Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Escatologia 1

 

Calvinismo

 

 

 

 

Questa opera contiene senz’altro alcune novità. Leggendo i brani escatologici della Bibbia sorgono vari interrogativi, ad esempio i seguenti:
■ I credenti, quando muoiono, vanno in cielo o in paradiso?
■ I morti nell’aldilà sono solo inattivi o anche incoscienti?
■ I bimbi morti dove vanno?
■ Se nessuno sa il giorno e l’ora dell’avvento del Messia, perché diversi cristiani hanno fatto predizioni circostanziate per il loro futuro imminente?
■ Qual è la differenza fra escatologia e utopia?
■ In che cosa si differenzia la speranza biblica dalla speranza secolarizzata di alcuni marxisti?
■ Il «rapimento» precederà o seguirà la tribolazione finale?
■ Quando risusciteranno i credenti dell’AT?
■ Il regno millenario è concreto o solo spirituale?
■ Durante il suo regno futuro col Messia regnerà sono Israele o anche la chiesa?
■ Nella nuova creazione i credenti abiteranno in cielo o sulla nuova terra?
■ Lo stagno di fuoco esisterà per sempre?
■ I morti si riconoscono nell’aldilà?
■ Non sarà noioso vivere nel nuovo mondo?
■ Ci sarà il tempo nel nuovo mondo?
■ Ci sarà il matrimonio nel nuovo mondo?
■ Eccetera...

 

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Escatologia 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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RIFLESSIONI SULL’ELEZIONE DIVINA

 

 di Argentino Quintavalle - Nicola Martella

 

 

Argentino Quintavalle ha preso spunto da un articolo di Nicola Berretta [► La predestinazione dell’individuo, figlia d’una cultura umanistica] per formulare il seguente tema sull’elezione divina. Egli prende spunto dai fatti narrati in Genesi 25 per poi collegarli direttamente alle asserzioni di Paolo in 9,10ss. È certamente un articolo interessante, degno di riflessione.

     Nicola Martella prende l’occasione per formulare alcune osservazioni, domande e riflessioni sul tema dell’elezione divina. Egli evidenzia soprattutto gli aspetti collettivi, mostrando che l’elezione è soprattutto il piano divino per il suo popolo Israele e per l’umanità intera, secondo il proponimento divino: «E tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua discendenza» (Gn 28,14; cfr. 12,3).

     Vale la pena che il lettore legga ambedue le parti, per approfondire così la questione, farsi un quadro della complessa problematica e crearsi delle convinzioni aderenti alla sacra Scrittura, rifuggendo perciò sia da polarizzazioni dogmatiche unilaterali, sia da artificiose e ingannevoli sintesi. L’elezione divina rimane un mistero; razionalizzarlo non lo rende per forza più comprensibile.

     Paolo affermò: «A me, dico, che sono da meno del minimo di tutti i santi, è stata data questa grazia di recare ai Gentili il buon annunzio delle non investigabili ricchezze di Cristo, 9e di manifestare a tutti quale sia il piano seguito da Dio riguardo al mistero che è stato fin dalle più remote età nascosto in Dio, il Creatore di tutte le cose, 10affinché nel tempo presente, ai principati e alle potestà, nei luoghi celesti, sia data a conoscere, per mezzo della Chiesa, la infinitamente varia sapienza di Dio, 11conforme al proponimento eterno che Egli ha mandato a effetto nel nostro Signore, Cristo Gesù; 12nel quale abbiamo la libertà d’accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui» (Ef 3,8-12). Come si vede, è un «mistero» che si può ora conoscere, sebbene sia stato nascosto lungamente in Dio, e ciò riguarda il suo «piano», ossia il «proponimento eterno» mandato a effetto nel tempo, ossia nella persona del Messia Gesù. Il paradosso apparente sta nel fatto che esiste un «buon annunzio» e che esso concerne le «non investigabili ricchezze di Cristo». Il piano misterioso di Dio, sebbene svelato negli aspetti concernenti la salvezza, mantiene aspetti sostanziali che la ragione non può investigare: Cristo stesso rimane tale «ricchezza» misteriosa, conservata nei forzieri divini e sottratta perciò agli sguardi e alle analisi degli uomini.

 

 

1. Il principio dell’elezione divina (Gn 25) {A. Quintavalle}

 

Introduzione

     Nel Talmud (Berachot 33b) è scritto: «Tutto è nelle mani del Cielo, tranne che il timore del Cielo». La «conditio sine qua non» dell’esistenza umana è la libertà di poter scegliere tra il bene e il male. Dio ci lascia liberi di temerlo o meno, ma ci chiede di temerlo. È la limitazione che Dio si dà creando il mondo: lasciare all’uomo di poter decidere se seguire la sua via oppure no. Contro questa verità si staglia maestosa, come una antinomia, il concetto dell’elezione divina.

     Come l’idrogeno e l’ossigeno solo quando sono uniti insieme nella dovuta maniera formano l’acqua, altrimenti sono pericolosi, così lo è di queste due verità se le teniamo separate. Uno dei passi migliori del Vecchio Testamento che rende chiara l’idea dell’elezione si trova in Genesi 25. Posso dire questo con tutta fiducia, poiché l’apostolo Paolo si è servito d’alcuni eventi di questo capitolo per illustrare la dottrina dell’elezione divina in Rm 9.

 

La morte d’Abrahamo e i suoi discendenti (Gn 25,1-11)

     Nel primo verso leggiamo che «Abrahamo prese un’altra moglie, per nome Ketura», dalla quali ebbe molti figli che originarono altrettante nazioni, secondo la promessa fatta in Gn 17,4: «Tu diverrai padre d’una moltitudine di nazioni».

     Benché Abrahamo fosse morto, gli scopi e le promesse di Dio erano sempre attivi. Nel v. 11 ci viene ricordata questa verità: «E dopo la morte d’Abrahamo, Dio benedisse Isacco figlio di lui».

     È attraverso Isacco che le promesse del patto dovevano essere portate avanti. L’opera di Dio continua, anche quando i santi passano. Il testimone è passato da padre in figlio, da Abrahamo a Isacco.

 

La morte d’Ismaele e i suoi discendenti (25,12-18)

     Questa parte della Genesi dimostra la realizzazione della promessa di Dio fatta a Abrahamo in Gn 17,20: «Quanto a Ismaele, io t’ho esaudito. Ecco, io l’ho benedetto, e farò che moltiplichi e s’accresca grandissimamente. Egli genererà dodici principi, e io farà di lui una grande nazione».

     Ismaele è morto all’età di 137 anni ed è stato seppellito. Notiamo che non viene detto che egli sia stato messo nella spelonca di Macpela, poiché quest’appezzamento di terra doveva essere un simbolo di speranza per il popolo della promessa. La terra di Canaan non doveva essere il possesso d’Ismaele né dei suoi discendenti. Di lui viene detto: «E i suoi figli abitarono da Havila fino a Shur, ch’è dirimpetto all’Egitto, andando verso l’Assiria. Egli si stabilì di faccia a tutti i suoi fratelli» (Gn 25,18). Questo verso dimostra l’adempimento della promessa fatta molti anni prima a Agar (Gn 16,12).

 

I discendenti d’Isacco (25,19-26)

     Il processo d’elezione è stato finora evidente. Dio ha scelto Sara, non Agar o Ketura, per essere la madre del figlio della promessa. Dio ha scelto Isacco prima ancora che nascesse per essere l’erede d’Abrahamo. Mentre Abrahamo ha avuto varie mogli e molti figli, solo Isacco doveva essere quello cui sarebbero andate le benedizioni promesse. Nei versi 19-26 vediamo che il processo d’elezione continua. Qui è Giacobbe che viene designato come il figlio della promessa e non Esaù, il suo fratello gemello, che per diritto di nascita doveva essere l’erede naturale.

     Isacco ha sposato Rebecca, la quale, durante la gravidanza era perplessa per le inusuali lotte che avvenivano nel suo grembo, e così decise di consultare Dio. La risposta: «E l’Eterno le disse: “Due nazioni sono nel tuo seno, e due popoli separati usciranno dalle tue viscere. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il minore”» (Gn 25,23).

     Senza tutte le sofisticate attrezzature mediche usate oggi, Dio ha informato Rebecca che lei avrebbe dato alla luce due gemelli. Ognuno di loro avrebbe dato origine a un popolo, ma uno avrebbe trionfato sull’altro. La stranezza era che non sarebbe stato il primogenito a prevalere. Normalmente, era il figlio primogenito l’erede a cui sarebbero dovute passare le maggiori benedizioni.

     Questa predizione è stata molto significativa non solo per Rebecca, ma anche per i cristiani d’oggi perché indica il principio dell’elezione divina. Prima della loro nascita, Dio decise che sarebbe stato il figlio più giovane a essere l’erede d’Isacco per quanto riguarda le promesse del patto.

     In Rm 9 l’apostolo Paolo si è riferito a questo fatto per descrivere il principio dell’elezione: «Non solo; ma anche a Rebecca avvenne la medesima cosa quand’ebbe concepito da uno stesso uomo, vale a dire Isacco nostro padre, due gemelli; poiché, prima che fossero nati e che avessero fatto alcun che di bene o di male, affinché rimanesse fermo il proponimento dell’elezione di Dio, che dipende non dalle opere ma dalla volontà di colui che chiama, le fu detto: “Il maggiore servirà al minore”» (Rm 9,10ss).

     Mentre dobbiamo riconoscere che Dio nella sua onniscienza conosceva tutte le opere di questi due figli, Paolo dice che la scelta di Giacobbe non aveva niente a che fare con il loro comportamento. Giacobbe è stato scelto sin dal grembo materno prima che facesse alcun che di bene o di male. In altre parole, l’elezione di Dio non era basata sulla sua «preconoscenza» come a volte viene insegnato. La scelta di Dio è stata determinata dalla sua volontà, non dalle opere d’Esaù e Giacobbe.

 

Conclusione

     Non si può eludere il fatto che questo capitolo insegna il principio dell’elezione divina individuale. Tra tutti i figli d’Abrahamo, Dio ha scelto Isacco per essere l’erede della promessa, e questo prima ancora che egli nascesse (Gn 17,21). Isacco, non Ismaele, né Zimran, né Jokshan, né Medan, né qualunque altro figlio d’Abrahamo doveva essere l’erede della promessa. Sara, non Agar, né Ketura, doveva essere la madre di questo bambino.

     La scelta di Dio non è stata determinata dalla sua conoscenza delle buone opere che queste persone avrebbero compiuto nel futuro. Giacobbe è stato scelto prima della sua nascita e prima che avesse fatto alcun che di bene o di male (Rm 9,11). Questa è pura grazia.

     Alcuni concludono da questo fatto che quelli che non sono stati eletti sono perduti per sempre perché Dio non li ha scelti. C’è, naturalmente, una certa verità in questa dichiarazione (cfr. Pr 16,4; Ap 17,17). Ma mentre l’elezione a salvezza non dipende dai meriti umani, la dannazione eterna dipende dal comportamento umano. Gli uomini non vengono condannati perché Dio non li ha scelti, ma perché essi non hanno scelto Dio.

     Questa verità è precisamente quella che viene sottolineata nel cap. 25 della Genesi. In tutto il capitolo il principio dell’elezione è evidente; tuttavia, alla fine ci viene detto che Esaù ha venduto il suo diritto di primogenitura, non perché Dio lo aveva predestinato a farlo, ma perché «Esaù sprezzò la primogenitura» (v. 34).

     Dio ha sovranamente scelto Israele, ma dopo averlo fatto e liberato dall’Egitto lo ha messo di fronte a due strade, quella del bene e quella del male e poi gli ha detto: Scegli! Grande è la responsabilità umana, ma ancora più grande è la sovranità di Dio e l’uomo non può opporsi a essa. Isacco sicuramente conosceva la predizione riguardo la nascita dei suoi due figli, eppure era sua intenzione di benedire Esaù contrariamente alla volontà di Dio. Abrahamo dal canto suo ha cercato di convincere Dio a scegliere Ismaele come erede della promessa (Gn 17,18s).

     Giacobbe imparò molto bene questa lezione e non commise gli errori dei suoi padri, quando nei suoi ultimi giorni ha benedetto i figli di Giuseppe. Giuseppe mette i suoi due figli, Manasse e Efraim davanti a Giacobbe, il primogenito dalla parte destra e il secondogenito dalla parte sinistra. Giacobbe, tuttavia, incrocia le mani in modo che con la destra benedice Efraim. Giuseppe pensava che il padre aveva commesso un errore dovuto alla cecità e tentò di correggere «l’errore». Ma Giacobbe gli ha detto che non era stato un errore, ma che il figlio più piccolo sarebbe stato più grande (Gn 48,8-20). Giacobbe aveva capito e accettato il fatto che l’elezione di Dio non segue necessariamente le convenzioni umane.

 

 

2. Osservazioni sul tema dell’elezione {Nicola Martella}

 

Le riflessioni di Argentino contengono molti punti apprezzabili e accettabili. Specialmente la fine della conclusione mi trova perfettamente concorde. Qui di seguito aggiungo alcune riflessioni, per certi aspetti complementari. In certi casi mi limito a fare solo delle domande di riscontro e delle riflessioni.

 

     ■ L’elezione, essendo stata rivolta ad Abramo e a tutta la sua discendenza, aveva a che fare col piano di Dio nella storia, non con la salvezza del singolo discendente di Abramo.

     ■ Visto che Isacco fu eletto come detentore delle promesse di Dio, rivolte ad Abramo e alla sua progenie, escludeva ciò dalla salvezza Ismaele, i figli di Ketura e le loro rispettive discendenze?

     ■ La scelta di Giacobbe (e della sua discendenza) come detentore delle promesse di Dio escludeva dalla salvezza Esaù e la sua discendenza?

     ■ La nostra cultura individualistica di gente occidentale come ci rende difficili comprendere una cultura orientale e, quindi, una elezione collettiva che prescinda dalla salvezza individuale? Si noti che a distanza di secoli Dio parlò di Giacobbe / Israele e di Esaù / Edom sia come individui, sia come collettività (rappresentate dai capostipiti e derivate da loro). «Esaù, tuo fratello» era l’individuo storicamente esistente (Gn 27,6.11.42; 32,6; 35,1). Ma essi erano anche le rispettive collettività che rappresentavano. Nel 1444 a.C. circa avvenne che «Mosè mandò da Kadeš degli ambasciatori al re di Edom per dirgli: “Così dice Israele tuo fratello: Tu sai tutte le tribolazioni che ci sono avvenute: 15 come i nostri padri scesero in Egitto e noi in Egitto dimorammo per lungo tempo e gli Egiziani maltrattarono noi e i nostri padri…» (Nu 20,14s). Ancora al tempo di Abdia (9° sec. a.C.), Dio si rivolse a Edom con queste parole: «A motivo della violenza fatta al tuo fratello Giacobbe, tu sarai coperto d’onta e sarai sterminato per sempre… Ah! non ti pascere lo sguardo del giorno del tuo fratello, del giorno della sua sventura» (Ab 1,10.12).

     ■ La scelta sovrana di Dio a favore di Giacobbe e non di Esaù (Rm 9,10ss) non ha di per sé, né testualmente né direttamente, alcuna rilevanza per la salvezza dei due. Non bisogna neppure dimenticare l’aspetto collettivo che i due personaggi rappresentavano: Dio ha scelto Israele per suo popolo, non Edom; gli Edomiti potevano aderire al patto e elle promesse solo mediante Israele. Ciò che vengono disapprovate nella vita dei due patriarchi sono le scelte degli uomini: Giacobbe era un ingannatore (Gn 27,36) ed Esaù era mondano (Gn 26,34). Ciò che differenziò i due fratelli fu la scelta rispetto al patto divino dato ai padri e alle promesse divine: Giacobbe s’impegno personalmente (Gn 28,20ss), mentre Esaù fu «profano» (Eb 12,16s).

     ■ Quando si parla di elezione e la si associa ai brani biblici, bisogna stare molto attenti a non proiettare gli atteggiamenti individualistici occidentali nella questione e nei testi. Nella mentalità orientale Isacco sta per la sua casa e la sua discendenza. Così avviene anche con Giacobbe, la cui discendenza porta il nome ricevuto dal patriarca durante la stipula del patto: Israele. I suoi discendenti sono i «figli d’Israele», quindi «Israele». Nella scelta di Isacco e di Giacobbe / Israele si trattava non della salvezza individuale, ma del fatto di essere detentori della titolarità delle promesse divine e trasmettitori d’esse mediante la propria discendenza. L’elezione dei singoli anelli della catena doveva portare a Israele, il popolo del patto. Quindi l’elezione è collettiva, poiché nella scelta di una persona, Dio sceglieva parimenti tutta la sua discendenza.

     ■ Secondo tale mentalità orientale, Paolo poté ad esempio dire che quando Adamo peccò, tutti peccarono (Rm 5,12.18s); infatti, Adamo era tutta l’umanità. Già Mosè però riportò così le parole di Dio, rivolte al serpente: «E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie…» (Gn 3,15).

     Per questi motivi, gli atti di giustizia del capostipite coinvolgevano nella benedizione tutta la discendenza (cfr. Nu 25,10ss); al contrario, gli atti d’iniquità coinvolgevano nella pena la propria famiglia e il proprio casato (Datan, Abiram, Kore Nu 16,27.32ss; Achan Gs 7,24; Ghehazi 2 Re 5,27). Questo aspetto si può ritrovare anche nell’argomentazione dell’autore dell’epistola agli Ebrei, secondo cui il sacerdozio di Melchisedek è superiore a quello di Levi, poiché quando Abramo diede la decima a Melchisedek, la diede praticamente Levi stesso, sebbene non fosse ancora nato (Eb 7,1.9s). Questa è un’argomentazione estranea al pensiero occidentale!

     ■ L’aspetto collettivo nell’elezione è importante che venga tenuto presente, per non uscire fuori dei binari della teologia biblica e per non entrare in quelli fatali di una dogmatica partigiana. Un capostipite quale persona eletta da Dio stava sempre, allo stesso tempo, per sé e la sua discendenza, nel bene e nel male. Il patto della circoncisione, suggello dell’elezione divina, coinvolgeva Abramo e la sua discendenza: «Quanto a te, tu osserverai il mio patto: tu e la tua progenie dopo di te, di generazione in generazione» (Gn 17,9ss). Ciò vale anche per il giuramento incondizionato di Dio in seguito all’atto di ubbidienza di Abramo: «E tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua progenie, perché tu hai ubbidito alla mia voce» (Gn 22,18). Quando Isacco benedisse Giacobbe, si riallacciò alle promesse abramitiche: «E il Dio onnipotente ti benedica, ti renda fecondo e ti moltiplichi, in modo che tu diventi un’assemblea di popoli, 4e ti dia la benedizione d’Abrahamo: a te, e alla tua progenie con te; affinché tu possegga il paese dove sei andato peregrinando, e che Dio donò ad Abrahamo» (Gn 28,3s). Quando Dio si presentò a Giacobbe, chiamandolo, fece la stessa cosa, riallacciandosi ad Abramo e creando una diretta connessione fra Giacobbe e la sua discendenza: «Io sono l’Eterno, il Dio d’Abrahamo tuo padre e il Dio d’Isacco; la terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua progenie; 14e la tua progenie sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai ad occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzodì; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua progenie» (Gn 28,13s). Questa connessione fu ricordata anche al tempo dell’esodo e della migrazione verso Canaan (Es 33,1; Dt 34,4).

     L’identificazione fra un patriarca e la sua discendenza va fino al punto che l’uno sta per l’altro: «Tu dunque, o Giacobbe, mio servitore, non temere, dice l’Eterno; non ti sgomentare, o Israele; poiché, ecco, io ti salverò dal lontano paese, salverò la tua progenie dalla terra della sua cattività; Giacobbe ritornerà, sarà in riposo, sarà tranquillo, e nessuno più lo spaventerà» (Gr 30,10; 46,27).

     [Cfr. Gn 13,15.17; 17,7-10; 24,7.60; 26,3ss; 32,12; 35,10ss; 48,4; Dt 30,6.19; cfr. anche Nu 18,19; 2 Sm 7,12; 2 Re 5,27; 1 Cr 17,11; Is 54,3; 59,21.]

     ■ Si noti che nella storia patriarcale (anzi in tutto l’AT) i termini eleggere, elezione, eletto e derivati non hanno mai a che fare con salvezza, salvare, redimere, redenzione, riscattare, riscatto e derivati. I brani citati (Pr 16,4; Ap 17,17) non aggiungono nulla a ciò, non parlando di salvezza, ma di sventura (Pr 16,4) e del disegno divino nella storia (Ap 17,17).

     ■ Si noti che sebbene tutti gli Israeliti appartenessero al popolo eletto (Is 43,20), non tutti erano salvati, essendoci nel suo seno giusti ed empi. Non bastava essere circoncisi ed essere così connessi alle benedizioni e alle promesse di Dio fatte ad Abramo, ma a un certo punto della vita bisognava anche decidersi per il timor di Dio o contro d’esso, a entrare personalmente nel patto o avversarlo. Non è un caso che i salmisti, quali persone timorate di Dio e destinatari della sua giustizia, erano avversati dagli empi, i quali erano anch’essi Israeliti! (cfr. Sal 22,12s.16; 59,6). Per questo i profeti parlarono sempre del «resto [fedele]» (2 Cr 30,6; Esd 9,13ss; Is 1,9; 10,20ss; 11,11.16; 37,4; 37,31s; 41,14; 46,3; Gr 8,3 residuo che rimarrà di questa razza malvagia; 31,7; Ez 6,8; 14,22; Mi 7,18; Sf 3,13; cfr. Rm 11,5.7).

     ■ Gli unici brani in tutta la Bibbia in cui eleggere e salvezza stanno insieme sono i seguenti. «Dio fin dal principio vi ha eletti a salvezza mediante la santificazione nello Spirito e la fede nella verità» (2 Ts 2,13); si noti qui l’azione dello Spirito e la fede del credente riguardo alla salvezza. «Io sopporto ogni cosa a causa degli eletti, affinché anch’essi conseguano la salvezza che è in Cristo Gesù con gloria eterna» (2 Tm 2,10); si noti anche qui l’aspetto collettivo e non individualistico (eletti); si noti anche i patimenti dell’apostolo perché essi conseguano la salvezza: l’elezione non dà automaticamente la salvezza, essa dev’essere conseguita. L’elezione è il piano salvifico di Dio a favore degli uomini nel loro complesso (Gv 3,16 mondo; 1 Tm 2,4 tutti gli uomini); ma a esso bisogna rispondere con la fede (Gv 3,16 chiunque crede), entrando personalmente nel nuovo patto. La salvezza può anche entrare in una casa o famiglia (aspetto collettivo; Lc 19,9), ma dev’essere poi accettata individualmente e vale solo per chi lo fa (At 16,31-34).

     È vero che «il marito non credente è santificato nella moglie, e la moglie non credente è santificata nel marito credente»; ed è vero che i figli di una tale coppia mista non sono «impuri» ma «santi» (1 Cor 7,14). Ma tale coniuge, se rimane «non credente» rispetto a Gesù quale Messia, rimane perciò perduto, sia egli Giudeo o Gentile. Essere «santificato» nel coniuge credente o essere «santo» a causa del genitore credente, chiaramente non basta: non basta essere dinanzi a Dio in un ambito privilegiato, a causa della fede di un parente stretto, di cui si condivide il tetto, ma bisogna entrare personalmente nel nuovo patto!

     Il più grande apparente paradosso rispetto alla salvezza è appartenere al «popolo eletto», Israele, ed essere nonostante ciò perduto, rifiutando Gesù quale Messia-Re e Salvatore! Come si vede elezione e salvezza non sono coincidenti! Paolo formulò tale paradosso come segue: «Per quanto concerne l’Evangelo, essi sono nemici per via di voi; ma per quanto concerne l’elezione, sono amati per via dei loro padri; 29perché i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento» (Rm 11,28). Come si vede, come Giudeo si può essere in connessione con l’elezione e amato da Dio, destinatario dei «doni e della vocazione di Dio», ma lo stesso si è perduto rifiutando l’Evangelo! Si può essere quali circoncisi i detentori della «cittadinanza d’Israele» e i destinatari dei «patti della promessa», e non avere lo stesso alcuna «speranza» e rimanere «senza Dio nel mondo», avendo rifiutato Gesù quale Cristo e il suo sangue quale prezzo di riscatto (Ef 2,11ss). Questo è l’apparente paradosso dell’elezione. Infatti l’elezione è il piano di Dio per la salvezza d’Israele (AT) e del mondo (NT), ma perché si concretizzi, bisogna entrare personalmente nel nuovo patto, accettando il dono di Dio.

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A2-Elezione_riflessioni_Esc.htm

05-09-2007; Aggiornamento:

 

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