Questo articolo
prende posizione riguardo al seguente scritto di Fernando De Angelis: «Gesù
fra continuità divina e discontinuità storica», che si trova
nella sezione «Proiezioni Culturali», da lui gestita. Egli, pur conscio della
distanza delle convinzioni su alcuni temi particolari, ha accettato questo
confronto delle idee, convinto che esso aiuterà nella maturazione reciproca.
Certamente ci sono varie cose nello scritto del mio interlocutore che, se prese
a sé, sono apprezzabili e condivisibili. Il problema è la sovrastruttura
generale in cui esse sono inserite e l’obiettivo perseguito. Consiglio di
leggere prima l'articolo di Fernando De Angelis e poi questo mio articolo. |
1.
IMPOSTIAMO LA QUESTIONE
Retroproiezione
indebita di «Gesù Cristo»
Riguardo a Gesù succede che, in nome della continuità assoluta, si passa sopra
al «mistero» nascosto nelle passate generazioni. Lo si vuole vedere
attivo e presente proprio come «Gesù» e «Cristo» e in prima persona fin dalla
Genesi, come soggetto autonomamente e storicamente riconoscibile di là da Jahwè.
In questo approccio ideologico alla Scrittura si tende a mettere «Gesù Cristo»
dappertutto nell’AT, identificandolo ora con questi, ora con quegli. Uno dei
metodi indebiti usati è l’allegoria, l’altro la retroproiezione. Se si vuole
essere onesti verso la Scrittura, bisogna ammettere però che l’AT custodisce un
grande «mistero», che non è rivelato se non nel nuovo patto.
«Gesù Cristo» non è una designazione fuori del tempo, ma «Gesù» è un nome
concreto dato al «Logos» diventato carne, dopo la sua nascita (Mt 1,21.25; Lc
1,31; 2,21); mentre «Cristo» o «Messia» è un titolo storico che intende «unto a
re», ossia d’Israele. Nell’AT del fatto che il Messia sarebbe stato il «Logos
fatto carne», non è rivelato nulla; tale «mistero» è stato rivelato nel nuovo
patto (Gv 1,1.14; Fil 2,5ss). Come detto, nell’AT non è riconoscibile un «Gesù
quale Cristo» storicamente attivo e autonomamente riconoscibile rispetto a
Jahwè. Egli era un «mistero» presente in Dio e in lui operante. Ciò che l’AT
annunciava del Messia erano aspetti storici e teologici legati al patto che Dio
elargì a Davide e che riguardavano la sua regalità su Israele. Addirittura gli
aspetti legati alla passione e alla morte del Messia furono così codificati
e nascosti da Dio nell’AT che non furono riconoscibili durante l’antico patto e
neppure ai contemporanei di Gesù (discepoli compresi), non furono evidenti
neppure dopo che tali eventi erano avvenuti (cfr. i discepoli di Emmaus), ma
solo dopo che Gesù diede loro il «codice d’accesso» a tale «mistero»,
manifestandosi come risorto ai suoi discepoli (i dubbi non mancarono neppure
allora) e aprendo loro la mente per capire tale «mistero».
La questione del
«mistero»
Un «mistero», per essere tale, è ciò che prima non c’era (Ef 5,32 unione fra
Cristo e chiesa), era sconosciuto (Gb 9,9; Ap 1,20; 17,5ss), non si era ancora
compiuto (Ap 10,7 mistero di Dio), non si comprendeva (Sal 78,2) o solo alcuni
lo potevano comprendere (Mt 13,11) e spiegarlo agli altri (1 Cor 15,51
risurrezione dei viventi; cfr. 2 Ts 2,7ss empietà). La «fede» neotestamentaria
è, ad esempio, un mistero da conservare in pura coscienza (1 Tm 3,9; cfr. v.
16), per poterlo adeguatamente gestire.
■ Il
mistero principale, che è stato poi rivelato, riguardava l’oggetto stesso
della devozione del nuovo patto: «Colui che
fu manifestato in carne, fu giustificato in spirito, apparve ad angeli, fu
predicato a nazioni, fu creduto nel mondo, fu elevato in gloria» (1
Tm 3,16).
■ Un mistero particolare era quello che riguarda l’indurimento parziale in
Israele e l’entrata nel nuovo patto dei Gentili (Rm 11,25), e cioè a
pieno titolo. Infatti il «mistero di Cristo» consisteva nel fatto «che i
Gentili sono
eredi con noi,
membra con noi d’un medesimo corpo
e con noi partecipi della promessa
fatta in Cristo Gesù mediante l’Evangelo» (Ef 3,5s). Stando così le cose,
questa era una discontinuità rispetto al passato e, quindi, una rivoluzionaria
novità (cfr. At 15).
■ La «rivelazione del mistero che fu
tenuto occulto fin dai tempi più remoti» riguardava particolarmente
la «predicazione di Gesù Cristo», ossia l’Evangelo, e in
particolare il fatto che tale mistero «ora manifestato» è «fatto
conoscere a tutte le nazioni per addurle all’ubbidienza della fede». Stando
così le cose non si può dire che questa era la realtà già nell’AT, prima del
patto mosaico o durante il tempo della Legge.
■ Riguardo a quello che è «misterioso e occulto», bisogna fare le distinzioni
necessarie
fra ciò che Dio aveva stabilito nel suo consiglio avanti i secoli (1 Cor 2,7s) e
ciò che ha poi rivelato e fatto comprendere effettivamente (v. 10). Infatti solo
ciò che è pienamente rivelato e compreso, smette di essere «misterioso e
occulto». I dodici apostoli e Paolo (Ef 3,3ss), avendo ricevuta una diretta
rivelazione, divennero «amministratori dei misteri di Dio» (1 Cor 4,1).
Perciò Paolo affermò: «Egli ha fatto sovrabbondare [la grazia] sopra di noi
in ogni sapienza e intelligenza. 9Egli ci ha fatto
conoscere il mistero della sua
volontà, secondo la sua benevolenza, che Egli si è
prefissata in se stesso, 10per
l’economia dell’adempimento dei tempi:
di ricapitolare tutto nel Cristo, ciò che è nei cieli e ciò che è sopra la terra
— in lui» (Ef 1,8ss così in greco). Quindi, sebbene il proposito di Dio
fosse stato da lui prefissato anzitempo (cfr. anche v. 11), esso rimase un
mistero fino alla rivelazione e comprensione e riguardava la «pienezza dei
tempi»; c’erano quindi un prima e un dopo e le diverse fasi della storia.
■ Quindi il «mistero di Cristo» seguì una dinamica temporale specifica:
era stato potuto far conoscere (Ef 3,3), solo dopo averlo compreso (v. 4) in
seguito alla rivelazione «data ai santi apostoli e profeti di Lui»
mediante lo Spirito Santo (= NT), cosa che non era così evidente ai figli degli
uomini nelle altre età (v. 5). Il «Creatore di tutte le cose» aveva sì un
piano da manifestare a suo tempo ed egli aveva sì un «proponimento eterno che
Egli ha mandato a effetto nel nostro Signore, Cristo Gesù», ma tutto ciò era
stato tenuto «nascosto in Dio fin dalle più remote età», perche la «infinitamente
varia sapienza di Dio» fosse finalmente «data a conoscere ai principati e
alle potestà, nei luoghi celesti, per mezzo della Chiesa» a tempo debito
(vv. 9ss). Riguardo al «mistero di Cristo» c’era quindi un prima (segreto ben
celato), un culmine (realizzazione storica in Gesù) e un poi (rivelazione e
proclamazione del mistero). Solo alla fine del processo si poté «parlare
apertamente per far conoscere con franchezza il mistero dell’Evangelo» (Ef
6,19s).
■ Anche negli altri scritti Paolo affermò continuamente tale dinamica
cronologica: egli aveva ricevuto l’incarico specifico di annunciatore di
tale mistero rivelato (Col 1,25; 4,3s), ribadendo sempre che questo mistero «è
stato occulto da tutti i secoli e da tutte le generazioni, ma che ora è stato
manifestato ai santi di lui» e che esso consiste particolarmente nel «far
conoscere quale sia la ricchezza della gloria di questo mistero fra i Gentili,
che è Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,25-28). Il fine è di «giungere
alla completa conoscenza del mistero di Dio: cioè di Cristo, nel quale tutti i
tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti» (Col 2,2s).
Il prima e il
poi della storia, del Logos e della fede
■ Per fare un esempio, Fernando sostiene la sua tesi radicale basandola su
Ebrei 13,8, non tenendo presente le diverse possibilità della grammatica
greca e l’intenzione dell’autore. Per ragione di grammatica e di logica proprio
questo brano dev’essere tradotto correttamente così: «Gesù è lo stesso Cristo
ieri, oggi, e in perpetuo». Come ho ricordato sopra, Gesù è il nome che il
«Logos incarnato» (Gv 1,1ss.14) ottenne dalla nascita in poi (Mt 1,21.25; Lc
1,31; 2,21). Abbiamo pure ribadito che «Cristo» o «Messia» è il titolo storico
che intendeva «l’unto a re», ossia d’Israele. Perché Gesù fosse il Messia-Re,
ciò doveva essere annunciato (Lc 1,32s), egli doveva essere incaricato da Dio
nella storia (Mt 3,17; 17,5; cfr. Sal 89,26ss; 2,7), riconosciuto da singole
persone (Gv 1,49; 11,27; Mc 8,29) e acclamato dal popolo (Gv 12,12ss), sebbene i
capi lo rifiutarono (Gv 8,24; 10,24) e lo condannarono proprio per aver
affermato d’essere il Messia-Re promesso (Mc 14,61ss).
Stando così le cose, Gesù poteva essere «lo stesso Cristo» solo dalla sua
instaurazione in tale funzione in poi, ossia dal suo battesimo in poi, che fu
una specie di unzione in tale ministero pubblico; addirittura Pietro asserì che
fu la risurrezione e l’intronizzazione in cielo l’investimento definitivo a
«Signore e Cristo» da parte di Dio (At 2,32-36). Perciò «ieri» era per l’autore
il vicino passato, durante la vita di Gesù in terra (Eb 5,7ss «giorni della
sua carne»); «oggi» era l’attualità, in cui Gesù era presso il Padre dopo
l’ascensione e in cui ci si poteva decidere e cambiare (Eb 3,7.13.15; 4,7); «in
perpetuo» si riferisce al futuro dai giorni dell’autore in poi (Eb 6,20;
7,24 sommo sacerdozio).
■ Che cosa era o faceva il «Figlio di Dio» (anch’esso un concetto storico legato
al patto davidico) prima del’incarnazione? Abbiamo parlato sopra del
«mistero», che bisogna lasciare tale. Egli era il «Logos», «Dio presso Dio»,
creatore di tutte le cose e sostenitore della creazione. Come abbiamo visto, il
futuro Messia nell’AT non compare in modo disgiunto e autonomo rispetto a Jahwè.
Fu l’incarnazione a portare il mutamento rivoluzionario, rivelando Dio come
«Padre celeste» e il «Logos incarnato» come «Figlio dell’Altissimo (o di Dio)» e
«Figlio di Davide» (Lc 1,32.32; Mt 1,1; Rm 1,4).
2. APPROFONDIAMO LA QUESTIONE: Oltre a
quanto già detto, qui analizzo dappresso quanto affermato dal mio interlocutore.
La nascita di Gesù rappresenta una continuità quanto alle promesse fatte
da Dio nell’AT e ai loro adempimenti e rappresenta altresì una discontinuità
nella storia, in Israele, nella storia della salvezza e nei rapporti all’interno
della Deità. La nascita di Gesù introdusse vari mutamenti che non lasciarono più
le cose come prima e non permisero più un ritorno a condizioni passate, né nella
storia del mondo, né nell’esistenza del Logos stesso, né nei rapporti fra Padre
e Figlio (concetti dovuti all’incarnazione). Dopo il tempo della tutela sotto la
Legge, «Dio mandò il suo Figlio» nel mondo, ma non come una
manifestazione temporanea (o teofania), ma facendolo nascere da una donna,
ancora durante il periodo della legge; la nascita di Gesù avvenne nella
«pienezza dei tempi» (Gal 4,1-4). È evidente che Gesù non aveva una continuità
personale sulla terra, se non quella d’essere figlio di Abramo e figlio
di Davide (Mt 1,1), essendo nato in modo individuale e irripetibile (Mt 1,21.25;
Lc 1,31; 2,7), come avvenne anche per Giovanni Battista (Lc 1,13.57). Sennonché
la differenza fra Gesù e Giovanni era data dal fatto che quest’ultimo non
esisteva prima in modo personale, se non nella linea di sangue dei suoi avi;
mentre Gesù, prima di essere fatto carne (Gv 1,14), esisteva personalmente come
Logos, «Dio presso Dio», Creatore e sostenitore d’ogni cosa (vv. 1ss). Tale
continuità però non era evidente nell’AT, essendo stato un «mistero» gelosamente
celato in Dio e rivelato solo gradualmente all’interno del nuovo patto (Fil
2,5-11).
Con l’incarnazione e la nascita, Gesù crebbe come tutti gli esseri umani nel
corpo e nella mente (Lc 2,52) e, come tutti gli esseri umani, veniva tutelato
dai suoi genitori (v. 51). Il rapporto fra ciò che era da sempre come
Logos e ciò che divenne per sempre come Gesù, è un mistero. Tale
rimane anche il rapporto a noi oscuro tra un essere umano in sviluppo e la sua
consapevolezza di Logos, tra il Creatore d’ogni cosa e la Creatura, quale era
diventato (Fil 2,7s). Sta di fatto che heautòn ekénōsen , tradotto con
«annichilì se stesso», significa «svuotò se stesso» o «spogliò se stesso» di
qualcosa, cosa che stava in contrasto con l’arraffare (v. 6 harpagmós
«rapina», ossia una cosa che avidamente si agguanta e si tiene ferma).
Probabilmente ciò era inteso nel senso di rinunciare all’esercizio di propri
diritti e facoltà divini per rendersi sottomesso al Padre, umano e perciò
mortale, in vista dell’opera di riscatto, e aspettando che Dio nella storia lo
innalzasse in modo così formidabile e gli desse un significato universale senza
precedenti (Fil 2,9ss). Che tale gloria del Logos fosse come «ibernata», ma non
eliminata, in Gesù di Nazaret, è mostrato dall’episodio della trasfigurazione
(Mt 17,2). È un caso unico e isolato, che aveva lo scopo di mostrare il fatto
che Gesù non fece normalmente uso della «gloria latente» in lui. Per questo Gesù
chiese al Padre, nell’ora più oscura della sua vita: «Io ti ho
glorificato sulla terra, avendo
compiuto l’opera che tu m’hai data
a fare. Ed ora, o Padre, glorificami
tu presso te stesso della gloria che
avevo presso di te avanti che il mondo fosse» (Gv 17,4s).
Bisogna stare attenti a non ridurre però l’incarnazione a un’idea gnostica,
come se fosse stata solo una manifestazione momentanea (teofania, cristofania) o
apparente e che come tale non aveva mutato nulla di veramente sostanziale, ma
solo la forma.
Gli gnostici, contro cui gli apostoli combatterono, ridussero l’incarnazione a
una maschera, a un’apparenza, tanto che addirittura negavano che il Figlio di
Dio fosse veramente venuto in carne (1 Gv 4,2), ma affermavano che si fosse solo
incorporato nel corpo di Gesù, per poi abbandonarlo appena prima della
crocifissione. Giovanni definì tale concezione un’ideologia eretica e seduttrice
che manifestava lo «spirito dell’anticristo» (v. 3; 2 Gv 1,7).
Come Gesù stesso testimoniò, le cose che egli sapeva e faceva, durante il corso
del suo ministero, erano quelle che Dio gli diceva e gli mostrava (Gv
5,19ss; 8,28s.38; 12,50), e in ciò aveva un gran ruolo lo Spirito Santo (Mt
3,16; 4,1; Lc 4,14; 10,21). L’unione spirituale col Padre gli poteva far dire: «Io
sono nel Padre e che il Padre è in me»; e anche: «Le parole che io vi
dico, non le dico di mio; ma il Padre che dimora in me, fa le opere sue» (Gv
14,10s).
Era il Padre che gli rivelava quella consapevolezza di esistere fin da
prima di Abramo (Gv 8,58)
e prima che il mondo fosse (Gv 17,5.24). Fin da bambino dovette però crescere «in
sapienza e in statura, e in grazia dinanzi a Dio e agli uomini» (Lc 2,52),
come tutti gli umani. Come aiuto perché Gesù sviluppasse la sua consapevolezza
d’essere il Messia-Re, il Padre gli diede anche la testimonianza pubblica
durante il battesimo (Mt 3,17) e durante la trasfigurazione (Mt 17,5). Come
detto, però, il Padre gli rivelava tale consapevolezza mediante lo Spirito
Santo.
L’incarnazione fu un cambiamento epocale e sostanziale per il Logos
creatore, che divenne anche creatura; lo fu anche nel rapporto verso Dio, che
ora era suo Padre (lo stesso dicasi del Padre nel rapporto verso il Logos, che
ora era suo Figlio), e nel rapporto verso il mondo e l’esistenza (ora era
soggetto alle leggi naturali e ai loro limiti, allo spazio, al tempo,
all’invecchiamento, al bisogno di nutrirsi e dissetarsi, alla fatica, ecc.).
C’erano cose che Gesù non sapeva durante la sua vita terrena? La risposta
è sì, visto che Gesù dipendeva da ciò che il Padre gli diceva. Nel suo messaggio
escatologico affermò: «Quant’è a quel giorno e a quell’ora nessuno li sa,
neppure gli angeli dei cieli, neppure il
Figlio, ma il Padre solo»
(Mt 24,36). Anche subito dopo la risurrezione, quindi prima di salire al Padre,
disse ai suoi discepoli: «Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che
il Padre ha riservato alla sua
propria autorità» (At 1,7).
Quanto a
Colossesi 1,13-20, il brano distingue benissimo un prima e un poi. Paolo,
dopo aver parlato riguardo a Colui, che poi è divenuto Cristo nella storia, del
suo valore prima della creazione e del fatto che ogni cosa fu fatta per mezzo di
lui (vv. 16s) e del suo significato attuale di modello (v. 15), mostrò il
significato storico basato sulla sua opera terrena, essendo diventato capo della
chiesa e il principio o primogenito (= eccellente in una categoria) dai morti,
ossia il primo esemplare dell’umanità risuscitata (v. 18). La pienezza e la
riconciliazione furono connessi strettamente alla sua opera di riscatto sulla
croce (vv. 19s). Anche qui Paolo parlò del «mistero, che è stato occulto da
tutti i secoli e da tutte le generazioni, ma che ora è stato manifestato ai
santi di lui» (v. 26). È quindi lo stesso discorso di Gv 1 e di Fil 2.
Quanto a 1 Corinzi 10,4, bisogna stare attenti a non confondere le
applicazioni spirituali (cfr. «cibo spirituale», «bevanda spirituale») con la
realtà delle cose: Cristo non era una «roccia» reale (come non lo era Dio; Dt
32,4.15.18.30; 1 Sm 2,2; Is 26,4; 30,29), ma era una persona manifestata nella
storia con l’incarnazione. Al tempo dell’esodo gli Israeliti non erano coscienti
della sua presenza autonoma e personale, ma solo di quella di Jahwè. Il Logos
era presente e attivo nella storia d’Israele? Sì, ma non separato da Jahwè e non
caratterizzato in modo autonomo; talché tutto ciò che faceva Dio, lo si può
attribuire al Logos, ma gli Israeliti non ne erano consapevoli. Paolo poteva
benissimo dire che tale «roccia spirituale» era Dio (cfr. v. 5 il ritorno alla
storia: «Dio non si compiacque»), e ciò non avrebbe mutato nulla nella
sua affermazione, poiché non si trattava di una dichiarazione storico-teologica,
ma solo di un’applicazione allegorica per i credenti dei suoi tempi (vv. 1-4).
Egli significava che ciò che accadde agli Israeliti materialmente (passaggio del
mar Rosso, manna, acqua dalla roccia), aveva per loro anche un significato
spirituale e vale pure per noi spiritualmente parlando (cfr. v. 11 esempio e
ammonizione per noi).
Inoltre c’è un
grande equivoco nello scritto di Fernando riguardo a cose che lui
attribuisce alle convinzioni altrui, pur di tener fermo un principio di
continuità senza alcuna discontinuità. L’incarnazione ha portato invece una
grande discontinuità, ma non nella persona del Logos nel senso della sua
natura (come egli attribuisce agli altri), ma nel suo modo di esistere:
una cosa è essere lo Spirito creatore (Logos), altra cosa è essere una creatura
umana (Gesù Cristo quale Logos fatto carne, sia Dio sia uomo). Questa è
un’immane discontinuità nell’esistenza del Logos fatto carne. Ciò è
paragonabile, ad esempio, a un campione olimpionico che, pur rimanendo tale,
debba vivere nei limiti di una carrozzina a rotelle; ciò non muta nulla del suo
essere, ma porta a un grande mutamento della sua esistenza. Dall’incarnazione in
poi, affinché Gesù Cristo possa essere mediatore tra Dio e gli uomini e garante
della salvezza, deve necessariamente rimanere uomo in perpetuo (1 Tm 2,5s).
Perciò la risurrezione non ha eliminato per Gesù quanto successo con
l’incarnazione né il suo essere uomo per sempre (Lc 24,37ss; Gv 20,20.27).
A essere onesti, leggendo l’AT da ebreo, in esso non si vede per nulla in modo
evidente come filo conduttore la «presenza di Gesù».
Se così fosse stato, scribi e Farisei lo avrebbero attestato, gli apostoli lo
avrebbero riconosciuto da sé, come pure i discepoli d’Emmaus. Un filo conduttore
è ciò che è chiaramente evidente e non necessita di una decodifica. Come
abbiamo visto, Dio aveva tenuto segreto il «mistero» e le cose asserite circa il
Messia le aveva codificate al punto che solo la rivelazione della
chiave d’accesso, resa comprensibile solo dopo gli eventi
cristologici, resero comprensibili le «tracce» lasciate da Dio nell’AT riguardo
al Messia-Re, il Logos fatto carne (cfr. Ap 19,10 «testimonianza di Gesù» quale
spirito della proclamazione profetica).
Dopo essersi mostrato come risorto, Gesù disse ai suoi discepoli: «Queste
sono le cose che io vi dicevo quando ero ancora con voi: che bisognava che tutte
le cose scritte di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi, fossero
adempiute» (Lc 24,44). Ma ciò non accadde in modo automatico e spontaneo, ma
per un intervento di Gesù: «Allora aprì loro la mente per intendere le
Scritture» (v. 45). Si noti però che Gesù si limitò al mistero
dell’Evangelo: «Così è scritto, che il Cristo soffrirebbe, e risusciterebbe
dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si predicherebbe ravvedimento e
remissione dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme» (vv.
46s). Il cammino della rivelazione e della comprensione fu lungo riguardo a ciò
che Gesù era stato prima della creazione, durante la storia, nell’incarnazione,
durante il suo ministero, nella morte e risurrezione, nell’ascensione al cielo e
nel suo significato futuro. Si noti come nei primi capitoli degli Atti Gesù fu
proclamato del tutto nel suo significato evidente di Messia uomo, figlio di
Davide, come si evinceva dall’AT, senza ancora alcuna menzione della sua
preesistenza e della Deità (At 2,22ss.32s.36). La pienezza del «mistero» doveva
essere ancora rivelata e compresa.
Per
l’approfondimento di alcuni aspetti si veda la seguente letteratura.
■ Nicola Martella (a cura di), Escatologia biblica essenziale.
Escatologia 1 (Punto°A°Croce,
Roma 2007), articoli: «Il conduttore del popolo», pp. 82-87; «Gesù
si è sbagliato sull’avvenire?», pp. 179-181.
■ Nicola Martella, E voi, chi dite ch’io
sia?
Offensiva intorno a Gesù 2
(Punto°A°Croce, Roma 2000), articoli: «La speranza messianica nell’AT»,
pp. 3-9; «Gesù, l’ultimo Cristo», pp. 16-25; «Gesù Cristo negli Evangeli», pp.
26-33; «Gesù l’adempimento dell’AT», pp. 24-37; «Come Gesù intendeva se stesso»,
pp. 46-53; «Gesù Cristo in tutto il NT», pp. 68-73; «Adempimento
di alcune promesse messianiche», pp. 74-87.
■ Nicola Martella,
Dall’avvento alla parusia,
Panorama del NT 1 (Fede controcorrente, Roma 2008), articoli: «Vita
e ministero», pp. 30-37; «Annuncio
e attività», pp. 38-44; «Passione,
morte e risurrezione», pp. 45-55. |
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/A1-Gesu_dis-continuita_storica_OiG.htm
20-09-2008; Aggiornamento: 04-10-2008
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