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4.
I limiti didattici dell’accademismo
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5.
Alcune osservazioni costruttive
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6.
Punti da ponderare |
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4.
I LIMITI DIDATTICI DELL’ACCADEMISMO:
L’accademismo è sinonimo di «scolasticismo». Esso antepone alla libera
creazione la pedante osservanza di canoni e norme, che le accademie hanno
elaborato nelle varie epoche. In campo artistico e letterario si riferisce alle
opere realizzate senza libera iniziativa, seguendo le impostazioni accademiche.
In campo teologico le cose non sono diverse.
Gli insegnanti cultori dell’accademismo rischiano «indottrinare» gli
studenti e di creare dei «cloni» di se stessi (un po’ come fanno i guru e gli
ideologi); perciò in genere non amano il dissenso, la divergenza e il libero
pensiero. A ciò si aggiunga che al primo posto c’è il «piano di studi», il
«curriculum» e i «programmi» da raggiungere assolutamente. Tutto è finalizzato
al raggiungimento del grado accademico.
Al «maestro» invece non interessano primariamente i programmi, ma gli
studenti stessi e la loro crescita personale; a lui non interessa di
indottrinare i suoi studenti (= clonare se stesso in loro), ma di portarli a
maturità. Non vuole creare dei «disabili» dalla testa grande, ma dai piedi
fragili. Non vuole rispondere solo a domande che gli studenti non hanno
(ma suggerite perché richiesto dal programma), ma intende prendersi a cuore
anche le questioni che «bollono» nella loro mente e nella loro esistenza di
giovani in cerca di risposte personali nel loro tempo particolare.
L’accademismo e lo scolasticismo rischiano di trascurare la persona nel suo
complesso e di mettere come priorità livelli da raggiungere, specializzazioni,
sistemi di crediti e gradi accademici. A ciò si aggiunga anche il rischio che
tali «istituti biblici», così facendo, vogliano in fondo accreditare
specialmente se stessi nel panorama accademico.
L’accademismo e lo scolasticismo rischiano, così facendo, di creare soprattutto
degli «idioti specializzati» (ossia esperti in un piccolo campo, p.es. lingue
bibliche), incapaci di affrontare poi i problemi reali della vita e i molteplici
compiti che troveranno. Sullo scoglio della pratica si infrangono spesso i loro
sogni e le loro vocazioni.
Gli «istituti biblici» stanno assomigliando sempre più alle università. Mi ha
colpito quello che ha scritto in rete uno studente di Lettere in una università
italiana: «...il sistema dei crediti mi sembra la raccolta punti delle
merendine, si promuove la mediocrità, la mancanza di spirito, di fantasia, di
indipendenza intellettuale. L’esame è ripetere quel centinaio di pagine di
appunti del professore e i quattro libri assegnati per prendere
il voto
e quindi, dopo che hai totalizzato i punti necessari, il servizio da dodici
detto anche laurea». Egli parla del terrore dello studente prima dell’esame come
se fosse in procinto di farsi operare per una grave malattia; poi segue la
delusione che l’insegnante non gli ha chiesto proprio quelle cose che aveva
studiato. Poi prosegue: «Nessuno o quasi studia per il piacere, l’esigenza di
sapere cose che prima non sapeva. Sto estremizzando, ma sono esempi per dire che
l’università, Lettere soprattutto, dovrebbe promuovere la curiosità, l’amore per
la cultura intesa come strumento di comprensione della realtà e invece educa
solo alla logica del profitto, del riuscire “presto e facilmente”, del “tanto ce
la fanno tutti”». Risparmiamo qui il seguito, aggiungendo che parla però anche
di «un’istituzione di ragazzi senza spirito e senza nerbo e di professori
disperati, o rinchiusi nel loro sterilissimo accademismo»
(http://forum.ilmucchio.it/showthread.php?t=27568&page=3). Non è strano che
alcuni «istituti biblici» si siano proposti il traguardo di assomigliare proprio
alle università?
Ho letto da qualche parte che la scuola italiana è impiccata e bloccata a una
feroce dittatura del più vetusto intellettualismo e accademismo formale ed è in
sostanza una scuola della immobilità e della fissità. Mi sembra che alcuni di
questi aspetti potrebbero anche valere per gli «istituti biblici».
Mi ha colpito l’analisi fatta dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico) sull’argomento, che si potrebbe applicare anche agli
«istituti biblici» con mire accademiche. «Nella maggior parte dei sistemi
educativi, le responsabilità formali sono legate a un quadro normativo piuttosto
che al buon insegnamento o ai buoni risultati conseguiti dagli studenti (…)
L’istruzione dovrebbe instillare valori, risvegliare l’interesse e la curiosità,
sviluppare il gusto e condurre a una certa padronanza, a una certa autonomia
attraverso la pratica della lettura, della scrittura, delle arti, delle attività
manuali. Essa cade, invece, nell’astratto, concentrandosi e nell’accademismo e
nella memorizzazione di fatti, formando giovani che, secondo alcuni criteri,
sanno tutto e sono capaci di ottenere buoni voti agli esami, ma non hanno
imparato a pensare, non hanno acquisito una reale cultura (…) Il rapporto
alunni/insegnanti è eccezionalmente basso (…) eppure nelle scuole che abbiamo
visitato, prevalevano ancora metodi didattici tradizionali» [OCSE, Esami
delle politiche nazionali dell’istruzione. L’Italia (Armando, Roma 1998)].
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5.
ALCUNE OSSERVAZIONI COSTRUTTIVE:
Ho letto una frase di Tavo Burat che mi ha colpito (è esponente storico
dei movimenti di difesa delle minoranze etno-linguistiche); egli ha detto che
«l’accademismo non è necessariamente il criterio di una cultura superiore».
Non voglio certamente creare una scelta esclusivistica fra accademismo e
vocazione sperimentale: in ambedue c’è il rischio dell’unilateralità e
dell’esagerazione. Da una parte troveremo una visione di natura squisitamente
intellettuale, che cercherà la sua giustificazione nelle premesse teoriche.
Dall’altra troveremo una visione eminentemente pragmatica, che cercherà di
giustificarsi con i risultati. Anche qui la soluzione sta probabilmente nel
mezzo e nell’equilibrio di ambedue queste istanze.
Un «istituto biblico» che voglia evitare ogni accademismo, si guarderà dal
trasformare i progetti affidati agli studenti (ma anche quelli degli insegnanti
stessi, specialmente nelle riviste teologiche in cui scrivono) in futili
esercizi teorici o di stile, senza alcun aggancio nella realtà e senza beneficio
per essa. Al contrario si dovrebbe incoraggiare gli studenti a rapportare i loro
studi e le loro ricerche al loro presente; in ciò bisogna avviarli a praticare
una reale indagine del loro tempo, individuando le linee di passione, le
preferenze, le sofferenze e i problemi dei loro contemporanei e incoraggiandoli
ad abbozzare modelli di soluzione. Di ciò gioverebbero anche gli insegnanti e il
relativo «istituto biblico» diverrebbe una «fucina d’idee», una «voce
profetica». Il tempo degli studi diverrebbe un periodo in cui accumulare
competenze ed esperienze (non solo nozioni) e capacità comunicativa di risposte
e soluzioni per il loro ambiente, a cui si è lavorato durante gli studi.
L’insegnante in qualità di «maestro» cercherà di elaborare con gli studenti i
problemi che troveranno sul campo per evitare anche comportamenti nocivi come
spontaneismi e demagogie.
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6.
PUNTI DA PONDERARE
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Mentre gli esperti del settore
mostrano che la pedagogia dell’università soffre di accademismo, perché è
distaccata dalla pratica, gli «istituti biblici» sono tentati di assomigliare a
qualcosa come una facoltà universitaria [Per approfondire la problematica
universitaria si legga p.es.
www.culturaitaliana.it/hm/newatti/oltre_le_tecniche_lo_stile.html].
■ Parafrasando quanto ha detto qualcuno, posso affermare che se anche gli
«istituti biblici» fanno dell’accademismo, se insegnano a vivere la cultura
(religiosa e non) come accademia, allora questo è la rovina anche della cultura.
Infatti, la cultura è anche vivere i fatti reali; e direi che questa era la
prospettiva teologica dei profeti dell’AT, di Gesù, degli apostoli e degli altri
discepoli al tempo del NT.
■ I vecchi (e risaputi) mali della cultura scolastica, da cui devono liberarsi
le scuole italiane e, nel nostro caso, particolarmente gli «istituti biblici»,
sono i seguenti:
● L’accademismo
porta con sé come conseguenza la separazione della teoria dalla pratica.
● L’enciclopedismo
porta con sé come conseguenza il suo corredo di genericità, superficialità e
pressappochismo.
● Il disciplinarismo
porta con sé come conseguenza la separatezza dei saperi e la frammentazione
dell’orario scolastico, che è deleteria per la qualità degli apprendimenti e i
livelli della motivazione e del coinvolgimento.
● Inoltre tutto ciò crea
l’autoreferenzialità e la chiusura al territorio (se non addirittura
alla realtà concreta) e all’innovazione come pratica diffusa [cfr.
www.flcgil.it/content/
download/27263/191929/version/2/file/Convegno+Orvieto+DS_Intervento+Valentino_4-5+
maggio+2006.pdf].
■ Qualcuno ha scritto:
«Uno dei grossi problemi del nostro sistema educativo in genere (sia scolastico
che universitario) è stato l’eccessivo accademismo, cioè la preferenza
dell’aspetto teorico del sapere a scapito delle conoscenze pratiche che il mondo
del lavoro richiede. Una distonia, questa, che ha portato i giovani ad essere
quasi completamente disorientati dopo aver terminato gli studi…»
[www.ragionpolitica.it/testo.1648. cammino_della_riforma_universitaria.html]. È
interessante come questo sia vero anche per gli studenti di «istituti biblici»
in riferimento al rapporto con le loro chiese mandanti e al loro ministero
futuro.
■ I rischi vecchi e nuovi che gli esperti vedono nella pedagogia scolastica sono
ad esempio i seguenti: il verbalismo, lo scolasticismo, che è strettamente
legato al primo, e una certa rigidità metodologica.
● Il verbalismo: È la «tendenza a dare eccessiva importanza alle parole,
alla forma espressiva, a scapito della sostanza e del contenuto». In pedagogia
si intende un «metodo d’insegnamento basato su un’esposizione prevalentemente
verbale e sulla trasmissione meccanica di informazioni, che non promuove la
partecipazione attiva dell’allievo» [www.demauroparavia.it/126698].
● Lo scolasticismo: Si intende qui il «modo di ragionare per sillogismi,
proprio della Scolastica» [www.demauroparavia.it/104013]. «Quando la parola si
stacca totalmente dai suoi riferimenti esperenziali per diventare precocemente
astratta si ha lo scolasticismo che è l’altra faccia del verbalismo. La
dimensione cognitiva assume qui un valore più formale che sostanziale e nello
stesso tempo il sapere appare depurato da ogni rilevanza emotiva ed affettiva»
[http://www.infantiae.org/persi101104.asp].
● La rigidità metodologica: Essa è data dalla staticità metodologica e
dalla pretesa della direzione scolastica che l’insegnante si attenga solamente
alla disciplina e al tema del suo corso. In tal modo l’insegnante non diverrà
mai maestro. A ciò si aggiungano gli atteggiamenti di chiusura verso esperienze
innovative, la rigidità di schemi mentali, l’eccessiva formalizzazione di alcuni
aspetti didattici, le strutture spesso inefficaci e inadeguate per affrontare
nuove esperienze.
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Pericoli e alternative: Nella mia esperienza d’insegnante ho visto spesso
che sono mancate a livello del corpo docente occasioni di riflessione, in cui
ciò che ogni insegnante diceva, veniva preso veramente sul serio. In tali
incontri la direzione scolastica presentava in genere ciò che aveva già deciso.
Intanto le «novità risolutive» di un anno scolastico potevano essere
completamente diverse da quelle dell’anno prima (in pratica nel nuovo anno
scolastico si curavano sempre i mali dell’anno prima). Spesso il dissenso o
l’invito a pensare diversamente era preso come un affronto personale.
Sono convinto che la disponibilità al confronto (direzione - insegnanti -
studenti) e al cambiamento possano favorire la costruzione di una vera comunità
scolastica. Invece di un accademismo e di una rigidità metodologica, si fa bene
a creare una piattaforma di valori essenziali e di visioni condivise, per i
quali impegnarsi come docenti e nei quali coinvolgere gli studenti. È
auspicabile che si concretizzi all’interno dell’«istituto biblico» una «comunità
di apprendimento». In essa gli studenti possono fare la loro parte, condividendo
la responsabilità di controllare e regolare il proprio comportamento. In essa i
docenti possono definire i rapporti tra di loro, sentendosi partecipi di una
«comunità professionale», al cui centro dell’interesse ci siano gli studenti in
quanto persone. All’interno di tale «comunità di apprendimento» il professore
diventa professante e testimone; il docente diventa un «allievo» che sta un po’
più avanti ma che è anch’egli ancora alla ricerca; l’insegnante diventa un
«maestro di vita» che suscita il fermento e le curiosità che egli stesso
possiede, che sa sfuggire a schematismi ideologici e a forme di inquadramento
forti, che è aperto a percorsi alternativi, che sa rinnovare il suo sguardo e la
sua operatività. Allora può svestire i panni del «domatore» per rivestire quelli
dell’«allenatore», per essere così una guida che aiuta lo studente a essere
protagonista consapevole nel suo percorso verso la consapevolezza e la maturità.
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Il verme dell’accademismo? Parliamone {Nicola Martella}
►
Il verme dell’accademismo nelle chiese {Paolo Jugovac}
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Accademismo_verme2_MT_AT.htm
09-02-2007; Aggiornamento: 09-04-2009
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