1. Il principio dell’elezione divina (Gn 25)
{A. Quintavalle}
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Introduzione
Nel Talmud (Berachot 33b) è scritto: «Tutto è nelle mani del Cielo, tranne che
il timore del Cielo». La «conditio sine qua non» dell’esistenza umana è la
libertà di poter scegliere tra il bene e il male. Dio ci lascia liberi di
temerlo o meno, ma ci chiede di temerlo. È la limitazione che Dio si dà creando
il mondo: lasciare all’uomo di poter decidere se seguire la sua via oppure no.
Contro questa verità si staglia maestosa, come una antinomia, il concetto
dell’elezione divina.
Come l’idrogeno e l’ossigeno solo quando sono uniti insieme nella dovuta maniera
formano l’acqua, altrimenti sono pericolosi, così lo è di queste due verità se
le teniamo separate. Uno dei passi migliori del Vecchio Testamento che rende
chiara l’idea dell’elezione si trova in Genesi 25. Posso dire questo con tutta
fiducia, poiché l’apostolo Paolo si è servito d’alcuni eventi di questo capitolo
per illustrare la dottrina dell’elezione divina in Rm 9.
La morte d’Abrahamo e i suoi discendenti (Gn 25,1-11)
Nel primo verso leggiamo che «Abrahamo prese un’altra moglie, per nome Ketura»,
dalla quali ebbe molti figli che originarono altrettante nazioni, secondo la
promessa fatta in Gn 17,4: «Tu diverrai padre d’una moltitudine di nazioni».
Benché Abrahamo fosse morto, gli scopi e le promesse di Dio erano sempre attivi.
Nel v. 11 ci viene ricordata questa verità: «E dopo la morte d’Abrahamo, Dio
benedisse Isacco figlio di lui».
È attraverso Isacco che le promesse del patto dovevano essere portate avanti.
L’opera di Dio continua, anche quando i santi passano. Il testimone è passato da
padre in figlio, da Abrahamo a Isacco.
La morte d’Ismaele e i suoi discendenti (25,12-18)
Questa parte della Genesi dimostra la realizzazione della promessa di Dio fatta
a Abrahamo in Gn 17,20: «Quanto a Ismaele, io t’ho esaudito. Ecco, io l’ho
benedetto, e farò che moltiplichi e s’accresca grandissimamente. Egli genererà
dodici principi, e io farà di lui una grande nazione».
Ismaele è morto all’età di 137 anni ed è stato seppellito. Notiamo che non viene
detto che egli sia stato messo nella spelonca di Macpela, poiché
quest’appezzamento di terra doveva essere un simbolo di speranza per il popolo
della promessa. La terra di Canaan non doveva essere il possesso d’Ismaele né
dei suoi discendenti. Di lui viene detto: «E i suoi figli abitarono da Havila
fino a Shur, ch’è dirimpetto all’Egitto, andando verso l’Assiria. Egli si
stabilì di faccia a tutti i suoi fratelli» (Gn 25,18). Questo verso dimostra
l’adempimento della promessa fatta molti anni prima a Agar (Gn 16,12).
I discendenti d’Isacco (25,19-26)
Il processo d’elezione è stato finora evidente. Dio ha scelto Sara, non Agar o
Ketura, per essere la madre del figlio della promessa. Dio ha scelto Isacco
prima ancora che nascesse per essere l’erede d’Abrahamo. Mentre Abrahamo ha
avuto varie mogli e molti figli, solo Isacco doveva essere quello cui sarebbero
andate le benedizioni promesse. Nei versi 19-26 vediamo che il processo
d’elezione continua. Qui è Giacobbe che viene designato come il figlio della
promessa e non Esaù, il suo fratello gemello, che per diritto di nascita doveva
essere l’erede naturale.
Isacco ha sposato Rebecca, la quale, durante la gravidanza era perplessa per le
inusuali lotte che avvenivano nel suo grembo, e così decise di consultare Dio.
La risposta: «E l’Eterno le disse: “Due nazioni sono nel tuo seno, e due
popoli separati usciranno dalle tue viscere. Uno dei due popoli sarà più forte
dell’altro e il maggiore servirà il minore”» (Gn 25,23).
Senza tutte le sofisticate attrezzature mediche usate oggi, Dio ha informato
Rebecca che lei avrebbe dato alla luce due gemelli. Ognuno di loro avrebbe dato
origine a un popolo, ma uno avrebbe trionfato sull’altro. La stranezza era che
non sarebbe stato il primogenito a prevalere. Normalmente, era il figlio
primogenito l’erede a cui sarebbero dovute passare le maggiori benedizioni.
Questa predizione è stata molto significativa non solo per Rebecca, ma anche per
i cristiani d’oggi perché indica il principio dell’elezione divina. Prima della
loro nascita, Dio decise che sarebbe stato il figlio più giovane a essere
l’erede d’Isacco per quanto riguarda le promesse del patto.
In Rm 9 l’apostolo Paolo si è riferito a questo fatto per descrivere il
principio dell’elezione: «Non solo; ma anche a Rebecca avvenne la medesima
cosa quand’ebbe concepito da uno stesso uomo, vale a dire Isacco nostro padre,
due gemelli; poiché,
prima che fossero nati e che avessero fatto alcun che di bene o di male,
affinché rimanesse fermo il proponimento dell’elezione di Dio, che dipende non
dalle opere ma dalla volontà di colui che chiama, le fu detto: “Il
maggiore servirà al minore”» (Rm 9,10ss).
Mentre dobbiamo riconoscere che Dio nella sua onniscienza conosceva tutte le
opere di questi due figli, Paolo dice che la scelta di Giacobbe non aveva niente
a che fare con il loro comportamento. Giacobbe è stato scelto sin dal grembo
materno prima che facesse alcun che di bene o di male. In altre parole,
l’elezione di Dio non era basata sulla sua «preconoscenza» come a volte viene
insegnato. La scelta di Dio è stata determinata dalla sua volontà, non dalle
opere d’Esaù e Giacobbe.
Conclusione
Non si può eludere il fatto che questo capitolo insegna il principio
dell’elezione divina individuale. Tra tutti i figli d’Abrahamo, Dio ha scelto
Isacco per essere l’erede della promessa, e questo prima ancora che egli
nascesse (Gn 17,21). Isacco, non Ismaele, né Zimran, né Jokshan, né Medan, né
qualunque altro figlio d’Abrahamo doveva essere l’erede della promessa. Sara,
non Agar, né Ketura, doveva essere la madre di questo bambino.
La scelta di Dio non è stata determinata dalla sua conoscenza delle buone opere
che queste persone avrebbero compiuto nel futuro. Giacobbe è stato scelto prima
della sua nascita e prima che avesse fatto alcun che di bene o di male (Rm
9,11). Questa è pura grazia.
Alcuni concludono da questo fatto che quelli che non sono stati eletti sono
perduti per sempre perché Dio non li ha scelti. C’è, naturalmente, una certa
verità in questa dichiarazione (cfr. Pr 16,4; Ap 17,17). Ma mentre l’elezione a
salvezza non dipende dai meriti umani, la dannazione eterna dipende dal
comportamento umano. Gli uomini non vengono condannati perché Dio non li ha
scelti, ma perché essi non hanno scelto Dio.
Questa verità è precisamente quella che viene sottolineata nel cap. 25 della
Genesi. In tutto il capitolo il principio dell’elezione è evidente; tuttavia,
alla fine ci viene detto che Esaù ha venduto il suo diritto di primogenitura,
non perché Dio lo aveva predestinato a farlo, ma perché «Esaù sprezzò la
primogenitura» (v. 34).
Dio ha sovranamente scelto Israele, ma dopo averlo fatto e liberato dall’Egitto
lo ha messo di fronte a due strade, quella del bene e quella del male e poi gli
ha detto: Scegli! Grande è la responsabilità umana, ma ancora più grande è la
sovranità di Dio e l’uomo non può opporsi a essa. Isacco sicuramente conosceva
la predizione riguardo la nascita dei suoi due figli, eppure era sua intenzione
di benedire Esaù contrariamente alla volontà di Dio. Abrahamo dal canto suo ha
cercato di convincere Dio a scegliere Ismaele come erede della promessa (Gn
17,18s).
Giacobbe imparò molto bene questa lezione e non commise gli errori dei suoi
padri, quando nei suoi ultimi giorni ha benedetto i figli di Giuseppe. Giuseppe
mette i suoi due figli, Manasse e Efraim davanti a Giacobbe, il primogenito
dalla parte destra e il secondogenito dalla parte sinistra. Giacobbe, tuttavia,
incrocia le mani in modo che con la destra benedice Efraim. Giuseppe pensava che
il padre aveva commesso un errore dovuto alla cecità e tentò di correggere
«l’errore». Ma Giacobbe gli ha detto che non era stato un errore, ma che il
figlio più piccolo sarebbe stato più grande (Gn 48,8-20). Giacobbe aveva capito
e accettato il fatto che l’elezione di Dio non segue necessariamente le
convenzioni umane.
2. Osservazioni sul tema dell’elezione
{Nicola Martella}
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Le
riflessioni di Argentino contengono molti punti apprezzabili e accettabili.
Specialmente la fine della conclusione mi trova perfettamente concorde. Qui di
seguito aggiungo alcune riflessioni, per certi aspetti complementari. In certi
casi mi limito a fare solo delle domande di riscontro e delle riflessioni.
■ L’elezione, essendo stata rivolta ad Abramo e a
tutta la sua discendenza, aveva a che fare col piano di Dio nella storia,
non con la salvezza del singolo discendente di Abramo.
■ Visto che Isacco fu eletto come detentore delle promesse di Dio, rivolte ad
Abramo e alla sua progenie, escludeva ciò dalla salvezza Ismaele, i figli di
Ketura e le loro rispettive discendenze?
■ La scelta di Giacobbe (e della sua discendenza) come detentore delle promesse
di Dio escludeva dalla salvezza Esaù e la sua discendenza?
■ La nostra cultura individualistica di gente occidentale come ci rende
difficili comprendere una cultura orientale e, quindi, una elezione collettiva
che prescinda dalla salvezza individuale? Si noti che a distanza di secoli Dio
parlò di Giacobbe / Israele e di Esaù / Edom sia come individui, sia come
collettività (rappresentate dai capostipiti e derivate da loro). «Esaù, tuo
fratello» era l’individuo storicamente esistente (Gn 27,6.11.42; 32,6;
35,1). Ma essi erano anche le rispettive collettività che rappresentavano. Nel
1444 a.C. circa avvenne che «Mosè mandò da Kadeš degli ambasciatori al re di
Edom per dirgli: “Così dice
Israele tuo fratello: Tu sai tutte le tribolazioni che ci sono avvenute:
15 come i nostri padri scesero in Egitto e noi in Egitto dimorammo per lungo
tempo e gli Egiziani maltrattarono noi e i nostri padri…» (Nu 20,14s).
Ancora al tempo di Abdia (9° sec. a.C.), Dio si rivolse a Edom con queste
parole: «A motivo della violenza fatta al
tuo fratello Giacobbe, tu sarai coperto d’onta e sarai sterminato per
sempre… Ah! non ti pascere lo sguardo del giorno del
tuo fratello, del giorno della sua sventura» (Ab 1,10.12).
■ La scelta sovrana di Dio a favore di Giacobbe e non di Esaù (Rm 9,10ss) non ha
di per sé, né testualmente né direttamente, alcuna rilevanza per la salvezza dei
due. Non bisogna neppure dimenticare l’aspetto collettivo che i due personaggi
rappresentavano: Dio ha scelto Israele per suo popolo, non Edom; gli Edomiti
potevano aderire al patto e elle promesse solo mediante Israele. Ciò che vengono
disapprovate nella vita dei due patriarchi sono le scelte degli uomini: Giacobbe
era un ingannatore (Gn 27,36) ed Esaù era mondano (Gn 26,34). Ciò che
differenziò i due fratelli fu la scelta rispetto al patto divino dato ai padri e
alle promesse divine: Giacobbe s’impegno personalmente (Gn 28,20ss), mentre Esaù
fu «profano» (Eb 12,16s).
■ Quando si parla di elezione e la si associa ai brani biblici, bisogna stare
molto attenti a non proiettare gli atteggiamenti individualistici occidentali
nella questione e nei testi. Nella mentalità orientale Isacco sta per la sua
casa e la sua discendenza. Così avviene anche con Giacobbe, la cui discendenza
porta il nome ricevuto dal patriarca durante la stipula del patto: Israele. I
suoi discendenti sono i «figli d’Israele», quindi «Israele». Nella scelta di
Isacco e di Giacobbe / Israele si trattava non della salvezza individuale, ma
del fatto di essere detentori della titolarità delle promesse divine e
trasmettitori d’esse mediante la propria discendenza. L’elezione dei singoli
anelli della catena doveva portare a Israele, il popolo del patto. Quindi
l’elezione è collettiva, poiché nella scelta di una persona, Dio sceglieva
parimenti tutta la sua discendenza.
■ Secondo tale mentalità orientale, Paolo poté ad esempio dire che quando Adamo
peccò, tutti peccarono (Rm 5,12.18s); infatti, Adamo era tutta l’umanità. Già
Mosè però riportò così le parole di Dio, rivolte al serpente: «E io porrò
inimicizia fra
te e la
donna, e fra la
tua progenie e la
sua progenie…» (Gn 3,15).
Per questi motivi, gli atti di giustizia del capostipite coinvolgevano nella
benedizione tutta la discendenza (cfr. Nu 25,10ss); al contrario, gli atti
d’iniquità coinvolgevano nella pena la propria famiglia e il proprio casato
(Datan, Abiram, Kore Nu 16,27.32ss; Achan Gs 7,24; Ghehazi 2 Re 5,27). Questo
aspetto si può ritrovare anche nell’argomentazione dell’autore dell’epistola
agli Ebrei, secondo cui il sacerdozio di Melchisedek è superiore a quello di
Levi, poiché quando Abramo diede la decima a Melchisedek, la diede praticamente
Levi stesso, sebbene non fosse ancora nato (Eb 7,1.9s). Questa è
un’argomentazione estranea al pensiero occidentale!
■ L’aspetto collettivo nell’elezione è importante che venga tenuto presente, per
non uscire fuori dei binari della teologia biblica e per non entrare in quelli
fatali di una dogmatica partigiana. Un capostipite quale persona eletta da Dio
stava sempre, allo stesso tempo, per sé e la sua discendenza, nel bene e nel
male. Il patto della circoncisione, suggello dell’elezione divina, coinvolgeva
Abramo e la sua discendenza: «Quanto a te,
tu osserverai il mio patto:
tu e la tua progenie dopo di te,
di generazione in generazione» (Gn 17,9ss). Ciò vale anche per il giuramento
incondizionato di Dio in seguito all’atto di ubbidienza di Abramo: «E tutte
le nazioni della terra saranno benedette nella
tua progenie, perché
tu hai ubbidito alla mia voce»
(Gn 22,18). Quando Isacco benedisse Giacobbe, si riallacciò alle promesse
abramitiche: «E il Dio onnipotente ti
benedica, ti renda fecondo e
ti moltiplichi, in modo che
tu diventi un’assemblea di popoli,
4e ti dia la
benedizione d’Abrahamo: a te, e
alla tua progenie con te; affinché
tu possegga il paese dove sei
andato peregrinando, e che Dio donò ad Abrahamo» (Gn 28,3s). Quando Dio si
presentò a Giacobbe, chiamandolo, fece la stessa cosa, riallacciandosi ad Abramo
e creando una diretta connessione fra Giacobbe e la sua discendenza: «Io sono
l’Eterno, il Dio d’Abrahamo tuo padre e il Dio d’Isacco; la terra sulla quale tu
stai coricato, io la darò a te e
alla tua progenie; 14e
la tua progenie sarà come la
polvere della terra, e tu ti
estenderai ad occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzodì; e tutte le
famiglie della terra saranno benedette in
te e nella tua progenie»
(Gn 28,13s). Questa connessione fu ricordata anche al tempo dell’esodo e della
migrazione verso Canaan (Es 33,1; Dt 34,4).
L’identificazione fra un patriarca e la sua discendenza va fino al punto che
l’uno sta per l’altro: «Tu dunque, o
Giacobbe, mio servitore, non
temere, dice l’Eterno; non ti sgomentare, o
Israele; poiché, ecco, io
ti salverò dal lontano paese,
salverò la tua progenie dalla
terra della sua cattività; Giacobbe
ritornerà, sarà in riposo, sarà tranquillo, e nessuno più lo spaventerà» (Gr
30,10; 46,27).
[Cfr. Gn 13,15.17; 17,7-10; 24,7.60; 26,3ss; 32,12; 35,10ss; 48,4; Dt 30,6.19;
cfr. anche
Nu 18,19; 2 Sm 7,12; 2 Re 5,27; 1 Cr 17,11; Is 54,3; 59,21.]
■ Si noti che nella storia patriarcale (anzi in tutto l’AT) i termini eleggere,
elezione, eletto e derivati non hanno mai a che fare con salvezza, salvare,
redimere, redenzione, riscattare, riscatto e derivati. I brani citati (Pr 16,4;
Ap 17,17) non aggiungono nulla a ciò, non parlando di salvezza, ma di sventura
(Pr 16,4) e del disegno divino nella storia (Ap 17,17).
■ Si noti che sebbene tutti gli Israeliti appartenessero al popolo eletto (Is
43,20), non tutti erano salvati, essendoci nel suo seno giusti ed empi. Non
bastava essere circoncisi ed essere così connessi alle benedizioni e alle
promesse di Dio fatte ad Abramo, ma a un certo punto della vita bisognava anche
decidersi per il timor di Dio o contro d’esso, a entrare personalmente nel patto
o avversarlo. Non è un caso che i salmisti, quali persone timorate di Dio e
destinatari della sua giustizia, erano avversati dagli empi, i quali erano
anch’essi Israeliti! (cfr. Sal 22,12s.16; 59,6). Per questo i profeti parlarono
sempre del «resto [fedele]» (2 Cr 30,6; Esd 9,13ss; Is 1,9; 10,20ss; 11,11.16;
37,4; 37,31s; 41,14; 46,3; Gr 8,3 residuo che rimarrà di questa razza malvagia;
31,7; Ez 6,8; 14,22; Mi 7,18; Sf 3,13; cfr. Rm 11,5.7).
■ Gli unici brani in tutta la Bibbia in cui eleggere e salvezza stanno
insieme sono i seguenti. «Dio fin dal principio vi ha eletti a salvezza
mediante la santificazione nello Spirito e la fede nella verità» (2 Ts
2,13); si noti qui l’azione dello Spirito e la fede del credente riguardo alla
salvezza. «Io sopporto ogni cosa a causa degli eletti, affinché anch’essi
conseguano la salvezza che è in Cristo Gesù con gloria eterna» (2 Tm 2,10);
si noti anche qui l’aspetto collettivo e non individualistico (eletti); si noti
anche i patimenti dell’apostolo perché essi conseguano
la salvezza: l’elezione non dà automaticamente la salvezza, essa dev’essere
conseguita. L’elezione è il piano salvifico di Dio a favore degli uomini nel
loro complesso (Gv 3,16 mondo; 1 Tm 2,4 tutti gli uomini); ma a esso bisogna
rispondere con la fede (Gv 3,16 chiunque crede), entrando personalmente nel
nuovo patto. La salvezza può anche entrare in una casa o famiglia (aspetto
collettivo; Lc 19,9), ma dev’essere poi accettata individualmente e vale solo
per chi lo fa (At 16,31-34).
È vero che «il marito non credente è santificato nella moglie, e la moglie
non credente è santificata nel marito credente»; ed è vero che i figli di
una tale coppia mista non sono «impuri» ma «santi» (1 Cor 7,14). Ma tale
coniuge, se rimane «non credente» rispetto a Gesù quale Messia, rimane perciò
perduto, sia egli Giudeo o Gentile. Essere «santificato» nel coniuge credente o
essere «santo» a causa del genitore credente, chiaramente non basta: non basta
essere dinanzi a Dio in un ambito privilegiato, a causa della fede di un parente
stretto, di cui si condivide il tetto, ma bisogna entrare personalmente nel
nuovo patto!
Il più grande apparente paradosso rispetto alla salvezza è appartenere al
«popolo eletto», Israele, ed essere nonostante ciò perduto, rifiutando Gesù
quale Messia-Re e Salvatore! Come si vede elezione e salvezza non sono
coincidenti! Paolo formulò tale paradosso come segue: «Per quanto concerne
l’Evangelo, essi sono nemici
per via di voi; ma per quanto concerne
l’elezione, sono
amati per via dei loro padri;
29perché i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento» (Rm
11,28). Come si vede, come Giudeo si può essere in connessione con l’elezione e
amato da Dio, destinatario dei «doni e della vocazione di Dio», ma lo stesso si
è perduto rifiutando l’Evangelo! Si può essere quali circoncisi i detentori
della «cittadinanza d’Israele» e i destinatari dei «patti della promessa», e non
avere lo stesso alcuna «speranza» e rimanere «senza Dio nel mondo», avendo
rifiutato Gesù quale Cristo e il suo sangue quale prezzo di riscatto (Ef
2,11ss). Questo è l’apparente paradosso dell’elezione. Infatti l’elezione è il
piano di Dio per la salvezza d’Israele (AT) e del mondo (NT), ma perché si
concretizzi, bisogna entrare personalmente nel nuovo patto, accettando il dono
di Dio.
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A2-Elezione_riflessioni_Esc.htm
05-09-2007; Aggiornamento: