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La questione del lettore
Ti rivolgo una domanda a cui da tempo cerco risposta circa un argomento di
carattere pratico come quello del «lavoro». Ho visto che nella sezione inerente
l’etica, c’è anche quest’argomento, per cui colgo la «palla al balzo» come suole
dirsi e ti spiego subito qual è la mia domanda.
Ho avuto modo, tempo addietro (purtroppo direi… con
grande rammarico) di lavorare come dipendente per alcuni credenti, fratelli in
Cristo, sia della mia comunità che non, tra cui comparivano un anziano di chiesa
e un diacono.
Ebbene; essendo giovane sia d’età che nella fede, in
modo abbastanza ingenuo, direi, ho ritenuto per tanto tempo che certamente
i credenti avessero uno stile di vita diverso anche in un aspetto così pratico
della vita come il lavoro. Ma a suon di «delusioni» e (passami il termine)
«calci nel sedere» ho dovuto appurare che questo non è sempre vero.
Ho avuto a che fare con datori di lavoro credenti che
pretendevano di tenermi a «lavorare» (ma io userei piuttosto il termine
sfruttare) per quattro soldi, senza limiti d’orari e per di più facendomi
lavorare in «nero».
Essendo giovane nella fede (ma anche adesso che ho
qualche anno di esperienza in più certe cose mi rattristano e non riesco a
condividerle), sono stato profondamente segnato e scoraggiato da queste
esperienze, perché ho avuto modo di constatare che vi è, tante volte, una netta
discrepanza e ipocrisia aggiungerei, tra ciò che si predica nelle riunioni
quando ci si riunisce come chiesa e ciò che si fa poi nella vita pratica,
quotidiana. Certamente, non voglio «fare di tutta l’erba un fascio», come suole
dirsi, ma certi comportamenti sono sempre più diffusi, al grido di «oggi
funziona così!». Mi chiedo allora… cosa ci distingue come figli di Dio, da
questo mondo di tenebre se poi nella vita concreta, spicciola, pratica, ci
comportiamo pari pari allo stesso modo? È forse il fatto di dire: «Io credo in
Gesù!»? Ovviamente è una domanda retorica che ti propongo come spunto di
riflessione!
Ti dirò di più!
Una volta ho avuto a che fare con dei datori di lavoro
credenti (con cui per giunta avevo anche una bella amicizia), e uno di questi
all’ennesimo rifiuto da parte d’un mio collega (credente anche lui) di fare del
«lavoro sporco», gli disse (testuali parole): «Senti, il lavoro è una cosa, il
Signore un’altra!». Frase questa, a cui le mie orecchie di giovane credente
rimasero praticamente paralizzate!
In un’altra circostanza, ebbi a che fare con dei
credenti che mi facevano lavorare per 14-15 ore al giorno, per una miseria di
paga (ovviamente in nero!) tra cui un diacono e un anziano di chiesa. La cosa
che più mi colpì in quest’occasione, oltre allo sfruttamento umano della
persona, fu che per questi fratelli, non c’era nessun problema se per il loro
lavoro, bisognava trascurare le riunioni di chiesa, o le varie attività di
chiesa.
Al grido di «oggi funziona così», al grido che «non
siamo più sotto la legge» e che non c’è più il vincolo del sabato — inteso come
nel tuo libro
Šabbât
— questi credenti, ritengono che non bisogna farsi tanti scrupoli.
Come tu hai ben detto nel tuo libro, per la chiesa,
oggi non esiste più il vincolo del «riposo sabbatico» come lo era per Israele,
tuttavia vorrei porti delle domande in merito:
■ 1. Per i credenti del nuovo patto (la chiesa d’oggi
quindi), come conciliare l’aspetto del lavoro con quello della partecipazione
attiva alla vita di chiesa, ai vari incontri? È vero che la domenica non è il
«nuovo sabato cristiano», ma se come Chiese locali si stabiliscono dei giorni in
cui riunirsi evidentemente bisognerà pur farsi qualche scrupolo davanti a Dio. È
altresì vero che ognuno è responsabile per la sua vita, ma cosa ci insegna la
Scrittura circa l’equilibrio del cristiano?
Non credi sia assurdo rifugiarsi dietro l’affermazione
«oggi funziona così»?
Nel mio caso specifico sono stato aspramente ripreso,
quando una domenica, preferii andare al culto d’adorazione piuttosto che andare
a lavorare.
Questo mi lasciò tanta amarezza in bocca e anche
dentro, perché credo che un anziano di chiesa abbia come priorità quella
d’indirizzare un giovane nelle vie di Dio, di prendersi cura (proprio come un
pastore fa con le pecore) della sua crescita spirituale, spronarlo a inserirsi
nella chiesa locale, spronarlo a servire il Signore, dargli l’esempio con la sua
vita.
■ 2. Alla luce di tutto questo credi sia possibile dire
in tutta onestà biblica che pur non essendo più sotto nessuna legge vincolante,
possiamo fare quello che ci pare, tanto ne risponderemo al Signore?
■ 3. Credi sia possibile sentir pronunciare a dei
credenti frasi del tipo che ti ho citato sopra («Il lavoro è una cosa e il
Signore un’altra»)? Questo mi sembra più un comportamento da farisei che da
figli di Dio!
■ 4. Come si può pretendere di predicare le verità
bibliche secondo cui i figli di Dio debbono (giustamente direi) distinguersi dal
mondo per condotta ed esempio di vita e poi anche solo arrivare a pensare di
scindere gli insegnamenti biblici dalla condotta quotidiana di vita?
■ 5. Quando mai, e in quale testo biblico viene mai
anche solo lasciato intendere che la libertà in Cristo significhi adattarsi ai
comportamenti che la società ha in uso?
■ 6. Non credi che anche nella Chiesa del Signore stia
iniziando a dilagare sempre di più, in nome di questa presunta «libertà», invece
un pericoloso e fuorviante relativismo?
Ti ringrazio per la tua disponibilità, caro fratello Nicola, e t’abbraccio in
Cristo! {Tommaso Cherubini, ps.; 10-06-07}
La risposta ▲
Non potendo verificare di persona quanto il lettore afferma, devo
necessariamente basarmi sulle sue parole. Non essendo però il suo caso isolato,
si può anche parlare in senso più lato dell’etica lavorativa qui in Italia tra i
cristiani e, in particolar modo, tra gli evangelici. Non volendo generalizzare,
facciamo riferimento solo a quei casi che assomigliano alla tua situazione. Poiché le chiese italiane non hanno avuto la Riforma,
ma solo la Controriforma, la «sola grazia» li porta ad avere la soteriologia (o
«dottrina della salvezza») evangelica e la (doppia) etica della religiosità
corrente. Questo ha come effetto di separare la «vita di chiesa» dalla «vita nel
mondo». Ho avuto varie occasioni per constatare che non si
tratta del singolo che «sbanda», ma della convenzione diventata sistema. Posti
all’interno d tale paradigma morale, i singoli si comportano con «ovvietà» e
«spontaneità» in un certo modo, senza sentire affatto alcun sintomo di coscienza
sporca perché stanno facendo qualcosa di immorale o di illegale. Il «lavoro
nero», che dovrebbe essere l’eccezione, diventa regola. Invece di pentirsene, si
trovano scuse plausibili (così fan tutti; non se ne può fare a meno; ecc.). Ciò
non vale solo in campo lavorativo, ma anche per copiare CD, libri, spartiti
musicali, ecc. Si pensa che siano bagattelle, errori veniali, quisquilie… a cui
Dio non fa attenzione. Ciò mostra che nelle chiese ci voglia una Riforma
morale e un
Risveglio delle coscienze. Invece ci si rifugia nel misticismo spirituale, a
cui fa da contro-altare una diffusa ignoranza biblica. La cosa peggiore è che le
stesse guide, che dovrebbero essere un modello di morale e di condotta, sono
affette da tale dualismo fra chiesa e mondo. Praticando una schizofrenia
spirituale (si predica bene, ma si razzola male), sarà difficile essere un
esempio e riprendere altri nelle cose in cui si è mancanti. Chi non persevera nell’osservare i comandamenti
di Dio — direbbe l’apostolo Giovanni — non ha conosciuto Dio, ma anzi è bugiardo
e la verità non è in lui (1 Gv 2,3s). Chi ama Dio, non può non amare i fratelli;
ma il giusto modo per mostrare ambedue queste cose è di osservare i suoi
comandamenti (1 Gv 5,1ss). I cristiani che sfruttano il loro prossimo e
specialmente i loro confratelli, rivelano così di non conoscere a sufficienza le
Scritture e di non avere abbastanza timore di Dio. Paolo, vivendo come modello
per gli altri cristiani, affermava a sua difesa: «Noi non abbiamo fatto torto
ad alcuno, non abbiamo nociuto ad alcuno, non abbiamo sfruttato alcuno» (2
Cor 7,2). E ammoniva i credenti a contrastare nella loro vita la tendenza
mondana e carnale di approfittarsi del proprio prossimo: «Nessuno si permetta
delle ingerenze né sfrutti il fratello negli affari; perché il Signore è un
vendicatore in tutte queste cose» (1 Ts 4,6). Pietro parlò di persone che «nella
loro cupidigia vi sfrutteranno con parole finte», (2 Pt 2,3) ma esse erano
considerate persone negative per la fede e l’Evangelo. Allora può succedere che, basandosi sulle convenzioni
vigenti in una zona, si sia effettivamente ciechi a non vedere la discrepanza
fra ciò che afferma il Signore e ciò che si pratica. La vita di chiesa e quella
quotidiana sembrano allora due compartimenti stagni, rette da legge diverse.
Tragico è quando ci si arrende allo status quo e lo si prende come scusante per
i propri comportamenti. Può allora succedere come a quel conduttore della chiesa
di Laodicea che nel suo liberalismo etico si credeva ricco e autosufficiente,
mentre Gesù lo definì «infelice fra tutti, e miserabile e povero e cieco e
nudo» (Ap 3,17). Peggio è quel che il Signore disse al conduttore della
chiesa di Sardi: «Io conosco le tue opere: tu hai nome di vivere e sei morto»
(Ap 3,1). Si tratta di cristiani che eticamente «puzzano» (vivendo da cadaveri
spirituali), sebbene siano salvati per grazia mediante la fede. Chi afferma: «Il lavoro è una cosa, il Signore
un’altra!», non ha capito molto della dinamica della vita di fede e di
servizio. Paolo, dopo aver ricordato ai Colossesi che avevano «svestito
l’uomo vecchio con i suoi atti e rivestito il nuovo» (3,10) e prima di dare
istruzioni precise alle singole categorie (vv. 18-22), affermò: «E qualunque
cosa facciate, in parola o in opera, fate
ogni cosa nel nome del Signor Gesù…» (v. 17). Poi concluse dicendo: «Qualunque
cosa facciate,
operate di buon animo,
come per il Signore e non per gli
uomini […] Servite a Cristo il Signore!» (vv. 23.25). Non a caso parlò di
ricompensa per i fedeli (v. 24) e di retribuzione del torto fatto, non essendoci
riguardi personali dinanzi a Dio (v. 25). Chi impara a trascurare i tempi della comunione
fraterna e della comunione col Signore per il proprio tornaconto, mostra di
essere un pessimo maestro: edifica casa sua, ma distrugge così la casa di Dio.
Ciò non può non avere conseguenze per chi dà un pessimo esempio e per il futuro
di tale comunità. Come si potrà esortare altri a frequentare le riunioni con
assiduità, se non si possiede un rigore e una coerenza personale?
È vero che ai credenti delle nazioni non è stato
ingiunto l’osservanza dei sabati (né di un altro giorno), poiché l’Evangelo
spandendosi per il mondo si doveva incarnare in situazioni, usi e costumi
diversi. Il principio che in ogni luogo una comunità si desse dei propri «tempi
per Dio», in conformità con i propri usi e costumi, non è venuto meno!
■ 1. È vero che per i credenti gentili «tutti i giorni
sono eguali», a differenza di quelli giudei (Rm 14,5). Ciò non vuol dire però
l’anarchia, ma che i credenti delle nazioni possono darsi di luogo in luogo
altre regole rispetto al sabato ebraico. Sta nella libertà delle chiese sparse
per il mondo concordare e stabilire dei tempi di raduno comunitario adatti alle
loro situazioni locali. L’anarchia non è un segno di vita spirituale, ma del
vecchio uomo. La Scrittura parla di tempi in cui radunarsi in assemblea (1 Cor
11,18), in cui aspettarsi gli uni gli altri (1 Cor 11,33), in cui praticare il
pari consentimento nella preghiera (At 1,14; 4,24) eccetera. ■ 2. Proprio perché bisogna rendere conto al Signore,
non si può fare come ci pare. Chi persevera nel peccato, palesa di non conoscere
Dio. Sebbene non siamo più sotto la legge mosaica (antico patto), non siamo
senza legge, ma siamo sotto la «legge di Cristo» (nuovo patto; 1 Cor 9,21) e
sotto la «legge dello Spirito» (Rm 8,2). La «legge di Cristo» si adempie
portando ognuno i pesi degli altri (Gal 6,2). La «legge dello Spirito» mi ha
affrancato dalla «legge del peccato e della morte», rivelata dalla legge
mosaica, ma non lascia nel vuoto, poiché si realizza come «vita in Cristo Gesù»
(Rm 8,2). ■ 3. Chi afferma: «Il lavoro è una cosa e il Signore
un’altra», palesa una mancanza di conoscenza biblica e una mancanza di obiettivi
spirituali. Come già detto, tutto ciò che facciamo e diciamo deve servire a noi
cristiani primariamente per servire Dio, per rendergli il ringraziamento e la
lode (Col 3,17); poi deve servire anche per fare del bene al prossimo,
primariamente a quelli della famiglia dei credenti (Gal 6,10). ■ 4. Chi insegna scindere gli insegnamenti biblici
dalla condotta di vita quotidiana ha una lacuna nella conoscenza biblica o nella
prassi di fede. È quindi ancora immaturo spiritualmente ed è inadatto a essere
guida di altri. L’uomo di Dio dev’essere «irreprensibile», altrimenti è inadatto
a essere guida e conduttore di altri (1 Tm 3,2; Tt 1,6s; cfr. 1 Ts 2,10 «modo
santo, giusto e irreprensibile»; 1 Tm 6,14 «uomo immacolato,
irreprensibile»). ■ 5. Mai nel NT si parla della «libertà in Cristo» in
termini di anarchia dottrinale o etica o in termini di adesione alle convenzioni
mondane. Paolo, dopo aver fatto un lungo elenco esemplare di comportamenti
mondani, affermò: «E tali eravate alcuni; ma siete stati lavati, ma siete
stati santificati, ma siete stati giustificati…» (1 Cor 6,11). Chi persiste
nel vivere nelle cose del mondo, vive in una schizofrenia spirituale. In tal
casi, avendo accettato Gesù quale Salvatore, deve accettarlo anche come Signore
della propria vita. ■ 6. È grave quando si confonde la «libertà dello
Spirito» (2 Cor 3,17), intesa come libertà mediante Cristo dalla legge mosaica
(vv. 13ss), con il relativismo morale. Quest’ultimo mostra non la libertà, ma il
legame col mondo. La mondanità dei credenti, il materialismo e l’arbitrio morale
mostrano il lievito dello «spirito di Babilonia» nelle loro vite. «L’etica di
una libertà responsabile» — come io la chiamo — libera dalle convenzioni e dalle
tradizioni (incrostazioni culturali del tempo) e porta a cercare ciò che piace
al Signore nel nostro tempo, quindi a maggiore sottomissione a Lui e alla sua
Parola.
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Etica_lavoro_fede_Sh.htm
13-06-2007; Aggiornamento:
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