1. ENTRIAMO IN TEMA: Avendo
scritto abbastanza sul tema «divorzio e nuove nozze», non intendevo
ritornarci così presto. Tuttavia, la lettura degli articoli pubblicati fa
sorgere domande nei lettori, a cui vale la pena rispondere. Quello che segue è
uno di questi casi. Il divorzio di chiunque (credenti e non) e comunque
accada (con giusta causa o meno), è sempre una sconfitta, una lacerazione e una
tara, che segna tutta la vita. Esso è quindi una materia delicata sia per
gli insegnanti di etica biblica, sia per i curatori d’anime. Quindi, in via
generale, non si può essere a favore del divorzio; e anche laddove si riscontano
le eccezioni, contemplate dalla Scrittura, si fa sempre bene ad affrontare ogni
caso a se stante, senza leggerezza e senza disumanità.
2. LE QUESTIONI:
Caro Nicola, scrivo in merito al tema «Divorzio
e nuove nozze», trattato sul tuo
sito.
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1. Innanzitutto
ti ringrazio per l’interessante articolo che hai scritto, indubbiamente si
tratta di una tematica al quanto scottante e controversa ed è veramente
difficile districarsi nei difficili passi che la trattano, almeno è così per me.
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2. Dopo aver
letto l’articolo non riesco a comprendere in definitiva la tua posizione
riguardo a credenti separati (divorziati) e alla loro possibilità di risposarsi
(1 Cor 7,10). Da una parte, basandoti sulle parole di Paolo, affermi che
una separazione per motivi, chiamiamoli d’incompatibilità, non avrebbe permesso
nuove nozze. D’altro canto nelle conclusioni pastorali, porti un caso
pratico di due giovani credenti, che dopo aver contratto matrimonio, decidono da
lì a breve per un divorzio e, in questo caso, le domande retoriche, che poni,
fanno pensare che saresti a favore di nuove nozze.
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3. A questo punto
sono un po’ confuso sulla tua posizione in merito. Se sei a favore di nuove
nozze anche per i credenti come interpreti 1 Corinzi 7,10-11, come
ammonimento e non come ingiunzione?
Ti ringrazio in anticipo, un
caro saluto. {Simone Monaco; 12-03-2012}
3. LE RISPOSTE: Seguo la
numerazione data alle questioni di sopra. Mi
preme ricordare ai lettori che ai fini di una corretta comprensione è utile e
necessario leggere prima l’articolo sopra menzionato, l'articolo «Divorzio
e seconde nozze» e il connesso
tema di discussione. Ciò impedirà di
presentare nuovamente questioni già affrontate e a cui è stata già data ampia
risposta.
3.1. LE
PREOCCUPAZIONI: È vero che temi del genere dividono gli animi… e li
surriscalda. Essi palesano pure a quale sistema d’interpretazione si aderisce: a
quello dogmatico (basato sul consenso odierno di gruppo) o a quello
storico-esegetico (basato sul contesto letterario e culturale di quando tali
parole furono pronunciate). Chiaramente, prima di leggere quanto segue, bisogna
leggere lo scritto sopra menzionato, per non capire fischi per fiaschi.
Come già affermato, per motivi sia esegetici che pastorali, io sono in linea di
massima
contro il divorzio, tranne che per i casi, che la Scrittura lo prevede in
modo chiaro. Il problema è che molte persone, che scrivono di queste cose,
affrontano le questioni in modo dogmatico, a priori, secondo il consenso
dottrinale di parte, spesso non conoscendo o trascurando il mondo biblico
reale, la sua storia e la sua cultura, in cui certe cose furono dette e come
esse poi vennero vissute e praticate.
3.2.
DOMANDE E CASI RIPORTATI: Le domande, accluse all’articolo sopra
menzionato, servivano per alimentare la discussione e per aprire la mente a
situazioni concrete, per così evitare facili scorciatoie, sia liberali, sia
massimaliste. Quando uno credenti si separava dall’altro, l’apostolo
affermò che egli non doveva risposarsi, ma o rimanere in tale stato o
riconciliarsi col coniuge abbandonato (1 Cor 7,10s; certo fintantoché ciò era
possibile nella cultura d’allora). Approfondirò tale questione sotto all’ultimo
punto.
I casi da me riportati (sono perlopiù situazioni reali) parlano
dell’azione unilaterale di uno dei due coniugi credenti, il quale
arbitrariamente abbandona l’altro coniuge per i motivi più differenti: ▪ 1.
Scopre di non amare veramente il coniuge; ▪ 2. Si infiamma per un’altra persona;
▪ 3. Abbandona il coniuge per presunta incompatibilità. A ciò si aggiunga il
caso di un neo-credente, che viene abbandonata dal coniuge non-credente, proprio
perché il primo si è convertito a Cristo.
Che si dovranno fare come conduttori di chiesa, i parenti credenti e i cristiani
biblici in tali casi? Le risposte dipenderanno dal fatto se si nutre una visione
del matrimonio di tipo sacramentale (suggerito dal consenso dogmatico
odierno), oppure se il matrimonio è considerato un contratto sociale dinanzi
a Dio e agli uomini (Mal 2,14), come suggeriscono l’analisi esegetica della
Bibbia e la prassi culturale dell’AT e del NT.
Normalmente era la donna a essere mandata via. Ripudiare la moglie nel contesto
sociale d’allora (e in molte parti del mondo oggi), significava abbandonarla
alla miseria e all’indigenza. Ella perdeva ogni sostegno, sicurezza e anche
i figli. La famiglia d’origine spesso non accettava una loro parente ripudiata
dal marito, per non incorrere nel disonore sociale. Il ripudio significava
togliere ogni protezione a tale donna e abbandonarla spesso al disprezzo e
agli abusi di tutti. Si trattava di «una donna abbandonata e afflitta nel suo
spirito, come la sposa della giovinezza, che è stata ripudiata» (Is 54,6).
Chi ripudiava la moglie, era un perfido e fedifrago (Mal 2,14),
paragonabile a un omicida. Il «libello di ripudio» (Dt
24,1.3; cfr. Is 50,1; Gr 3,8 «lettera di divorzio») serviva proprio da
protezione per una donna contro l’arbitrio di un tale marito, attestando la
cessazione di tale rapporto e aprendole la possibilità di contrarre un nuovo
rapporto matrimoniale. Esso le permetteva di «trovare
riposo in casa d’un marito» (cfr. Rt 1,9), come allora si diceva,
quindi protezione, tranquillità e scampo da una sicura vita infelice (cfr. Rt
3,1), se non da una morte certa. Si noti che ai soli sacerdoti era
proibito prendere «una donna ripudiata dal
suo marito» (Lv 21,7; Ez 44,22), quindi non agli
altri Israeliti. Nel caso descritto in Deuteronomio 24,1ss il peccato non
era rappresentato dal fatto che la donna si risposasse sulla base della lettera
di divorzio, che il marito le aveva dato, ma di ritornare a sposarsi col primo
marito, dopo essere stata coniugata con altri (v. 4; abominio).
La vita è da sempre piena di
arbitrio e di tragedie, e Dio nella Legge cercò di porvi un freno con
precetti giusti, i quali non punivano le vittime, ma gli eventuali
carnefici. Oggigiorno, sulla base di un certo consenso dogmatico, che prescinde
dalle situazioni reali descritte dalla Scrittura, vittime e carnefici sono
trattati allo stesso modo (massimalismo), oppure si aprono porte e portoni
all’arbitrio soggettivo (liberalismo). Se non si tengono presenti questi
fattori, si banalizzano le asserzioni della Bibbia, che parlava in situazioni
concrete e molto pesanti dell’esistenza, e si riduce il tutto a sterili diktat
della convenzione dogmatica o liberale, o massimalista.
3.3.
RITORNIAMO A 1 CORINZI 7,10-11: A tale brano
ho già accennato sopra. Si trattava di uno dei diversi casi affrontati
dall’apostolo in questo capitolo. Era un caso di separazione fra credenti,
e cioè di una parte dall’altra (certo può essere anche consensuale, in certi
casi). Ed era a quest’ultima, a cui l’apostolo si rivolgeva, non alla parte
abbandonata. Nelle coppie di credenti la parte, che abbandonava o ripudiava il
coniuge, aveva due sole possibilità legittime: o rimanere senza sposarsi
o riconciliarsi col coniuge. L’apostolo non affrontò la questione, che cosa
dovesse fare la parte lesa; probabilmente ciò era già regolato dal diritto, che
permetteva alla parte ripudiata di ricostruirsi una vita (cfr. Dt 24,1ss) nel
caso, in cui il suo coniuge non aveva nessuna intenzione di riconciliarsi o
addirittura aveva contratto già un altro legame.
Chi non si atteneva al patto
matrimoniale e abbandonava il coniuge, senza giusta causa, era da ritenere al
pari di un incredulo. Quali fossero i sentimenti dell’apostolo in casi
simili, fu mostrato, per altre situazioni, in questo verso: «Che se
uno non provvede ai suoi, e principalmente a quelli di casa sua, ha rinnegato
la fede, ed è peggiore dell’incredulo»
(1 Tm 5,8). Anche oggigiorno ci sono «credenti», che non sono mai diventati
nuove creature, ma sono solo degli aderenti a convinzioni cristiane. Che, quando
la parte incredula si separava dalla parte credente, quest’ultima non era più
sotto il «giogo della schiavitù reciproca», vincolo che il matrimonio
liberamente creava (e crea), ed era, quindi, libera, lo attestò esplicitamente
l’apostolo (1 Cor 7,15); certamente alcuni intenderanno oggi tale libertà come
libertà dal coniuge, ma nel contesto culturale d’allora era anche libertà di
risposarsi (cfr. Dt 24,1ss). Il patto matrimoniale, che nel caso normale
doveva cessare con la morte di uno dei due coniugi (Rm 7,3; 1 Cor 7,39), era
messo fuori uso dall’arbitrio di uno dei due coniugi, che ripudiava o
abbandonava l’altro. Anche la valutazione di quest’ultimo punto dipenderà dal
fatto se si aderisce a un consenso dogmatico di parte o se si analizza il senso
reale di tali parole nel contesto culturale e religioso del cristianesimo
d’allora.
Per l’ulteriore approfondimento si rimanda nella pagina «Etica» alla rubrica «Matrimonio:
Divorzio», dove
ci sono numerosi scritti sul tema.
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Divorzio_nozze_credenti_Avv.htm
22-03-2012; Aggiornamento: |