Il «già qui e non ancora» della teologia
cristiana crea una certa tensione non solo nella fede dei cristiani
biblici, posti fra l'avvento e la parusia di Gesù Cristo, ma anche
nell’interpretazione di alcuni brani quali 2 Pietro 1,3-4. A seconda se si
privilegerà il «già qui» (aspetti attuali della salvezza) o il «non ancora»
(aspetti futuri della salvezza), si arriverà a un’altra conclusione riguardo a
tale brano.
L’attuale articolo di Tonino
Mele cerca di dare una risposta all’articolo, già pubblicato, di
Francesco Grassi: «Natura
divina e incorruttibilità in 2 Pietro 1,3-4».
Chiaramente ambedue gli articoli sono pregevoli, e siamo grati agli autori per
le loro fatiche. Lo studio e il confronto di ambedue gli articoli non possono
che essere un buon esercizio di ermeneutica biblica da parte dei lettori
e un banco di prova delle proprie capacità interpretative. Chiaramente questo è
cibo sodo destinato ai credenti maturi e pieni di discernimento. {Nicola
Martella} |
1.
PREMESSA:
Nell’interpretazione di 2 Pietro 1,3-4 l’esegeta si trova davanti a un’opzione
esegetica di non facile soluzione. Lo dimostra il fatto che la scelta
interpretativa, che ne può derivare, ha portato studiosi di pari levatura a
scegliere l’una o l’altra delle interpretazioni possibili. Francesco Grassi, nel
suo pregevole studio, appena pubblicato sul sito «Fede controcorrente» segue
l’opzione esegetica seguita da I.H. Marshall, il quale afferma:
«Dev’essere ricordato che Pietro sta qui parlando delle promesse divine, e
questo conferma che egli sta pensando a qualcosa che deve essere conferito al
futuro, senza dubbio quando i credenti compariranno davanti a Dio e a Cristo, e
saranno trovati senza macchia e in pace davanti a lui». Questa si può
configurare come un’opzione di tipo escatologico, da collocare nel «non
ancora» della teologia cristiana. Ossia l’espressione «partecipi della natura
divina» (v. 4) non si riferisce al presente del cristiano (p.es. nuova
nascita), ma al suo futuro escatologico (p.es. risurrezione, glorificazione),
con tutte le benedizioni che fruirà con la 2a
venuta di Gesù.
A questa si può contrapporre l’opzione esegetica seguita da Michael Green,
il quale afferma: «Ciò che Pietro sta dicendo qui, pur essendo espresso in una
forma insolita, è lo stesso contenuto dell’affermazione di Paolo in Romani 8,9;
Galati 2,20; di quella di Giovanni, in 1 Giovanni 5,1 e di Pietro stesso in 1
Pietro 1,23. Pietro spiana la strada per Ignazio, il quale alcuni anni più tardi
dirà che i cristiani “sono partecipi di Dio”. Ravvedersi, credere ed essere
battezzati in Cristo significa, così afferma tutto il Nuovo Testamento, entrare
in un rapporto totalmente nuovo con Dio, in cui egli diventa nostro Padre e noi
membri della sua famiglia. In questo senso Pietro afferma giustamente che i
credenti sono già partecipi della natura divina». [M. Green, La
seconda epistola di Pietro e l’epistola di Giuda (GBU, Roma 1997), p. 96.]
La prospettiva, da cui si muove Green, è più storica che escatologica, come
s’evince da queste sue parole: «La divina virtù e la bontà trascendente
manifestate in Gesù [quello storico] costituiscono e insieme convalidano la
chiamata a venire e diventare partecipi della natura divina. Ci viene
promessa una parte della sua eccellenza morale in questa vita, e della sua
gloria per quell’a venire. Infatti, presa nell’insieme, la triplice azione delle
promesse, la potenza e la persona del Signore Gesù rigenerano l’uomo e
lo rendono partecipe della natura stessa di Dio, così che la somiglianza
di famiglia comincia a vedersi in lui». [Ibid., p. 94.] Questa dunque si
può configurare come un’opzione di tipo storico, da collocare nel «qui e
ora» della teologia cristiana. Ossia l’espressione «partecipi della natura
divina» (v. 4) non si riferisce al futuro escatologico del cristiano (es.
risurrezione, glorificazione), ma già al suo presente (p.es. nuova nascita), con
tutte le benedizioni che può già fruire a seguito della 1a venuta di
Gesù.
Insomma, sulla scia di questi due epigoni dell’ermeneutica biblica, possiamo
dunque
formulare la questione esegetica di questo brano nei seguenti termini:
l’autore (cioè Pietro) ha qui in mente la 1a o la 2a
venuta di Gesù? La chiave di lettura è storica o escatologica? Di seguito
tenteremo di mettere a confronto queste due prospettive cercando di capire
quella che è più cogente col testo e che calza meglio col suo contesto.
2. LA
PROSPETTIVA ESCATOLOGICA:
Lo studio di Francesco Grassi ha indubbiamente il merito d’essere ben
documentato e ben presentato e ci dà i contorni di quella che comunque possiamo
definire una delle opzioni esegetiche possibili di questo testo. Interessante la
parte dedicata al «giudaismo ellenista», anche se non è molto chiaro in che modo
e in che misura questo sia determinante per la corretta interpretazione di 2
Pietro 1,3-4. Infatti, subito dopo, l’autore continua a considerare «questioni
aperte» quelle inerenti il significato dell’espressione «partecipi della
natura divina» e il «quando», a cui essa si riferisce. Ed è da questo
momento in poi che produce le sue argomentazioni in merito alla sua tesi. Come
detto, egli segue la tesi di I.H. Marshall, la quale fa leva soprattutto
sulla connotazione «futuristica» del termine «promesse», presente nel
testo (v. 4) e dalla quale si fa dipendere il senso dell’espressione «diventaste
partecipi della natura divina». Quindi, la tesi è che il termine «promesse»
indica «qualcosa di futuro» e così anche l’espressione «partecipi della
natura divina». E questa tesi viene suffragata dalle seguenti
argomentazioni principali: ▪ 1. la prospettiva escatologica della lettera,
desunta dal capitolo 3; ▪ 2. la natura temporale «indefinita» del verbo aoristo
«diventaste» (v. 4), desunta «seguendo il contesto». Facciamo di seguito
un’analisi di questa tesi e delle sue argomentazioni.
La tesi
principale del Marshall, secondo cui il termine «promesse» dovrebbe
indicare qui «qualcosa di futuro», non è un argomento definitivo. Nel Nuovo
Testamento infatti, questo termine non è legato solo all’aspettativa di qualcosa
di futuro, ma anche, per non dire soprattutto al compimento presente di qualcosa
che è stato promesso. Basta guardare come Paolo usa il termine «promessa» in
Galati e in Romani per capire il valore attuale che hanno le promesse di Dio.
Persino Pietro parla d’adempimento presente della «promessa» (At 2,39).
Praticare dunque questa strada per definire un contesto non è sufficiente,
perché non è un’argomentazione di per sé stessa conclusiva e determinante. Non è
neppure corretto usare questa tesi per definire un contesto. Dovrebbe
essere il contesto a determinare se il termine «promesse» indica qualcosa
d’attuale o di futuro. Qui valgono le domande: Cosa deve dimostrare cosa? Il
termine «promesse» determina il contesto dove esso compare, o viceversa?.
Personalmente mi pare che l’autore dell’articolo cada nell’errore di proiettare
sul capitolo 1 il significato che il termine «promessa» ha nel capitolo
3. Tuttavia, se è vero che l’esegesi deve rifarsi soprattutto a come un autore
usa un determinato termine, bisogna anche tener presente come lo stesso
autore usa lo stesso termine in contesti
differenti. Anzitutto si deve rilevare che nel cap. 3 Pietro usa
esclusivamente il singolare «promessa» e l’intento è apologetico contro
chi denigra l’adempimento d’una promessa precisa, quella della seconda «venuta»
di Gesù (v. 4). Nel capitolo 1 invece usa il plurale «promesse» e
l’intento è più generale del cap. 3, in quanto mira a ricordare la «preziosa»
eredità che Gesù ci ha lasciato con la sua prima «venuta» (cfr. v. 16).
Qui, l’accenno alle promesse dovrebbe riguardare il loro adempimento presente,
«qui e ora», in quanto premessa per la vita cristiana. Approfondiremo però in
seguito questo punto.
Con la
prima argomentazione si fa una scelta preconcetta riguardo a quella che
dovrebbe essere la prospettiva dell’apostolo in ogni singola parte della
lettera. Eppure, come anche riconosce l’autore dell’articolo, la parte
prettamente escatologica è data dal «capitolo 3» in poi, ed è tutto da
dimostrare che già nel capitolo 1 si sia entrati in quella prospettiva. Come
avremo modo di dimostrare, a noi non pare proprio. Il capitolo 1 si sofferma su
una prospettiva storica che fa capo alla 1a venuta di Gesù e alla
portata storica, ma anche escatologica di tale evento. Smembrare i versi 3 e 4
del nostro testo, dicendo che il v. 3 attiene alla «rigenerazione» del credente
(al «qui e ora») e il v. 4 attiene alla «glorificazione» del cristiano (al «non
ancora»), significa non aver afferrato il punto centrale di questo testo.
Con la
seconda argomentazione si vuol «neutralizzare» il valore temporale
dell’aoristo «diventaste». Ora, però, lo si fa in un modo strano; infatti
si afferma: «L’aoristo deve essere quindi tradotto e interpretato seguendo il
contesto che nella costruzione presente indica più chiaramente qualcosa di
futuro». Dire questo, significa dare valore probatorio a un contesto che è
esso stesso al centro della discussione, il cui valore temporale è ancora da
definire, o lo si è definito sul semplice assunto (da dimostrare) che «promesse»
indichi necessariamente «qualcosa di futuro». Insomma, cosa deve dimostrare
cosa? L’aoristo o il contesto dove comparare? Noi crediamo che il contesto sia
sempre determinante e mostreremo che proprio il contesto del capitolo 1 segue
più una prospettiva storica che escatologica. L’aoristo «diventaste» (2a
pl. med. aor. cong.) dovrebbe dunque riferirsi alla vita attuale del cristiano
più che a quella futura o forse a entrambi, perché qui non è determinante il
nostro passato, il nostro presente o il nostro futuro, ma l’evento storico della
1a
venuta di Gesù, il cui influsso abbraccia il nostro presente e il nostro futuro.
Non ci rimane che dare corpo alla pista esegetica, più volte annunciata, secondo
cui non c’è qui una «tensione» tra storia ed escatologia, tra il «qui e ora» e
il «non ancora», ma il testo è tutto incentrato sull’evento storico della 1a
venuta di Gesù e sulle benedizioni, che da ciò derivano per la vita attuale del
cristiano.
3. LA
PROSPETTIVA STORICA:
Anche se, secondo l’evidenza propria del «capitolo 3», Pietro segue lì una
prospettiva escatologica, non è pacifico dire che egli segua tale prospettiva in
tutta la lettera. Infatti, il capitolo 1, che è poi quello che c’interessa più
da vicino, si sofferma soprattutto su una prospettiva storica. E questo è
un dato di fatto che può essere facilmente appurato. Si noti infatti che il
termine ricorrente in questo 1° capitolo è «conoscenza» (vv.
2.3.5.6.8.12.16), ed è questo termine che ci aiuta a strutturare l’intero
capitolo. Si potrebbe dire addirittura anche che l’intera lettera s’apre e si
chiude, parlando della «conoscenza di Gesù» (cfr. 1,2 e 3,18), ma
lasciamo stare per ora questa osservazione e concentriamoci sul 1° capitolo, che
è quello che c’interessa. Già nei saluti iniziali si parla della «conoscenza
di Dio e di Gesù» (v. 2), e sono questi saluti che spesso danno il «tono» a
un’epistola, tanto più al brano immediatamente successivo.
E con questa chiave di lettura possiamo strutturare il capitolo 1 come
segue:
■ I vv. 3-4 ci parlano della portata di questa conoscenza, la quale è
stata lo strumento, «mediante» il quale «la sua potenza divina ci ha
donato tutto ciò che riguarda la vita e la pietà».
■ I vv. 5-15 ci parlano dell’importanza di questa conoscenza per il
nostro progresso spirituale, il che dovrebbe stimolare il nostro «impegno»
(v. 5) e l’impegno di chi ci ammaestra (v. 15).
■ I vv. 16-18 ci parlano dell’attendibilità di questa conoscenza, la
quale non deriva da «favole abilmente inventate» (v. 16), ma dalla
«testimonianza oculare» di chi ha visto la «maestà» del Gesù storico e da
chi ha «udita» la «voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui
sul monte santo» (v. 18).
Quest’ultima
sezione chiarisce molto bene il tipo di «conoscenza» che Pietro ha in mente in
tutto questo capitolo e verosimilmente in tutta la lettera. Non certo quella
gnostica, ma una conoscenza di Gesù Cristo fortemente radicata nella storia
dell’uomo «Gesù» (cfr. il semplice «Gesù» del v. 2) e nei fatti
storici, di cui gli apostoli sono stati testimoni oculari e auricolari. È
riduttivo dunque dire che il v. 3 riguarda «la chiamata» e «la rigenerazione»,
del cristiano. Non è questo il punto centrale del verso e se non si coglie
questo, si rischia poi di falsare tutto il resto. Questo è, infatti, un
riferimento alla «conoscenza» del Gesù storico, il quale «ci ha
chiamati
con la propria gloria e virtù». Ed è «attraverso queste» (v. 4),
cioè attraverso la «gloria e virtù» del Gesù storico che «ci sono
state elargite le sue preziose e grandissime promesse». La prospettiva qui,
non è escatologica, ma storica, ed è questa prospettiva che chiarisce la natura
temporale del termine «promesse». È dunque più cogente desumere la natura
temporale del nostro testo dalla prospettiva storica di questo primo capitolo e
del v. 3, piuttosto che dalla prospettiva escatologica del «capitolo 3».
Un interessante indizio che conferma la prospettiva storica del 1° capitolo lo
si può ravvisare proprio nei saluti iniziali. Qui troviamo infatti l’insolita
affermazione di Pietro, il quale, parlando a nome del collegio apostolico, dice
ai suoi lettori che «hanno ottenuto una fede preziosa
quanto la nostra» (v. 1). Non si può non vedere qui un riferimento al
«privilegio» apostolico d’essere stati testimoni oculari della «maestà»
di Gesù (1,16). Questo è l’elemento che «distingueva» la fede di Pietro e degli
altri apostoli da quella dei suoi lettori cristiani. E forse c’era chi rimarcava
questa distinzione, per accreditare un tipo di conoscenza, «preziosa quanto»
quella apostolica, ma di tipo gnostico e iniziatico. Ed è per questo che,
verosimilmente Pietro rassicura i suoi lettori, affermando che «hanno
ottenuto una fede preziosa quanto la nostra». Cioè, una «fede preziosa»
c’è l’avevano già ed era la stessa che gli apostoli avevano avuto il privilegio
di vedere e udire con occhi e orecchie materiali. Se così stavano le cose,
allora si capisce meglio l’enfasi che tutta la lettera pone sulla «conoscenza
di Gesù». È come se Pietro volesse opporre al «Cristo mistico» degli
gnostici il «Cristo storico» e alla gnosis del Cristo gnostico, la
conoscenza di quel Cristo storico che «vi abbiamo fatto conoscere»
(1,16).
Ed è anche possibile che questa «distinzione-equiparazione» tra la «fede»
dei suoi lettori e «la nostra» (cioè quell’apostolica) si rifletta
proprio nel testo che stiamo esaminando, dove incontriamo anzitutto la 1a
persona plurale («ci ha donato... ci ha chiamati...
ci sono state elargite»; v. 3-4a) e poi incontriamo la 2a
persona plurale («perché... voi diventaste partecipi»; v. 4b). Che
la cosa non sia casuale, lo mostra il resto del paragrafo (vv. 5-11), dove
Pietro continua a usare il «voi» e mai il «noi» (eccetto il «nostro
Signore Gesù» del v. 8, che non fa testo). Se quest’analisi è corretta
allora potrebbe darsi che «la conoscenza di colui che ci ha chiamati» (v.
3) riguardi esclusivamente gli apostoli, la loro conoscenza oculare del Gesù
storico e la loro chiamata apostolica. Ne conseguirebbe che «le sue preziose
e grandissime promesse» (v. 4) sono state elargite anzitutto a loro, ma non
per un possesso esclusivo, quanto perché (o affinché) «voi
diventaste partecipi della natura divina» (v. 4). Il «privilegio» apostolico
è strettamente connesso alla responsabilità apostolica, e questa fa sì che il
«privilegio», lungi dall’essere esclusivo, renda altri «partecipi» di
quella conoscenza, cerchi cioè altri «partecipanti».
Ed è probabilmente questa la «ragione» per la quale l’apostolo chiede ai
lettori dell’epistola di crescere ora, «mettendoci da parte vostra
ogni impegno» (v. 5; cfr. «aggiungete»), nella «fede» e nella
«conoscenza del nostro Signore Gesù Cristo» (v. 8). Essi sono stati resi
«partecipi» di quella stessa conoscenza, di cui gli apostoli sono stati
testimoni oculari. Però questo non basta. Ora ci vuole anche il loro impegno e
che facciano la «loro parte», altrimenti si rischia d’essere «pigri e sterili»
in questa «conoscenza» (v. 8). Da tutto ciò s’evince che il discorso di
Pietro è molto incentrato sul «qui e ora», che la vera dicotomia dei vv. 3 e 4
non è tra rigenerazione e glorificazione del credente, ma tra il «noi»
apostolico e il «voi», tra la conoscenza oculare e storica di Gesù e
quell’attuale della fede. S’evince che «partecipi della natura divina» è
sinonimo di «conoscenza» (nel senso biblico) di Gesù Cristo e che «partecipi»
è la continuazione attuale e generale della partecipazione storica e
privilegiata alla conoscenza di Gesù propria degli apostoli, nonché premessa
della vita cristiana e non già il suo punto d’arrivo.
Cogliere questo punto arricchisce considerevolmente la nostra comprensione di
tutto il brano e di tutta l’epistola, dando un senso migliore a molti passaggi.
4.
CONCLUSIONE: Insomma, in quanto
detto finora troviamo la conferma della regola magna dell’esegesi: «il
contesto regna». Tutte le regole esegetiche ed ermeneutiche sono subordinate
a questa regola massima. Il senso letterario, grammaticale e teologico delle
parole, trovano la loro collocazione precisa nell’esegesi d’un brano, solo se
s’entra in perfetta simbiosi col contesto, in cui esse compaiono. Talvolta, lo
stesso autore usa le stesse parole con significati diversi nello stesso suo
scritto, ed è il contesto immediato che ci aiuta a valutare il senso di ciò che
vuol dire. Insomma, i confini della «versettologia indebita» sono
talvolta ben più ristretti di ciò che s’immagina. Si può fare «versettologia»
con le parole dello stesso autore. E l’antidoto è dato proprio, lo ripeto,
dall’entrare in simbiosi col testo e col suo contesto immediato, cogliendone le
enfasi oltre che il linguaggio.
Per cui, se il contesto del nostro brano si muove in una prospettiva storica,
allora «promesse» non significa aspettativa di qualcosa di
futuro, ma adempimento di qualcosa che è stato promesso, forse nel
passato o l’adempimento anticipato (caparra) di qualcosa che si realizzerà
appieno nel futuro (cfr. l’approdo escatologico del discorso nel v. 11). La sua
connotazione non è più escatologica, o semplicemente escatologica, ma anzitutto
storica e questo pare essere il senso del brano. Con la 1a
venuta di Gesù e con la conoscenza della sua «gloria e virtù» ci è stata
data la possibilità di realizzare le «sue preziose e grandissime
promesse», le quali ci consentono di realizzare una vita nuova che è
«partecipe della natura divina». È la 1a venuta di Gesù il centro
propulsore di questa realizzazione, il cui adempimento s’estende alla sua 2a
venuta, laddove il tutto sarà più completo e perfetto. L’intento di Pietro è
però per l’oggi più che per il futuro ed è un deciso sprone rivolto ai cristiani
del suo tempo a realizzare la stessa «conoscenza del nostro Signore e
Salvatore Gesù Cristo» (3,18), di cui loro (gli apostoli) sono stati «testimoni
oculari».
E questo è un messaggio che vale «sino alla fine dell’età presente» (Mt
28,20), quindi anche per il nostro «qui e ora».
►
Natura divina fra caparra e adempimento finale {Nicola Martella} (T)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/A2-2Pt1-3s_stor_escat_UnV.htm
22-03-2010; Aggiornamento: 28-03-2010 |