Caro «picconatore», dunque, ti dirò, alcune picconate non mi hanno fatto male,
ma qualcuna ha colpito il bersaglio. Ad un certo punto si è accesa una lampada
nella mia testolina e gli ingranaggi si sono messi in moto. Le mura di Gerico
sono crollate ed ora ho finalmente capito tutto. Vedo le cose in maniera
completamente diversa da prima e tutti i pezzi del puzzle ora si trovano al loro
posto. Nell’allegato che ti mando scoprirai una persona diversa. Avevo in serbo
altre cartucce da sparare, ma le ho picconate da solo.
Certo che ne abbiamo scritte di cose sull’argomento, non dico che se ne può fare
un libro, ma come minimo delle buone dispense di studio.
IL SONNO DELL’ANIMA
Il «sonno dell’anima» è una dottrina che suppone, abbastanza semplicemente, che
tra il tempo della morte e il tempo della risurrezione, l’uomo è in uno stato
«inconsapevole». Essa è creduta in vari gruppi cristiani evangelici e non solo
dagli Avventisti.
Per affrontare questo argomento bisogna partire da un altro: la natura del
rapporto tra ciò che è chiamato corpo, anima e spirito. I fautori del sonno
dell’anima guardano a queste «componenti» come a un insieme inseparabile.
È vero che la Bibbia, specialmente nel Vecchio
Testamento, presenta l’uomo come un’unità. Ma questo non significa
necessariamente che i suoi elementi costituenti siano inseparabili; significa
semplicemente che ciò che rende un uomo tale, sono gli elementi assemblati
insieme. La domanda che rimane è se gli elementi possono esistere separatamente
dopo la morte del corpo.
A questo proposito ho notato qualche confusione di
termini. Uno studioso avventista, in un saggio dal titolo «The Human Soul»
(L’anima umana), dapprima dice: «Quelli che generalmente credono che la loro
natura sia formata da un tutto indivisibile dove corpo, anima e spirito sono le
caratterizzazioni della stessa persona, immaginano un destino dove la loro
persona morta sarà un giorno risuscitata, ma nel frattempo è completamente
inconsapevole». Ma nel paragrafo successivo ribadisce: «D’altra parte,
quelli che credono che la loro natura sia dualistica, che cioè, è formato da un
corpo materiale e mortale e da un’anima spirituale e immortale, immaginano un
destino dove le loro anime immortali sopravvivranno alla morte del loro corpo».
Che cosa è accaduto qui? Egli ha trasformato i tre
(spirito, anima, corpo) in due (corpo, anima) e ha lasciato lo spirito nella
polvere (nel primo caso). Poi sembra che egli consideri «l’anima» e lo «spirito»
come sinonimi. Nel primo caso poi, il corpo e l’anima, la carne e lo spirito,
sono caratterizzazioni della stessa persona e componenti non scindibili soggetti
alla morte. È vero che «l’anima» e lo «spirito» vengono a volte usati in maniera
intercambiabile, ma questo non è sempre il caso, poiché le parole ebraiche sono
molto diverse:
■ Spirito: rûahI
«vento; respiro, soffio».
■ Anima: nepeš «essere vivente, vita».
«L’Eterno Dio
formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito di
vita, e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). Cosicché il corpo
staccato dallo spirito non può essere l’uomo; e lo spirito staccato dal corpo
non è l’uomo; ma è l’unione dei due che fa «un essere vivente». E questo vale
anche per gli animali poiché nepeš hIajjāh
si riferisce anche a loro (Gen 1,20.21.24.30; ecc.). Se il corpo e lo spirito,
uniti insieme formano l’anima vivente, è sensato dire che la nepeš
muore quando il corpo muore.
La domanda che ora mi pongo, quindi, non è se secondo
la Bibbia «l’anima sopravvive (nel senso di essere cosciente) dopo la morte»,
ma, «lo spirito sopravvive (è cosciente) dopo la morte»? Non solo il Vecchio, ma
anche il NT distingue tra l’anima e lo spirito (1 Ts 5,23; Eb 4,12) e lo fa in
maniera tale che le due parole non possono essere considerate dei sinonimi. Ma
che cos’è lo spirito dell’uomo, e cosa gli accade dopo la morte? La parola è
spesso utilizzata figurativamente (cioè, «spirito di servitù», «spirito di
stordimento», «spirito fervente», «spirito di mansuetudine», ecc), ma è
utilizzata chiaramente anche in riferimento a entità senzienti (sia buone che
cattive) e – come si deduce da Gcm 2,26 (come il corpo senza lo spirito è
morto, così anche la fede senza le opere è morta) è un’entità separabile dal
corpo umano anche se identificabile all’interno dell’uomo, qualunque sia la sua
condizione alla morte del corpo. In 2 Cor 5, l’excursus di Paolo sulla
risurrezione del corpo, paragona quello vecchio a una tenda, il che suggerisce,
ovviamente, un «abitante»! (Sebbene non venga detto dove riposa esattamente
«l’abitante» e in quale stato). Eb 4,12 conferma questo, parlando della
«divisione dell’anima e dello spirito» paragonabile a quella «delle giunture e
delle midolla» — le ultime essendo un componente primario.
Dovrebbe essere osservato, prima di tutto, che poiché
«lo spirito» è descritto in termini di «respiro», non bisogna supporre che
spirito e respiro siano la stessa cosa. Organi diversi del corpo sono collegati
con determinate cose dagli Ebrei (così dobbiamo aspettarci che lo spirito venga
collegato con una certa parte di noi). Non dobbiamo pensare che i reni non
esistono perché nella Bibbia sono chiamati «lombi».
Una delle poche dichiarazioni del suddetto studioso
avventista sullo spirito riguarda Ec 12,7: «…la polvere torni alla terra
com’era prima e lo spirito torni a Dio che lo ha dato». Egli cita dal
Interpreter’s Dictionary of the Bible il quale afferma che «lo spirito non
è, correttamente parlando, una realtà antropologica ma un dono di Dio che gli
ritorna al momento della morte». Dove conduce questo ragionamento? Non c’è
niente nella Bibbia che mostra che lo spirito non sia una «realtà
antropologica»; se gli angeli e gli spiriti malvagi e lo Spirito di Dio lo sono,
da cosa si deduce diversamente per lo spirito dell’uomo? Ec 12,7 non afferma ciò
che accade allo spirito quando ritorna a Dio o se ha una qualsiasi coscienza; la
parola «ritorno» ha tanti ampi significati come la nostra moderna parola.
■ Sal 6:5 «Poiché nella morte non c’è memoria di te;
chi ti celebrerà nella še’ol?».
■ Sal 30:9 «Che utilità avrai dal mio sangue, se
scendo nella fossa? Potrà forse la polvere celebrarti? Potrà essa proclamare la
tua verità?».
■ Sal 115:17 «Non sono i morti che lodano l’Eterno,
né alcuno di quelli che scendono nel luogo del silenzio»..
Se utilizzati per insegnare l’assoluta incoscienza di coloro che sono morti,
questi versi in pratica ci dicono solo che i morti non ringraziano e non lodano
Dio. Queste sono due attività fuori dalla loro portata, ma è possibile essere
coscienti e non fare queste cose per altre ragioni.
Un altro verso importante per dimostrare l’incoscienza
dell’uomo dopo la morte è Gen 3,19: «Mangerai il pane col sudore del tuo
volto, finché tu ritorni alla terra perché da essa fosti tratto; poiché tu sei
polvere, e in polvere ritornerai». Ma questo significherebbe che l’uomo è
polvere e basta, il che darebbe l’idea che niente più sopravvive dopo la morte;
ma sappiamo che l’uomo è ben di più che polvere. Ec 3,19,20 è ugualmente
utilizzato allo stesso modo; in questo caso l’uomo è identificato con le bestie.
Ma l’uomo non è come le bestie. Se l’uomo è solo polvere, che cosa è avvenuto
del «respiro» che Dio ha messo in lui? In Gen 1 Dio usa solo tre volte la parola
bārā’
(vv. 1.21.27) e la usa ogniqualvolta compie un atto creativo, la prima volta per
la materia, la seconda per gli animali, la terza volta per gli uomini, e questo
significa che l’uomo è «creativamente» diverso dagli animali. Ma a questo si
potrebbe comunque rispondere come fa Elihu in Gb 34,14,15: «Se Dio dovesse
decidere in cuor suo di ritirare il suo Spirito e il suo soffio, ogni carne
perirebbe assieme, e l’uomo ritornerebbe alla polvere». Chi vuol continuare
a credere al sonno dell’anima può ancora farlo, e quindi bisogna considerare
qualcos’altro.
■ Una delle parole chiave associate alla condizione
dopo la morte è še’ol, spesso tradotto «tomba», «fossa», «sepolcro». Ma
si riferisce anche all’oltretomba.
■ Le persone nella še’ol sono inattive e deboli,
tuttavia possono ancora essere coscienti.
■ La še’ol è principalmente una destinazione per
l’empio. I giusti prevedono la še’ol come loro destino a volte quando
sono afflitti o in grande pericolo, o costretti ad affrontare una morte infelice
o intempestiva.
È vero che la še’ol
è descritto come un luogo di silenzio che taglia i ponti della persona con Dio,
tuttavia due versi descrivono una certa attività nella še’ol:
Is 14,9-11 e Ez 32,21.31.
Questi versi parlano dei morti risvegliati per ricevere
un nuovo arrivato e parlano dalla še’ol.
Questa non è quella che uno chiamerebbe una dimora attiva, naturalmente, ma è
chiaramente una dimora cosciente, o almeno, uno stato nel quale è possibile
essere coscienti. Questo non contraddice la metafora del sonno per descrivere la
morte e che si trova in tutta la Bibbia. Non è necessario prendere la metafora
in un senso permanente o assoluto. Notiamo in particolare che in Is 14 i morti
vengono risvegliati per deridere la debolezza del nuovo arrivato.
In risposta uno può forse argomentare che Isaia parli
in maniera figurata dei morti come se essi fossero capaci di pensiero cosciente.
Ma se fosse così, allora la scelta di Isaia di far parlare i «morti» invece che
i vivi, dovrà sembrare particolarmente sfortunata per coloro che sostengono il
sonno dell’anima.
Sal 146,4: «Quando il suo spirito se ne va, egli
ritorna alla terra, e in quello stesso giorno i suoi progetti periscono».
Questa è un’affermazione molto forte. Se i pensieri di una persona «periscono»
allora questo implica che c’è uno stato inconsapevole. C’è da notare, tuttavia,
che la parola per «perire» non è la stessa di quelle che si trovano altrove:
karēt, una parola che indica esplicitamente punizione o distruzione
(Gen 41,36: «così il paese non perirà per la carestia»); o nāpal
(Es 19,21: «E l’Eterno disse a Mosè: Scendi e avverti solennemente il popolo,
perché non si precipiti verso l’Eterno per guardare, e molti non abbiano a
perire»). La parola utilizzata nel Salmo è ‘ābedû,
che ha il significato principale di vagare lontano o perdersi. È
utilizzata anche in:
■ Es 10,7, «Non hai ancora capito che l’Egitto è
rovinato?»
■ Dt 4,26 «Voi presto scomparirete completamente dal
paese di cui andate a prendere possesso».
Consideriamo quest’ultimo versetto alla luce del fatto che la punizione
d’Israele era l’esilio. Troviamo la stessa parola in:
■ Dt 26,5: «Mio padre era un Arameo errante»
(Riveduta); altri traducono: «sul punto di morire» (Nuova Diodati).
■ 1 Sm 9,20: «Riguardo poi alle tue asine smarrite…».
Il senso di questa parola suggerisce che lo stato della morte non sia proprio
inconsapevole, ma uno stato in cui la mente è vagante, mancante di qualcosa (il
cervello non c’è più), smarrita! In sostanza, se s’intende correttamente
‘ābed, quelli nella še’ol
non perdono conoscenza, ma piuttosto, concentrazione. E se le cose stanno così,
il «dormire» e il riposo è l’attività principale!
Ec 9,5: «I viventi infatti sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla;
per loro non c’è più alcuna ricompensa, perché la loro memoria è dimenticata».
Qualunque difesa del «sonno di anima» che ho visto
finora inizia con questo verso o lo contiene. Preso così com’è, offre una prova
molto forte dello stato di inconsapevolezza dei morti. Tuttavia, è proprio
perché non si può prendere «così com’è» che il suo uso per il «sonno dell’anima»
è ingiustificato. Questo verso si trova in un genere-contesto che indica che non
deve essere preso in senso assoluto.
La natura dell’Ecclesiaste è per certi aspetti
paradossale. È un libro pieno di tensione; per esempio in 3,1-8 vengono elencate
28 attività di vita, metà delle quali sono positive e le altre contrapposte. Il
secondo membro di ogni coppia annulla il primo. L’utilizzo che l’Ecclesiaste fa
di rûahI
«spirito» e nepeš «anima» sembra sovrapporsi.
Nepeš «anima, persona» è ciò che risulta quando il bāśār
«corpo» è animato dalla rûahI
«soffio, spirito». L’Ecclesiaste utilizza rûahI
sia nel senso di sede delle emozioni che nel senso di «soffio vitale»:
■ Lo spirito può essere paziente e superbo.
■ Lo spirito è sede di emozioni violente, in
particolare l’ira (7,9)
■ Gli uomini non sono in grado di distinguere la
differenza tra il soffio della bestia e quello dell’uomo (3,19s).
■ Dopo la morte dell’uomo lo spirito ritorna a Dio
(12,7).
Il termine nepeš viene impiegato spesso come sinonimo di rûahI,
ma è particolarmente usato per descrivere i desideri (6,3,7). Un aspetto
dell’anima è il cuore. Nepeš
è l’anima nella sua totalità, il cuore è l’anima nel suo valore interiore. Gli
Israeliti avevano osservato che le impressioni e le emozioni provenienti
dall’esterno influiscono sul cuore, ritardando o accelerando i suoi battiti. Ne
hanno dedotto che la vita, oltre che dal respiro, dipende anche dal cuore, e lo
hanno considerato addirittura «sorgente della vita» (Pr 4,23).
■ Il cuore viene utilizzato nel senso di organo
intellettuale, che capisce, cerca, esplora, indaga, si applica ad apprendere,
conoscere (Ec 1,13; 2,3,22; 7,25; 8,16; 9,1).
■ Il cuore è impiegato come sede delle emozioni, in
particolare l’allegria (Ec 7,3; 9,7) e il desiderio (11,9).
■ Il cuore è impiegato come facoltà intelligente che
sceglie tra il bene e il male (Ec 8,11; 9,3).
L’Ecclesiaste ora descrive la disperazione della vita, ora esorta a godere della
vita. Qualcuno ha scritto che «Salomone scrive quello che non può evitare di
vedere e quello che non può evitare di credere». La sua metodologia è quella che
a un certo punto ha seguito (anche se non precisamente uguale) Hegel: combinare
la tesi e l’antitesi, per arrivare a una sintesi. A differenza di Giobbe che
dialoga con i suoi amici, l’Ecclesiaste dialoga con se stesso, ma la metodologia
è la stessa: arrivare alla soluzione dei problemi con il dialogo. È quindi
incauto utilizzare Ec 9,5 come un passaggio di base dottrinale per sostenere
l’inconsapevolezza dei morti, proprio come non lo è, per esempio, Gb 14,12: «Ma
l’uomo che giace non si rialza più; finché non vi siano più cieli, non si
risveglierà né più si desterà dal suo sonno». Anche se Ec 9,5 può ancora
essere interpretato per negare la coscienza dei morti, esso rappresenta solo la
percezione dell’argomento dal lato negativo invece di essere un’affermazione di
fatto.
Ci sono altri passaggi sullo še’ol
e sulla morte, nel VT, ma nessun altro dà qualunque informazione esplicita sullo
stato dei morti con particolare riferimento alla loro coscienza.
Gli unici altri dati del VT sono quelli che ci parlano
della pratica illegale della negromanzia (comunicazione con i morti). Il VT
proibisce esplicitamente questa pratica (Lv 19,31; Dt 18:10; cfr. 2 Re 21,6;
23,24). 1 Sm 28 ci mostra che Saul si aspettava che Samuele potesse essere
contattato e quindi cosciente. Tuttavia, questa non è prova abbastanza forte,
perché naturalmente si può sostenere che Saul agisse secondo un’opinione
erronea.
Quanto sopra è quello che ci offre il VT; ora passiamo
al NT. Qui i dati sono un poco più specifici. Da una parte si fa riferimento ai
morti che «dormono» e dall’altra abbiamo Paolo che desidera lasciare il suo
corpo per abitare con il Signore (2 Cor 5,8). Essere «addormentato» è un
eufemismo, basato sulla somiglianza corporea tra il dormire e la morte, oppure
riflette uno stato di coscienza? Ed in questo caso: a volte, la maggior parte
delle volte, o per tutto il tempo?
È difficile dare troppo significato all’uso figurato
del «sonno» uguale morte e, quindi, uguale inconsapevolezza. Se l’analogia deve
essere completa, durante il sonno sogniamo e perciò abbiamo un tipo di vita
cosciente, diversa da quella da svegli, anche nello stato intermedio! C’è chi ha
il «sonno leggero» che si alza durante la notte per poi ritornare a dormire.
Paolo desiderava andare ad abitare con il Signore in uno stato di
inconsapevolezza in attesa della risurrezione? È difficile immaginarsi questo!
Si può sostenere che il giudaismo dei tempi di Gesù
credeva a una condizione dopo la morte cosciente, e che questo pensiero sia
stato frutto dell’inquinamento del pensiero ellenistico. Ma se così fosse,
perché Gesù non l’ha condannato apertamente in Luca 16?
Mt 22,31s: «Quando poi alla risurrezione dei morti, non avete letto ciò che
vi fu detto da Dio, quando disse: Io sono il Dio di Abrahamo, il Dio d’Isacco e
di Giacobbe? Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi»
Chi sostiene lo stato cosciente si serve di questo
passaggio per affermare che i patriarchi sono «vivi» e quindi coscienti. Chi
sostiene lo stato di incoscienza risponde dicendo che qui Gesù sta parlando
della risurrezione e non dello stato dei morti, e in questo caso Gesù dice che i
patriarchi sono vivi perché Dio chiama le cose che non sono come se fossero.
Essendo certa la loro risurrezione possono essere considerati vivi.
Chi ha ragione? I dati contestuali favoriscono la prima
posizione. Lo stesso passaggio, citato da Gesù, ossia Es 3,6, è stato utilizzato
anche da Filone (Abr. 50-55) e 4 Maccabei (7,18,19; 16,25) per affermare che i
patriarchi sono ancora in vita; e i rabbini successivi hanno utilizzato un brano
simile, Es 33,1, per affermare che «i giusti sono chiamati viventi anche nella
loro morte». Tuttavia, bisogna ammettere che niente di specifico viene detto qui
dello stato di coscienza dei defunti. Anche un’anima che «dorme» può essere
considerata un’anima «vivente». Abbiamo dunque bisogno di cercare delle
descrizioni più specifiche.
Gv 11,11: «Dopo aver detto queste cose, soggiunse: il nostro amico Lazzaro si
è addormentato, ma io vado a svegliarlo».
Uno studioso avventista, in un suo articolo intitolato
«La condizione del morto» scrive: «L’esperienza di Lazzaro è significativa
perché egli ha passato quattro giorni nella tomba. La sua è stata un’esperienza
di morte reale. Se, come comunemente si crede, l’anima alla morte lascia il
corpo e va in cielo, Lazzaro deve aver avuto una esperienza straordinaria da
condividere, per quei quattro giorni passati in paradiso. I leader religiosi e
la gente comune avrebbero fatto quanto in loro potere per farsi dare da Lazzaro
tutte le informazioni possibili sul dopo-vita, specialmente alla luce del fatto
che questo argomento era caldamente discusso tra i Sadducei e i Farisei (Mt
22,23.28; Mt 12,18.23; Lc 20,27.33).
Ma Lazzaro non ha avuto niente da condividere sulla
vita dopo la morte, perché durante i quattro giorni che egli ha passato nella
tomba, si trovava nel sonno inconsapevole della morte. Quello che è vero di
Lazzaro è vero anche di altre sei persone risuscitate dalla morte: il figlio
della vedova di Sarepta (1 Re 17,17-24); il figlio della Shunamita (2 Re
4,18-37); il figlio della vedova di Nain (Luca 7,11-15); la figlia di Iairo
(Luca 8,41.42.49-56); Tabitha (Atti 9,36-41); e Eutico (Atti 20,9-12). Ognuna di
queste persone è uscita dalla morte come da un sonno profondo, non con
un’esperienza di dopo-vita da condividere».
È un’osservazione molto interessante, ma sembra che
questo studioso non abbia appreso una lezione elementare, cioè che non bisogna
considerare il silenzio dei testi come un’affermazione. Non sappiamo se e cosa
queste persone hanno sperimentato, e gli scrittori biblici avevano altre cose in
mente quando scrivevano. Inoltre, solo Lazzaro ha avuto un periodo di morte
significativo (gli altri, difficilmente hanno superato un giorno), e per il
clamore che ha fatto la sua storia volevano ucciderlo (Gv 12,10)!
Atti 2,34: «Poiché Davide non è salito in cielo, anzi egli stesso dice…».
Questo è stato preso per affermare che Davide non è in
cielo, ma ancora addormentato nella sua tomba. Tuttavia il contesto di questo
brano è un confronto con Gesù, che è salito in cielo, a dimostrazione che il Sal
110,1 si è adempiuto in Gesù e non in Davide. Inoltre, Atti dice che Gesù è
salito in cielo alla destra di Dio, e Davide no, perché giustamente nessun uomo
può stare alla presenza di Dio prima della risurrezione. L’autore degli Atti non
fa un’osservazione positiva su dove Davide sia. Punto. Non dice che non si trovi
beato in qualche altro posto.
Luca 16,23: «E, essendo tra i tormenti nell’Ades, alzò gli occhi e vide da
lontano Abrahamo e Lazzaro nel suo seno».
Correttamente inteso, questo insegnamento di Gesù è il
passaggio più chiaro che abbiamo del dopo-vita. L’uomo ricco è cosciente
nell’Ades; Abrahamo è cosciente in paradiso, e presumibilmente lo è anche
Lazzaro (o almeno lo può essere) dato che gli viene chiesto di fare una
commissione. Questa è la prova più chiara di un dopo-vita nel quale è possibile
essere coscienti (naturalmente essi potrebbero essere stati appena svegliati,
chi lo sa!). Ma chi vuole può ancora obiettare:
■ Se prendiamo questo racconto letteralmente abbiamo
l’uomo ricco che è descritto ancora con il suo corpo. Ha gli «occhi» che vedono,
una «lingua» che parla, cerca sollievo da un «dito» del corpo di Lazzaro. Com’è
possibile? Inoltre, c’è un baratro tra i due che non può essere attraversato, ma
che comunque permette la conversazione. Dobbiamo intendere queste cose come
letterali? Perciò si può obiettare che anche lo stato di coscienza è figurativo.
Ma chi interpreta così
cade in contraddizione quando poi interpreta la metafora del «sonno» alla
lettera per sostenere lo stato d’incoscienza. La verità comunque è che non
abbiamo alcuna idea di come gli «spiriti» sono fatti e quindi non possiamo dire
che il riferimento agli occhi, lingua, ecc. non sia appropriato.
[Ndr: si noti che nella
trascendenza le «anime» (= persone) dei martiri di tutta la storia non solo
gridano con gran voce, ma possono essere rivestiti con una veste bianca (Ap
6,10s), avendo essi un corpo risorto. A ciò si aggiunga che a tali santi
coscienti e consapevoli fu detto che «si riposassero ancora un po’ di tempo»
(v. 11).]
Probabilmente come il corpo ha degli organi di senso, lo spirito ha delle
capacità parallele. Né possiamo dire che è impossibile che essi possono
comunicare da lunga distanza (la letteratura apocrifa giudaica non ha
considerato questo un problema). L’uomo ricco, un Giudeo che ha avuto Abrahamo
come padre, può aver confidato nelle potenzialità di Abrahamo affinché gli
mandasse Lazzaro a dargli sollievo, ma è stato rimproverato. Un’altra obiezione
che si può fare è come si può essere felici in paradiso nel vedere tanta gente
tormentata nell’Ades. Ma anche in questo caso stiamo parlando di qualcosa che
non conosciamo. Non possiamo affermare che chiunque stava in paradiso era
aggiornato delle condizioni dell’uomo ricco o di altri come lui.
■ Un’altra obiezione è che se prendiamo questo
letteralmente, ciò contraddice Mt 25,31s. La contro-obiezione è questa: il brano
di Matteo non si riferisce alla condizione dell’uomo dopo la morte, ma a «quando
il Figlio dell’uomo verrà».
■ Se questa è una storia errata, perché Gesù l’ha
utilizzata? Possibile risposta: perché Gesù voleva insegnare che bisogna badare
agli insegnamenti di Mosè e dei profeti in questa vita, perché ciò determina la
beatitudine o la miseria nel mondo a venire. Bene, ma allora perché Gesù non ha
impostato la parabola sul «mondo a venire»? Per quale motivo Gesù sarebbe stato
fuorviante? Se Gesù avesse voluto illustrare le condizioni reali del dopo-vita e
nello stesso tempo usarle come «spunto» per una storia morale, come avrebbe
dovuto farlo? Precisamente come ha fatto!
Per onestà bisogna
comunque dire che questa storia ci dà solo uno piccolo spiraglio di quello che
succede nell’aldilà, e non possiamo sapere se i morti stanno sempre nella stessa
condizione, ovvero se sono assonnati per la maggior parte del tempo o se al
contrario sono svegli la maggior parte del tempo.
Ora voglio esaminare un altro brano molto
importante: «Io conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa (se con il
corpo o fuori del corpo non lo so, Dio lo sa), fu rapito fino al terzo cielo. E
so che quell’uomo (se con il corpo o senza il corpo, non lo so, Dio lo sa), fu
rapito in paradiso e udì parole ineffabili, che non è lecito ad alcun uomo di
proferire» (2 Cor 12,2-4).
Questo prova che Paolo
credeva che un uomo potesse avere una vita cosciente oltre il corpo. Quando
Paolo scrive non era morto ma ammette di poter essere stato «fuori del corpo» e
tuttavia essere ancora cosciente e capace di sentire (nonostante non avesse
alcun «orecchio» fisico). È chiaro che egli ammette la possibilità che gli
elementi dell’uomo possono essere separati e nonostante ciò rimanere coscienti
nella separazione.
La mia conclusione: è chiaro che è possibile
essere coscienti nello stato intermedio prima della risurrezione. Se poi è uno
stato
permanente di piena coscienza, o è un tempo alternato di «sonno» e di veglia, o
se si ha una predominanza di «sonno» sulla veglia, è argomento di speculazione.
È bene che la Bibbia dedichi poco spazio a questo argomento, perché le nostre
menti devono stare al loro posto, qui ed ora a servire il Signore Gesù.
*******************************************
Caro Argentino, sì ora puoi a tutti gli effetti
essere chiamato un ex «sadduceo»! La «tenzone» è stata ardua, ma benefica e
salutare! Ho letto attentamente il tuo nuovo articolo e ho visto la lotta
titanica che hai fatto per rimanere obiettivo, rifuggendo dai sistemi dottrinali
e ricercando la verità esegetica dei testi. Complimenti!
Arrivati a questo punto, bisogna
riflettere che cosa bisogna fare con tutto il materiale ossia se e come metterlo
in rete. Che ne pensi?... Nicola
Caro Nicola, non so come la pensi tu, ma nella mia esperienza ho potuto
constatare che la maggior parte dei fratelli non hanno per niente le idee chiare
sull’argomento che abbiamo trattato. E quelli che pensano di avere le idee
chiare, la maggior parte è perché credono a «scatola chiusa» a ciò che è stato
loro insegnato, ma senza essere in grado di dimostrarlo, e quindi al primo
attacco del «nemico» si troverebbero in difficoltà. Credo quindi che sia buona
cosa indicare la strada giusta e divulgare la verità. Sentiti libero di
scegliere la strada migliore; qualunque cosa decidi a me sta bene. Argentino
1 ◄
2 ◄
3 ◄
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/A1-Anima_sonno4_Lv.htm
07-04-2007; Aggiornamento: 23-03-2009