L’articolo «Il
tempo dello šabbāt?» commenta uno scritto comparso sul mensile
«Oltre». Esso contiene, tra altre cose, una richiesta all'autrice di spiegare
meglio il suo punto di vista. Deborah D’Auria ha risposto all'invito. Nel
confronto fraterno, che segue, sono contenuti anche spunti su come gestire una
rubrica sull'ebraismo in una rivista a tema vario come «Oltre» e, quindi,
destinata a un vasto pubblico. Spero che il responsabile di quest'ultima li
saprà cogliere e fare fruttare.
Qui di seguito discutiamo quindi tale articolo e le riflessioni derivanti.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Deborah
D’Auria}
▲
Caro Nicola, ho letto con interesse le tue osservazioni al mio contributo su
«Oltre» dedicato allo Shabbat. Contestualmente sono venuta a conoscenza che non
era la prima volta che dedicavi parte del tuo tempo prezioso ai miei articoli.
Purtroppo non sono una abituale frequentatrice dello spazio virtuale.
Le tue osservazioni sono troppo precise per non essere
prese in considerazione. Al di là delle questioni da te sollevate e che
rispetto, vorrei solo precisare che, quando ho concordato con Elpidio Pezzella
questa rubrica, il mio obiettivo era solo quello di provare a far conoscere in
minima parte e con grande circospezione l’immenso patrimonio dell’ebraismo.
Sono convinta che ogni autentico dialogo necessiti
d’una fase preliminare, come quella della conoscenza delle tradizioni con cui si
vuole dialogare. Sicuramente i livelli d’approccio possono essere migliori di
quelli offerti da me. Così come sul piano linguistico le interpretazioni possono
essere diverse. Ma questa è la ricchezza della tradizione ebraica e della sua
«lettura infinita» delle Scritture. Spero che tu non mi ritenga così sprovveduta
da non sapere che c’è una lettura cristiana delle stesse questioni. Ma questo
non rientrava e non rientrerà nel taglio degli articoli da me suggeriti. Non
intendo essere pietra di scandalo e d’inciampo per nessuno.
Ma neppure rinunciare a un esercizio ermeneutico che mi
sembra importante. Quanto alla tua osservazione per cui io susciterei «solo
domande» e non risposte, beh, francamente questo per me è il migliore
complimento. Sono convinta che la fede sia soprattutto fatta di domande e di
aperture a un mistero che certo si è fatto carne, ma che resta l’orizzonte
sempre mobile cui guardare.
Non credo in tutta buona fede che io abbia «teso
trappole» d’alcun tipo. Volevo e voglio solo offrire uno spazio di riflessione e
contribuire alla nostra comune ricerca di fede, nella consapevolezza che proprio
il cammino sia una delle sue dimensioni più forti. Spero anch’io che da questo
confronto tu ne possa uscire arricchito.
2.
{Nicola Martella }
▲
Per
motivo d'opportunità, uso lo stile analitico in terza persona invece di quello
della lettera personale.
Ho apprezzato la pacatezza e l’equilibrio della
risposta di Deborah D’Auria. Il suo obiettivo concordato col responsabile di
«Oltre» è condivisibile. Conoscere e (far conoscere) coloro con cui si vuole
dialogare autenticamente, è nobile (qui l’ebraismo e le sue tradizioni). Al
contrario, l’ignoranza reciproca è sempre un limite a «ogni autentico dialogo».
Poi lungi da me dal ritenere Deborah D’Auria «così
sprovveduta da non sapere che c’è una lettura cristiana delle stesse questioni»!
Il problema è che, mentre noi addetti ai lavori sappiamo discernere i diversi
piani delle questioni e possiamo distinguere che qualcosa è propedeutico a
un’altra, i lettori di una rivista politematica (qual è «Oltre», che ritengo
ottima per molti aspetti) in genere non posseggono questa facoltà, se non pochi.
Volenti o nolenti il lettore medio viene influenzato, sì indottrinato, da ciò
che legge, chiunque sia a scrivere. Se l’autore di un certo tema (come appunto
quello dello šabbāt) si ferma a un certo punto del discorso, il lettore lo
prende come l’opinione dottrinale della rivista e come cosa «ortodossa» che gli
viene suggerita di praticare; come minimo resterà confuso. Chi resterà turbato,
smetterà di leggere «Oltre». Quelli che hanno il sabato come dottrina maggiore,
useranno «Oltre» come documento che dà loro ragione nel fare proseliti fra gli
evangelici. Come si vede per certi temi non ci si può fermare ai preliminari,
poiché questi ultimi — oltre a essere fraintesi — sono preghi di conseguenze.
È fuori dubbio che Deborah D’Auria non intendesse
«essere pietra di scandalo e d’inciampo per nessuno», né tanto meno che
intendesse porre «trappole» ai lettori. Ciò avviene però, a volte, malgrado le
buone intenzioni che si nutrono. Ciò che ha scritto l’autrice ha affascinato
alcuni lettori che prendono il giudaismo come radici di un cristianesimo più
«biblico» e più «originale». È in questa direzione che un lettore mi ha scritto
tra altre cose: «Se per esempio Lutero avesse ripristinato il Sabato al posto
della Domenica, oggi avresti risposto ben diversamente a D’Auria... Oggi le
chiese protestanti si sarebbero riunite di Sabato e non di Domenica». Questa è
la conclusione che ha tratto lui, che io non considero un lettore medio, ma un
conoscitore di queste questioni. Io gli ho risposto facendo riferimento ad Atti
15 (il sabato non rientrò nelle decisioni del concilio per i Gentili) e Rm 14
(Paolo riconobbe ai giudeo-cristiani, presenti nelle chiese in casa di Roma, il
diritto di osservare il «giorno» e ai cristiani gentili riconobbe il diritto di
considerare tutti i giorni uguali, senza un «giorno» particolare).
Nessuno vuole indurre a «rinunciare a un esercizio
ermeneutico» ma, per i motivi detti sopra, è bene pensare al messaggio che si
trasmette con ciò che si scrive e con ciò che si omette di scrivere.
Questo vale per noi tutti.
Visto che nei propositi di Deborah D’Auria una «lettura
cristiana» delle questioni da lei trattate «non rientrava e non rientrerà nel
taglio degli articoli» che scrive — il mio suggerimento per «Oltre» sarebbe
quello che, per questi temi, un altro autore, conoscitore di tali tematiche,
affianchi le «Toledot» di Deborah D’Auria con una rubrica parallela (chiamiamola
Didaché) per spiegare l’incidenza di ciò, che lei dice, per la gente del nuovo
patto. Questo salverebbe «capre e cavoli» e aiuterebbe il lettore a capire,
senza rimanere confuso. Questo però sta nella libertà dei responsabili di
«Oltre» e nella prontezza dell’autrice di mandare a tempo i suoi articoli a tale
autore.
Quanto alle «domande» soltanto, io ho pubblicato due
libri di studio su
Matteo e
Levitico che contengono solo domande; il primo ha però un dizionarietto finale, a cui nel
testo si rimanda continuamene, e il secondo è accompagnato dal testo biblico che
ricalca l’ebraico e che è corredato di continue annotazioni. Dico questo perché
quando ci si confronta col testo biblico, le domande possono essere utilissime.
Quando però il lettore legge un articolo e trova solo domande (e incertezze) e
niente risposte riguardo al collegamento di tale soggetto controverso con la
teologia del NT, allora le cose cambiano! Allora quello che potrebbe ritenersi
il «migliore complimento» per un autore, potrebbe scoprirsi fonte di animosità
in vari lettori; infatti, importante rimane il risultato nelle menti e nelle
vite di chi legge. Concesso che la fede biblica è «soprattutto fatta di
domande», ma aggiungerei solo laddove ci sono delle certezze incontrovertibili
date dalla rivelazione; altrimenti una fede vale l’altra e così pure le
religioni.
La comunicazione è una tecnica complicata. Uno dei
continui pericoli è quello di essere fraintesi da chi ascolta o legge. Ad
esempio le parole di Deborah D’Auria riguardo alla fede, se lette fuori
contesto, potrebbero ricordare quelle di Herman Hesse e
del suo
Siddharta; egli come è noto si è rivolto alle religioni
orientali e le ha comunicate all’Occidente con un linguaggio filosofico,
esistenzialista e, per certi aspetti, cristianizzato e occidentalizzato. Meno
male che lei ha parlato del «mistero che certo si è fatto carne»! Stranamente
però proprio Herman Hesse ha formulato in Siddharta la frase memorabile cara
alla filosofia orientale: «La via è la meta»; essa sembra trasparire dalle
parole dell’autrice quando parla della «nostra comune ricerca di fede, nella
consapevolezza che proprio il cammino sia una delle sue dimensioni più forti». È
chiaro che questa è solo una coincidenza, poiché non credo che Deborah D’Auria
sia una discepola di Herman Hesse! Proprio questo esempio, però, mostra come ciò
che comunichiamo susciti in chi legge associazioni con contenuti da lui
conosciuti; ciò fa sì che il lettore cataloghi subito lo scrittore in una
«cassettiera» delle idee, in base a ciò che ha capito. Perciò si fa bene a
essere molto chiari come autori e a porsi il problema di ciò che capiranno i
lettori. Io che scrivo regolarmente per «Fede controcorrente» so come sia facile
essere frantesi, ma ho il vantaggio di spiegare il tutto subito nel prossimo
contributo, appena arriva una richiesta di chiarimento; chi scrive su una
rivista, spesso non riceve molto riscontro immediato. I responsabili di un
rivista come «Oltre» devono però preoccuparsi sia del problema della
comunicazione sia quello dei contenuti, non lasciando nulla d’incompleto, che
può offrire il fianco a pesanti critiche.
Il confronto è certamente per me sempre un momento
d’arricchimento, quando si ci si confronta con lealtà e correttezza, con
misericordia e rettitudine. Grazie quindi a Deborah D’Auria per questo
confronto.
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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/T1-Tempo_shabbat_parlando_Lv.htm
16-08-2007; Aggiornamento: 03-07-2010 |