a casa del romano Cornelio in Cesarea (At 10,1ss) e successivamente rientrò nella sua chiesa locale in Gerusalemme (At 11,1s); qui dovette rendere conto di quanto accaduto. Essendo in Gerusalemme la chiesa mandante di Pietro, era evidente che egli dovesse rispondere lì dei suoi atti. Qui egli dovette ascoltare le accuse di «quelli della circoncisione» (vv. 2s), rispose nel merito, raccontando i fatti (vv. 4-16), e terminò con questa domanda retorica: «Chi ero io da potermi opporre a Dio?» (v. 17). Ciò sortì il suo effetto positivo (v. 18). Era evidente, quindi, che Pietro dovesse rendere conto alla sua chiesa mandante.

 

 

2.  PAOLO E LA CHIESA DI ANTIOCHIA: Il mio interlocutore ritorna sulla domanda: «A chi rispondono i missionari?». Poi, riguardo alla chiesa di Antiochia, afferma che Paolo non avrebbe mai fatto «menzione di un suo dover rendere conto ad essa del suo operato». Poiché non posso condividere tali affermazioni, non mi resta che approfondire anche questo punto.

     ■ Paolo partì da Antiochia con Barnaba (At 13,1ff) e, dopo il viaggio missionario, essi «navigarono verso Antiochia, di dove erano stati raccomandati alla grazia di Dio, per l’opera che avevano compiuta. Giunti là e radunata la chiesa, riferirono tutte le cose, che Dio aveva fatte per mezzo di loro, e come aveva aperta la porta della fede ai Gentili. E stettero non poco tempo coi discepoli» (At 14,26ss). Questo è ciò che fanno ancora oggigiorno i missionari. In tale periodo la chiesa usò Paolo e Barnaba addirittura per risolvere una questione teologica importante, inviandoli come emissari a Gerusalemme (At 15). Da qui tornarono ad Antiochia con una lettera ufficiale e una rappresentanza del concilio (vv. 22s.30). E Paolo e Barnaba rimasero ancora per un periodo ad Antiochia, per insegnare ed evangelizzare (v. 35).

 

     ■ Fu da Antiochia che Paolo partì nuovamente in missione con un’altra squadra missionaria (At 15,36.40s). Dopo vari viaggi e peripezie missionarie, sebbene fosse sbarcato a Cesarea e, per la vicinanza, fosse salito a Gerusalemme per salutare la chiesa, la sua stazione finale fu nuovamente in Antiochia (At 18,22). Luca, sintetizzando, narrò che Paolo, come era già successo precedentemente, si fermò qui alquanto tempo (v. 23). Poi, allo stesso modo, «partì, percorrendo di luogo in luogo il paese della Galazia e la Frigia, confermando tutti i discepoli». Alla fine, come l’ultima volta, sbarcò nuovamente a Cesarea (At 21,8) e si recò nuovamente a Gerusalemme (vv. 15.17), probabilmente per fare come l’ultima volta, ossia per salutare la chiesa. Non ebbe però più occasione per tornare ad Antiochia, come faceva di consueto, perché fu arrestato in Gerusalemme (vv. 31ss) e da lì fu trasferito prima nel carcere di Cesarea e poi inviato a Roma da Cesare.

 

     ■ Paolo parlò del suo legame con la chiesa di Antiochia anche in Galati 2,12ss, dove riportò un aneddoto significativo. Nella sua assemblea locale Paolo, dopo l’arrivo di una rappresentanza della chiesa di Gerusalemme, proveniente da Giacomo, si sentì in dovere di prendere posizione rispetto a Pietro, che si era messo a giudaizzare e che aveva trascinato anche altri cristiani giudei in tale simulazione.

 

Da tutto ciò risulta che il legame di Paolo con la comunità di Antiochia era indiscutibile, trattandosi della sua chiesa mandante. Quando vi tornò, passò periodi abbastanza lunghi in essa, mettendosi al servizio dei fratelli e accettando incarichi dalla chiesa. Durante quei periodi di permanenza, essa era semplicemente la sua chiesa locale.

     Spero che le mie risposte chiariscano sufficientemente al mio interlocutore e ad altri, che Paolo riconosceva l’assemblea di Antiochia come la sua chiesa mandante, e che essa riteneva Paolo come loro missionario.

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Mission_chiesa_manda_UnV.htm

22-10-2010; Aggiornamento: 18-06-2015

 

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