Relativismo o opinioni differenti?
Sovente si confonde il «relativismo della verità» con la
differenza di opinione su alcune questioni di seconda categoria, ossia su
cose dove la Scrittura o lascia libertà, o non si esprime in modo chiaro, o
non affronta. Perciò tali credenti pensano che se su una certa questione si
hanno opinioni e convinzioni differenti, si relativizza la verità. Non di
rado, coloro che pensano così, ritengono di avere al riguardo l’opinione
giusta, la convinzione biblica. Essi si sentono «ortodossi»: gli unici.
Ritengono che la loro ermeneutica sia inattaccabile e la loro
interpretazione sia quella normativa. Per questo o si isolano su una torre
di avorio o danno bacchettate a tutti. Per loro parole come dialogo e
confronto sono «male bestie» e vie che portano immancabilmente nel baratro
del pluralismo. Non viene loro in mente che il dialogo, il confronto e
l’ammaestramento reciproco fra cristiani (Mal 3,16; Col 3,16), basato sul
timore di Dio e sulla Parola, sia un processo di ricerca della verità e
della volontà di Dio oggi (Fil 4,8) e di rinnovamento spirituale (Rm 12,2;
Ef 4,23s).
Convinzioni bibliche legittime
Il relativismo della verità è qualcosa da riconoscere e
combattere. L’apostolo Paolo lanciò il suo anatema contro un «altro Cristo»
e un «altro Evangelo» (Gal 1,6ss). Egli mise in guardia contro la filosofia
menzognera, le tradizioni e le dottrine degli uomini (Fil 2,8.22). Presentò
anche un cristianesimo militante. L’apostolo Paolo, che ebbe la grazia di ascoltare
«parole ineffabili» (2 Cor 12,4), confessò che per tante cose non abbiamo la
piena rivelazione della verità: «Poiché
ora vediamo come in uno
specchio [= rame lucidato], in modo oscuro, ma
allora vedremo faccia a
faccia. Ora
conosco in parte, ma
allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto»
(1 Cor 13,12). Sulle verità fondamentali, il Signore ci ha dato piena luce.
Se Dio avesse rivelato tutto chiaramente, non ci sarebbero opinioni
differenti su alcuni aspetti. L’onestà e l’amore per la verità ci deve
portare a riconoscere questo. Ci sono poi aspetti che derivano dalla percezione
culturale, dottrinale e etnica di provenienza. Paolo parlò di convinzioni
differenti nelle variegate situazioni ecclesiali di Roma («chiese in casa»,
Rm 16). Egli non chiese ai credenti di uniformarsi a una sola opinione, ma
concesse al singolo cristiano di poter nutrire una convinzione personale
dinanzi a Dio (Rm 14,22), di essere «pienamente convinto nella propria
mente» (v. 5) e di riconoscere (e rispettare) parimenti le convinzioni
degli altri credenti che fanno o non fanno una certa cosa «per il Signore»
(v. 6) — nell’ottica di non mettere un inciampo dinanzi al credente debole e
(v. 13) di ricordarsi che ognuno renderà conto al Signore (vv. 10.12).
Questa è «l’etica della libertà e della responsabilità», di cui la Scrittura
mi convince. Questa è una cosa diversa dal «relativismo della verità», anzi
è un atto di umiltà dinanzi al fatto che non abbiamo la
completa rivelazione della verità, che avverrà al ritorno di Cristo (1
Cor 13,8s.12).
Il relativismo nel cristianesimo oggi
Il problema attuale delle chiese e nelle chiese non è la
differenza di opinioni su alcuni temi, ma soprattutto i seguenti aspetti: ▪
1) il materialismo (consumismo); ▪ 2) la mondanità; ▪ 3) la mancanza della
ricerca personale della volontà di Dio, ma l’aderenza a sovrastrutture
ideologiche e a casistiche di comportamento; ▪ 4) la mancanza di
consacrazione personale; ▪ 5) la pigrizia spirituale e intellettuale; ▪ 6)
il ripiegamento su se stessi, invece di pensare a un mondo che ha bisogno
dell’Evangelo e di risposte; ▪ 7) eccetera. Perché non si può vivere nel rispetto, nella
comunione e nella collaborazione, nonostante opinioni diverse su alcuni temi
di seconda categoria? Temi come bicchierini o calici, la preghiera della
donna, i giorni da osservare, la frequenza della Cena del Signore, il numero
dei conduttori, l’ordine di sedersi in sala e varie cose del genere valgono
veramente la pena di scavare trincee tra fratelli? Alcune chiese si sono
spaccate su tali cose. Un’analisi delle chiese di un certo tipo (p.es.
«chiese dei Fratelli») nel mondo mostra che sono del tutto diverse fra loro
nelle risposte che danno a queste cose, nel modo di organizzarsi, di agire e
di essere presente nella società. Perché in Italia dev’essere tutto così
pesante e difficile? Perché alcuni fratelli pensano di avere l’unico
«monopolio dell’ortodossia»?
Una testimonianza locale
Quando nella nostra chiesa arrivarono i fratelli delle
Assemblee romene, essi soffrivano in silenzio per tante cose che qui
trovarono diverse dalle pratiche delle loro chiese d’origine. Quando il
numero di questi fratelli divenne abbastanza grande e venni casualmente a
sapere che soffrivano per il natale, che noi non festeggiavamo, dissi loro:
«Fratelli, noi per il clima di reazione alla denominazione predominante, in
cui sono vissuti i nostri padri spirituali, osteggiati proprio da essa, non
abbiamo sviluppato una tale convenzione. Ma è ingiusto che soffriate per non
poter festeggiare quella che per voi è la festa più grande e più bella
dell’anno. Prendete la sala e fatelo». Per loro era come se avessero visto
un miracolo del Signore. Chiesero la sala anche la prossima domenica. Da lì
è nata una chiesa che oggi annovera circa 100 membri. Essi festeggiano la
pasqua, la pentecoste, il giorno del ringraziamento (festa autunnale della
raccolta) e altre feste con molta solennità. Nonostante la nostra diversità,
abbiamo una bella comunione.
Un problema vecchio quanto la chiesa stessa
Tutte le esortazioni all’unità dello Spirito (Ef 4,3), al pari
consentimento (Rm 12,16; 2 Cor 13,11) e al rispetto dei fratelli (Rm 12,10;
Fil 2,3s) sarebbero state superflue nel NT, se i credenti fossero stati di
una sola opinione, cultura, formazione, sensibilità dottrinale e
devozionale, eccetera. Gli scrittori del NT non affermarono che dobbiamo
diventare uno «yogurt omogeneizzato», ma di provare che cosa piaccia al
Signore oggi, di farsi condurre dallo Spirito, invece di
assoggettarsi a una legge (casistica) fatta dagli uomini (Gal 5,18) e di
camminare per lo Spirito, esercitandosi nel frutto dello Spirito (Gal
5,22ss). È una dottrina di libertà e responsabilità (Gcm 1,25; 2,12). Ciò si
accorda con le indicazioni etiche di Paolo: sebbene tutto mi sia lecito, non
tutto è utile e concorre al mio bene (1 Cor 6,12), non tutto edifica e
concorre al bene comune (1 Cor 10,23s). Siamo esortati a vivere in novità di
vita (Rm 6,4) e non secondo vecchie e nuove casistiche (Gal 5,1; Col 6,20s).
È un cristianesimo militante, che permette di avere convinzioni personali
(Rm 14,5s.14) senza usarle come «cavallo di battaglia» contro altri fratelli
(Rm 14,22s), ma restando aperti per il dialogo e le correzioni.
Il bisogno di dialogo dei cristiani oggi
C’è bisogno di interlocutori con cui fare un cammino insieme. I
lunghi silenzi, la mancanza di dialogo, l’indifferenza, la concentrazione su
se stessi e altre cose scoraggiano. Se si vuole, tutto può ricominciare, se
ci si basa su quell’«etica della libertà e della responsabilità» che coniuga
l’amore con la verità e che è aperta al confronto reciproco, senza
prevaricazioni, sulla base dell’esegesi della Parola. Possono sembrare
desideri e sogni, ma a volte ci sono i miracoli. Ciò che ci unisce come cristiani, che amano la sola
Scrittura, è più di quanto possa mai dividerli. Bisogna essere sempre
disposti al dialogo e a eventuali correzioni.
► Il
tatuaggio: fregio o peggio?
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Etica_della_liberta_UnV.htm
07-04-2007; Aggiornamento:
|