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DECODIFICANDO IL «CUORE ARDENTE» DI JOHN BEVERE

La spiritualità carismaticista alla luce delle Scritture

 

 di Tonino Mele

 

Tonino Mele ha già analizzato criticamente un'altra opera di John Bevere, che abbiamo presentato nell'articolo «Così dice John Bevere: A quale spirito si abbevera il "movimento profetico"?», e che abbiamo discusso nel tema «Così dice John Bevere? Parliamone». Qui di seguito segue l'analisi critica del libro di John Bevere «Un cuore ardente» (EUN, 2005). In tal modo risulta maggiormente chiaro il pensiero di questo seguace del cosiddetto «movimento profetico» (esso pretende di praticare ancora il «Così parla Jahwè [l'Eterno o il Signore]») e particolarmente del cosiddetto «movimento di fede» (esso ha della «fede» una concezione di «potenza»). Nel testo sono inserite poche note redazionali esplicative. {Nicola Martella}

 

 

1.  PREMESSE: Nel presente studio ci proponiamo di fare una valutazione biblica del libro di John Bevere «Un cuore ardente», edito da EUN. Esaminare ciò che leggiamo alla luce delle Scritture è sempre importante, perché solo la Scrittura è la rivelazione ultima di Dio per la chiesa e l’uomo. Ma nel caso di John Bevere c’è un altro motivo per cui è importante valutare i suoi scritti. Egli, si presenta come un profeta di Dio per la nostra generazione e molte delle cose che scrive, le espone come una rivelazione diretta di Dio. Secondo il Nuovo Testamento, quando un profeta cercava d’introdurre nella chiesa delle nuove rivelazioni da parte di Dio, «tutta la chiesa riunita» (1 Cor 14,23) aveva l’obbligo di «giudicare» pubblicamente ciò che tali profeti dicevano (1 Cor 14,29). È vero che John Bevere, pur essendo stato assistente di Benny Hinn per circa 10 anni (dal 1980 al 1990) e muovendosi nei circoli del carismatico «Movimento di fede», è una coscienza critica di tale movimento (vedi il suo libro «Così dice il Signore»). [► Così dice John Bevere: A quale spirito si abbevera il «movimento profetico»?]

     Egli si rivolge a tutta la «realtà evangelica», non solo «carismatica» e «pentecostale» (p. 88, 130) ed è anche per questo che dice varie cose condivisibili. I contenuti spirituali delle sue opere sono interessanti e catturano l’attenzione del lettore, anche quello non carismatico. Dice cose che colpiscono l’immaginario evangelico ed è abile nell’usare la Scrittura per suffragare le sue tesi. Prende le questioni da lontano e pian piano t’accompagna con le sue interessanti e originali riflessioni bibliche, ma quando pensi d’avere letto cose condivisibili, ecco che emergono gli insegnamenti carismatici della cosiddetta «terza ondata dello Spirito». Allora, bisogna tornare indietro e capire meglio le premesse da cui è partito, per scoprire così che, questo genere di scrittori dicono in realtà cose diverse da quelle che pensavamo di leggere. Le cose che in un primo momento ci apparivano interessanti e stimolanti hanno bisogno d’essere decodificate, c’è bisogno d’una chiave di lettura che chiarisca cosa intende l’autore per importanti concetti quali la gloria di Dio, la volontà di Dio, la sua guida, il nostro rapporto con Lui, la nostra passione per lui, insomma la nostra vita spirituale.

 

 

2.  LA CHIAVE DI LETTURA DEL LIBRO: Il libro s’apre con un racconto che è una chiave di lettura di tutto il libro, perché illustra molto bene cosa intende Bevere per concetti importanti quali rivelazione, gloria di Dio, presenza di Dio, potenza di Dio, fuoco di Dio, volontà di Dio, eccetera. Si tratta del racconto d’una «serata indimenticabile» che l’autore ha vissuto nella città di Fayetteville, nella Carolina del Nord. Già mentre era in volo, lo «Spirito Santo» gli «aveva sussurrato»: «Queste riunioni saranno le più potenti che tu abbia mai avuto in questa chiesa» (p. 9). Tuttavia, appena iniziò il suo ministero in quella città, una forte inquietudine lo colpì. Seguiamo il suo racconto: «Udii la voce dolce e sommessa dello Spirito Santo che mi parlava. Mi fece capire che c’era qualcosa che bloccava le chiese di quella città... Quell’ostacolo impediva alle chiese di crescere oltre un certo punto, dopo il quale si dividevano, o diventavano formaliste e indifferenti... Comunicai questa rivelazione alla comunità... Udii nuovamente la voce dello Spirito che mi spiegava come questo ostacolo può essere rimosso... Io dissi: “Fratelli e sorelle, Dio mi ha fatto capire che quaranta giorni di digiuno riusciranno a spezzare questo ostacolo!”» (p. 10; il grassetto nelle citazioni è sempre nostro). Chiaramente, dire una tal cosa a una chiesa fatta tra l’altro di donne e bambini, era davvero improponibile, così il profeta Bevere s’affrettò a correggere il tiro: «“Non si tratta necessariamente d’una rinunzia totale al cibo. Ma si tratta d’un digiuno di tutto ciò che vi tiene lontani da Dio. Può essere la televisione, le videocassette, i giochi al computer, i giornali, un eccessivo vagare per negozi, conversazioni telefoniche e così di seguito”. Questo è il vero digiuno» (p. 10).

     Pare che questo digiuno ci sia stato e quaranta giorni dopo, Bevere, tornando in questa chiesa a predicare, fu testimone di qualcosa di straordinario: «Era come se delle ondate di presenza di Dio si susseguissero le une alle altre, in un crescendo di potenza» (p. 13). Cosa era successo? Lo scrittore lo descrive così: «Udii nuovamente la voce dello Spirito che mi sussurrava: “Voglio agire direttamente io stesso su queste persone; lasciami operare”... Per circa una decina di minuti si potevano osservare gruppi di persone che piangevano silenziosamente... Verso le 9,15 l’atmosfera cambiò improvvisamente. S’udivano provenire dal fondo della sala dei pianti fortissimi. Era facile capire che si trattava dei più giovani. Circa 150 ragazzi fra i sette e i dodici anni... li invitai a venire avanti... Osservavo quei ragazzini... venire avanti verso di me, piangendo in modo incontrollabile. Molti si coprivano il volto con le mani. Altri si dovevano sforzare per mantenere la giusta direzione. Giunti nei pressi del pulpito, alcuni caddero in ginocchio, perché non avevano più la forza di stare in piedi, ma i più crollarono a terra perché le loro ginocchia non li reggevano, alcuni addirittura gli uni sopra gli altri... In pochi istanti vidi circa cento ragazzi che piangevano e gridavano. Erano afferrati dalla presenza evidente del Signore. Tutto questo non durò alcuni minuti, ma oltre un’ora... fu un tempo glorioso... Quando sembrava che i bambini non ce la facevano più a piangere, gridare, agitarsi, ecco che un’altra ondata della presenza di Dio sopravveniva ricreando le emozioni con maggiore intensità... Osservavo una bambina, di non più di sette anni, che si torceva le mani come se stessero bruciando. Il suo volto era bagnato di lacrime, mentre singhiozzava forte. Era così evidente la presenza di Dio in questi bambini, che gli assistenti non osavano toccarli» (p. 13).

     Quello che colpisce di questo racconto non è tanto l’evidente isteria collettiva che ha colpito gli individui più impressionabili della congregazione, cioè i bambini, ma l’interpretazione che ne dà lo scrittore e l’imprimatur di spiritualità e rivelazione divina che gli attribuisce. Pur essendo egli il responsabile principale di quest’isteria, essendo tutto partito dalle sue rivelazioni, anziché fermarsi e riconoscere obiettivamente quello che stava succedendo, dà a un evento scioccante e indisponente, che non ha nessun riscontro biblico, il marchio di «evento glorioso», dove era «evidente la presenza del Signore» e la sua «potenza». Dal pastore della chiesa «le mani che si contorcevano» vennero equiparate al «fuoco di Dio... presente fra loro» (p. 14). Lo stesso Bevere equipara tale esperienza alla «guida di Dio» (v.16), alla «libertà... potenza... e conoscenza interiore di Dio» (p. 17). Afferma inoltre: «Con i nostri occhi abbiamo visto realizzarsi la profezia di Gioele: “I vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno... i vostri giovani avranno delle visioni (Gioele 2,28)» (p. 15). E come se tutto ciò non bastasse, riporta un’altra rivelazione di Dio, secondo la quale un’esperienza come questa «è una delle manifestazioni finali del mio Spirito nella chiesa» e «questo movimento del suo Spirito porterà frutti di vera santità nella chiesa, preparandola per la messe che deve venire». Ed aggiunge: «Dio vuole suscitare nei credenti, un’intensa, ardente passione quale non abbiamo mai conosciuto prima» (p. 17). È evidente dunque il nuovo significato che Bevere dà a importanti concetti della fede cristiana, i quali non sono più legati alla rivelazione oggettiva che ne dà la Scrittura, ma alla percezione soggettiva che il credente dice di ricevere di presunte rivelazioni dello Spirito per gli ultimi tempi. È così che l’arbitrio spirituale spiana la strada a una fede sempre più diversa da quella biblica... come lo è certamente l’isteria di gruppo, di cui ci narra candidamente il libro. [► Cadere all’indietro; ► Voglia di «fuoco estraneo»?; Worship, unzione ed esperienze iperestetiche. Per l’approfondimento si rimanda nel libro Carismosofia, all’articolo «Fenomeni medianici: II. Abbattimento dello Spirito», pp. 165s; cfr. pure la testimonianza p. 237.]

     Qui di seguito cercheremo di decodificare alcuni concetti chiave presenti nel libro che stiamo valutando. Anzitutto citeremo le affermazioni dell’autore e poi faremo il nostro commento.

 

3.  IL «FUOCO DI DIO»: J. Bevere scrive: «La risposta sta sempre nel fuoco di Dio. Abbiamo bisogno del fuoco di Dio... c’è sempre posto nel suo santo fuoco. Se temete che il fuoco si sia allontanato, fatevi coraggio e continuate a sperare. Egli ha promesso che “non triterà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante, finché non abbia fatto trionfare la giustizia (Matteo 12,20)» (p. 6). «Voi avete il presente libro in mano perché questo è il vostro desiderio più profondo e il suo invito più grande. Raccogliete l’invito, lasciate che il fuoco s’accenda» (p. 142).

     Questo libro s’apre e si chiude parlando di «fuoco». Il «fuoco di Dio» è presentato nel libro come il combustibile della nostra spiritualità. Questa insistenza sul «fuoco di Dio» è tipica del carismaticismo. Forse è solo una questione di linguaggio, ma questo non è certo il linguaggio del Nuovo Testamento, quando esso parla della spiritualità del cristiano. Anzi, delle 74 volte che il termine «fuoco» compare, indica il fuoco fisico, il giudizio di Dio (Mt 3,10; 1 Cor 3,13; 2 Ts 1,8 ecc.), il fuoco distruttivo della lingua (Gcm 3,6), il fuoco della prova (1 Pt 1,7), il fuoco dell’eresia (Giuda 23). C’è solo un brano, molto caro al carismaticismo, che sembra indicare qualcosa di positivo per il discepolo di Gesù: «Io vi battezzo con acqua, in vista del ravvedimento; ma colui che viene dopo di me è più forte di me, e io non sono degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco» (Mt 3,11 cfr. Lc 3,16). Senza entrare nel merito di ciò che voglia dire qui la parola «fuoco», si deve osservare che esso è legato all’immersione del credente nel Corpo di Cristo mediante lo Spirito Santo, e quest’avviene una volta sola nel credente, all’inizio della sua fede (1 Cor 12,13). [N.d.R.: «Infatti noi tutti siamo stati immersi mediante un unico Spirito dentro un unico corpo, e Giudei e Greci, e schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un unico Spirito».] Alimentare dunque speranze su ciò che il cristiano già possiede, oltre che alimentare vane speranze, è un andare oltre ciò che la Scrittura insegna. Giovanni afferma: «Quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto rimane in voi» (1 Gv 2,27; gr. menei - presente indicativo attivo) e questo è un chiaro riferimento alla presenza «per sempre» dello Spirito nel credente nato di nuovo, come Gesù aveva promesso (Gv 14,16).

     Anche il testo di Matteo 12,20, che Bevere cita, è fuori luogo, perché si riferisce all’adempimento d’una parola d’Isaia (v 17), adempiutasi appunto nella vita terrena di Gesù. Non si tratta d’una «promessa» per noi se non per la chiara allusione alla croce, presente nelle parole «finché non abbia fatto trionfare la giustizia. E nel nome di lui le genti spereranno» (v. 21). Il significato non è dunque quello di sperare in una nuova effusione del «fuoco di Dio», ma di credere che nella croce è trionfata veramente la giustizia di Dio. [ Voglia di «fuoco estraneo»?]

 

 

4.  LA RIVELAZIONE DI DIO: J. Bevere scrive cose del genere: «…quanto m’aveva sussurrato lo Spirito Santo mentre volavo verso Fayetteville» (p. 9); «udii la voce dolce e sommessa dello Spirito Santo che mi parlava» (p. 10); «udii nuovamente la voce dello Spirito Santo che mi sussurrava» (p. 12); «Dio mi parlò» (p. 17); «una mattina il Signore disse al mio cuore... Aggiunse» (p. 25); «Dio disse»(p. 55); «Il Signore rispose» (p. 59); «Quando gridai: “Dio... perché non hai liberato me?”. lo sentii dire con fermezza» (p. 63); «Un mio amico mi disse che mentre era profondamente assorto in preghiera, sentì il Signore chiedere appassionatamente» (p. 75); «il Signore mi comunicò affermazioni così discordanti da ciò che ci è stato insegnato nelle chiese che ne fui scosso» (p. 88); «La prima affermazione che il Signore mi rivolse in preghiera fu» (p. 88); «sentii il Signore pronunciare la seconda affermazione, quella che mi fulminò» (p. 89); «nel dicembre di quell’anno mi disse che avrebbe insegnato a rinnegare me stesso, a prendere la mia croce e a seguirlo. Mi mostrò che stava per compiere un’opera di santificazione nella mia vita... Chiesi al Signore: “Perché le mie cattive abitudini peggiorano invece di migliorare?”. Mi rispose: “Figliolo, ho detto che io t’avrei purificato. Hai cercato di farlo con le te forze. Adesso lo farò io a modo mio”» (p. 105); «poi rispose alla mia domanda... Mi spinse a osservare la mia fede nuziale... Poi mi pose delle domande... poi fece un’affermazione» (p. 106); «La sua voce dolce e sommessa parlò al mio cuore... Il Signore continuò» (p. 114); «Poi sentii il Signore dire... Continuò (p. 128)... Dio m’avvertì» (p. 129).

     Anche questo linguaggio è tipico dei libri di John Bevere. Esso rispecchia una rivelazione «diretta» di Dio, col quale, egli pretende d’udire le parole stesse di Dio, non quelle rivelate e poste per iscritto nella Scrittura, ma parole attuali, dirette e circostanziate. Tutto questo pone due serie di problemi: uno legato al modo in cui Dio parla oggi e l’altro legato alla sufficienza della Scrittura. In merito alla prima questione ci si chiede, davvero Dio parla in modo diretto, come dicono i profeti odierni? Se sì, come facciamo a esserne sicuri? Come facciamo a distinguere una chiara e inequivocabile rivelazione di Dio da una nostra intuizione od impressione, e nel peggiore dei casi dalla voce d’uno spirito seduttore? È evidente che una nuova attività rivelatoria di Dio, richiama il problema del suo accreditamento e della sua autenticità. Il Nuovo Testamento c’insegna che Dio ha accreditato la sua Parola in un modo così speciale, che si è scelto personalmente, ha equipaggiato e ha accreditato persino i dodici uomini che avevano il compito di tramandarla ai santi «una volta per sempre» (Gd 3). Ora, se Dio è sempre lo stesso, perché dovremmo pensare che oggi abbia abbassato tali standard, e abbia affidato la sua Parola, o presunte rivelazioni dell’ultima ora, a dei moderni apostoli e profeti, per lo più auto-nominati e auto-raccomandati, i quali troppo spesso non si sottomettono al giudizio della chiesa, ma pretendono solo di poterla giudicare? Già a suo tempo, l’apostolo Paolo metteva in guardia i credenti di «non lasciarvi così presto sconvolgere la mente, né turbare sia da pretese ispirazioni, sia da discorsi, sia da qualche lettera data come nostra» (2 Ts 2,2). Perché dovremmo farlo oggi? La Scrittura parla di «profeti» che «profetizzano menzogne nel mio nome... visioni menzognere, divinazione, vanità, imposture del proprio cuore» (Ger 14,14); e dice ancora: «Non ascoltate le parole dei profeti che vi profetizzano; essi vi nutrono di cose vane; v’espongono le visioni del proprio cuore» (Ger 23,16). Se questo è il pericolo, non è meglio tenere distinta la Parola fuori di noi, dalla parola dentro di noi, la rivelazione dall’intuizione? L’idea stessa che esistono «profezie personali» per proprio uso e consumo o per conto terzi è molto rischiosa. È molto più aderente all’insegnamento biblico ritenere che Dio ci parli ancora oggi, non più in modo diretto, ma mediato dalle pagine della Scrittura (2 Tm 3,16), attraverso l’azione di convincimento e d’illuminazione dello Spirito Santo (Gv 16,8; 2 Cor 2,10-15) e l’esperienza (Rm 12,1-2; Eb 5,13). [ Profezie personali]

     In merito alla seconda questione ci si chiede, se il credente d’oggi ha bisogno di rivelazioni specifiche e su misura, che gli dicano come applicare concretamente la Scrittura e come servire il Signore, dove va a finire la sufficienza della Scrittura? Non si viene a creare una rivelazione parallela alla Scrittura che ne prende il posto, visto che essa non è sufficientemente applicabile? Questo è il rischio in cui la Parola di Dio è sempre incorsa: volerla leggere alla luce di qualcos’altro, abbinarla a qualcos’altro, mescolarla con qualcos’altro. Ma se gli apostoli hanno insistito così tanto sulla sufficienza dell’Evangelo di Cristo e della fede, fino a opporsi tenacemente a ogni mescolanza persino con precetti e forme liturgiche previste espressamente da una rivelazione precedente, cioè la legge di Mosè, come possiamo sentirci noi autorizzati ad aggiungere cose che non fanno parte dell’insegnamento apostolico, ma sono il frutto di ultime rivelazioni? Se quello che Paolo insegnava era «tutto il consiglio di Dio» (At 20,27), «annunziava nella sua totalità la parola di Dio» (Col 1,25) e recava con sé «la pienezza delle benedizioni di Cristo» (Rm 15,29), perché «praticare oltre quel che è scritto», alimentando «l’orgoglio» e recando «un danno l’uno all’altro» (1 Cor 4,6)? [ Spirito e rivelazione oltre la Scrittura?; Voglia di profeti e veggenti]

     Di seguito diamo qualche esempio delle cose che Bevere arriva a considerare come «rivelazione di Dio».

 

     ■ Rivelazione e ministero: Bevere scrive: «Molti oggi sono credenti perché hanno accettato l’appello dei predicatori e non una rivelazione da parte di Dio» (p. 23); «una mattina il Signore disse al mio cuore: “John, basta con queste tue preghiere”... Mi disse [Dio]: “John, lo scopo del cristianesimo non è compiere il ministero. Tu puoi cacciare i demoni, guarire gli ammalati, guidare le persone verso la salvezza e tuttavia finire all’inferno... Giuda lasciò il lavoro per seguirmi, guarì gli ammalati, risuscitò i morti, cacciò i demoni. Tuttavia si trova all’inferno”... senza la rivelazione di Dio potranno soltanto guidare gli altri nella stessa fossa verso cui essi sono diretti» (pp. 25-26).

     Ciò che stupisce è questa svalutazione del ministero cristiano, se non c’è a monte una particolare «indicazione del cielo», come se quanto insegnato e ordinato nella Scrittura non è sufficiente a muovere i nostri piedi e le nostre mani. Del resto, Giuda non si trova all’inferno perché mancava di rivelazione, ma perché non ha ubbidito di vero cuore alla rivelazione ricevuta. Si noti però gli abbinamenti a effetto che Bevere riesce a costruire. [N.d.R.: Usare un caso singolo e singolare di Giuda, che precede l’istituzione del nuovo patto e Pentecoste, per statuire una nuova dottrina, secondo cui il credente — rigenerato e suggellato dallo Spirito di Dio per il giorno della redenzione — possa ancora finire all’inferno, porta i tratti di una evidente falsa dottrina.] [ Due tesi a confronto sulla perdita della salvezza 1; Il credente può perdere la sua salvezza?; Si può perdere la salvezza?; Sicurezza e perdita della salvezza]

 

     ■ Rivelazione e divorzio: Bevere scrive: «Il Signore rispose: “Hai basi bibliche per divorziare e, se scegli di farlo, ti benedirò. Ma se resti e combatti in preghiera per lui, lo tirerò fuori e sarai benedetta doppiamente”» (p. 59)

     Con questa rivelazione non abbiamo più bisogno di dibattere intorno al divorzio e alle seconde nozze perché qui Dio si pronuncia chiaramente a favore. Questo è in linea con le convinzioni di molti. Ma se un giorno facesse così anche per l’omosessualità? Non è meglio continuare a dibattere e confrontarsi su certe tematiche bibliche non immediatamente chiare, anziché affidarsi a rivelazioni, che un domani possono avere un esito imprevisto?

 

     ■ Rivelazione e fumo: Bevere scrive: «Quando gridai: “Dio... perché non hai liberato me?”. lo sentii dire con fermezza: “Perché ti piacciono ancora!”. Il pastore continuò: “Guardai la sigaretta che avevo in mano e la spensi”» (p. 63)

     Questa rivelazione ha avuto il potere di liberare uno schiavo della sigaretta. Perché Dio non si rivela in modo così diretto anche a tutti quei nostri fratelli che sono dilaniati da questo e da altri vizi?

 

     ■ Rivelazione e dottrina: Bevere scrive: «Il Signore mi comunicò affermazioni così discordanti da ciò che ci è stato insegnato nelle chiese che ne fui scosso» (p. 88). «Invece di leggere la Bibbia chiedendo: “Signore, rivelami te stesso e le tue vie”, la usano per sostenere la dottrina che si sono creati e leggono soltanto quello che credono. Non ascoltano più la voce celeste di Dio attraverso quella del loro pastore» (p. 130).

     Se questo fosse un incitamento ad ascoltare l’esposizione fedele della Parola di Dio, va bene. Ma l’autore ha altre idee sulla «voce celeste», di cui parla! Del resto, questo pessimismo verso la dottrina richiama fortemente quanto dice un certo carismaticismo, il quale ha coniato il motto: «Le dottrine dividono, l’amore unisce». Ma esiste un amore senza verità?

 

     ■ Rivelazione ed ermeneutica: Bevere scrive: «Dio disse: “John, Aaronne non salì in cima al monte. Non rimase con me come Mosè. Perciò la sua immagine interiore di me era modellata dalla società, in cui era cresciuto. Questo è ciò che uscì da luì» (p. 55). «La prima affermazione che il Signore mi rivolse in preghiera fu: “John, hai notate che le prime parole uscite dalla mia bocca nei messaggi rivolti alle sette chiese nel libro dell’Apocalisse erano: ‘Conosco le tue opere...’?”» (p. 88). «Sentii il Signore pronunciare la seconda affermazione, quella che mi fulminò: “John, hai mai notato che non dissi a nessuna di quelle chiese: ‘Conosco il tuo cuore’?”» (p. 89). «Poi sentii il Signore dire: “Non è così che inizia il versetto”... Il Signore mi fermò e disse: “Uzzia dovette morire prima che Isaia avesse una nuova visione di me!”. Continuò: “Prima che la chiesa possa avere una nuova visione di me, Uzzia deve morire”» (p. 128).

     Non c’è bisogno d’una rivelazione speciale per capire queste cose, perché sono già evidenti nel testo biblico. E poi, cosa vuol dire che «Uzzia deve morire, prima che la chiesa possa avere una nuova visione di me»? Paolo dice chiaramente che «camminiamo per fede e non per visione» (2 Cor 5,7).

 

     ■ Rivelazione e santificazione: Bevere scrive: «Nel dicembre di quell’anno mi disse che avrebbe insegnato a rinnegare me stesso, a prendere la mia croce e a seguirlo. Mi mostrò che stava per compiere un’opera di santificazione nella mia vita... Chiesi al Signore: “Perché le mie cattive abitudini peggiorano invece di migliorare?”. Mi rispose: “Figliolo, ho detto che io t’avrei purificato. Hai cercato di farlo con le tue forze. Adesso lo farò io a modo mio”» (p. 105). «Poi rispose alla mia domanda... Mi spinse a osservare la mia fede nuziale... Poi mi pose delle domande... poi fece un’affermazione» (p. 106). «La sua voce dolce e sommessa parlò al mio cuore... Il Signore continuò» (p. 114).

     Qui si potrebbe anche sospettare che se la massa dei cristiani non si santifica, è perché non ha questi interventi diretti di Dio! Il rischio di queste esperienze, presentate come altamente spirituali, è che deresponsabilizzano il cristiano, il quale inizia ad attendersi questi interventi diretti di Dio, anziché ubbidire semplicemente ai comandamenti del Signor Gesù. Inoltre creano false aspettative e pie illusioni, non previste dall’insegnamento sicuro del Nuovo Testamento.

 

     ■ Rivelazione e studio della Bibbia: Bevere scrive: «Filtriamo la Parola e i comandamenti di Dio attraverso il nostro ragionamento influenzato dalla cultura che ci circonda. L’immagine che abbiamo della sua gloria, è formata dalle nostre percezioni limitate piuttosto che dalla vera immagine rivelata dalla sua Parola vivente sul monte» (p. 58).

     Quello che non convince è questa «Parola vivente sul monte». Se fosse la Parola di Dio scritta, allora va bene, ma dubito che l’autore intenda solo questo. È forte l’impressione che si ricava da tutto il libro della ricerca di una «parola» nella Parola. Abbiamo già rilevato il suo pessimismo verso le dottrine. Ora mostra il suo pessimismo verso un approccio razionale alle Scritture. Diffida persino delle «nostre percezioni limitate». A proposito del solito «anti-intellettualismo» di matrice carismaticista, bisogna dire che certamente la fede non può essere circoscritta nei limiti della sola ragione, perché si tratta dei pensieri di Dio, che sono ben al di sopra dei nostri pensieri (Rm 11,33-34; 1 Cor 1,21; 2,12-14; Ef 3,20). Tuttavia, Dio non ha scelto di bypassare la nostra mente e le nostre facoltà sensoriali, ma di svelarsi all’uomo, dando una forma scritta e intellegibile a questa sua auto-rivelazione, che impegnasse abbastanza la nostra intelligenza (Ef 1,8,18; 4,23; Col 1,9-10; 2,2; Rm 12,2; Lc 24,45; At,16,14; 17,2-3; 1 Gv 5,20; 2 Cor 10,4-5; 2 Tm 2,7; Ap 13,18; 17,9). Dio non condanna l’uso corretto del nostro ragionamento anche ai fini dello studio e della comprensione della Scrittura, ma condanna solo il cattivo uso della nostra intelligenza (Rm 1,21; 1 Cor 1,19; Ef 4,18), che cerca d’accampare scuse e ragionamenti contro l’insegnamento biblico.

 

     ■ Rivelazione e ultimi tempi: Bevere scrive a proposito di Apocalisse 3,20 («Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me»): «Si tratta della chiesa che precede il secondo avvento... Quando Gesù dice: “Entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me”, non si riferisce soltanto alla cena nuziale, ma alla vera manna che vuole darci, che è la rivelazione di sé» (p. 136). «Il sole è una grande palla di fuoco ed è così che Gesù si manifesterà negli ultimi tempi a coloro che lo temono. Essi avranno meditato sulla sua Parola spinti dal puro amore per le sue vie. Il fuoco della sua gloria sorgerà su di loro e sarà visto da coloro che sono nelle tenebre. Il ministero di queste lampade ardenti e splendenti produrrà un raccolto d’anime come non si è mai visto prima» (p. 137). «Oh, come bramo che mi si riveli in modo più grande» (p. 138).

     Questa rivelazione speciale per gli ultimi tempi non ha nessuna legittimazione biblica e il testo citato (Ap 3,20) non riguarda solo «la chiesa che precede il secondo avvento», ma è applicabile alla chiesa di tutti i tempi. La piena rivelazione di Gesù (Gv 1,1-18; Gal 4,4; Eb 1,1-2; 1 Gv 1,1-4), quella che può produrre la salvezza di molte anime, è già avvenuta duemila anni fa (Gv 3,17; 12,47). Per chi non accoglie questa Parola, non rimane altra rivelazione, ma solo l’attesa del giudizio (Gv 3,18; 12,48; Eb 10,27). L’unica rivelazione futura di Gesù, di cui il Nuovo Testamento parla, è quella del suo ritorno, e questa non è contraddistinta come «un tempo», ossia un fantomatico «tempo di raccolta e di risvegli», ma come «un momento» (1 Pt 1,13; 4,13), «un batter d’occhio» (1 Cor 15,52) e riguarda soprattutto coloro che sono già redenti. Anche qui John Bevere alimenta false speranze, di cui la Bibbia non ne sa niente.

 

 

5.  L’USO DELLA SCRITTURA: Bevere scrive: «Diranno: “Venite, torniamo al Signore... In due giorni ci ridarà la vita; il terzo giorno ci rimetterà in piedi, e noi vivremo alla sua presenza” (Osea 6,1-2). Dopo due giorni, cioè dopo duemila anni, Dio ci ridarà la vita, e nel terzo millennio ci rimetterà in piedi, in modo che possiamo vivere alla sua presenza. Questo terzo millennio è il regno millenario di Cristo» (p. 32).

     Si noti qui il modo sbrigativo con cui John Bevere interpreta la Scrittura. Egli abbina a questo testo di Osea quello di 2 Pietro, secondo il quale «per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno» (3,8) e ne deduce che «due giorni» equivalgono a «duemila anni» e «tre giorni» equivalgono al «terzo millennio». Strano che questo modo d’intendere questa profezia di Osea sia sfuggito persino al Signore Gesù, quando ha detto: «Ma quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno li sa, neppure gli angeli del cielo, neppure il Figlio, ma il Padre solo» (Mt 24,36). E c’è una certa presunzione, quando Bevere sembra identificare il «ci rimetterà in piedi» con gli eventi della fine del secondo millennio, quando «Dio ci ridarà la vita», quando cioè c’è stata l’ascesa del risveglio carismatico, bypassando così duemila anni di storia della chiesa, come se prima Dio non avesse operato, non avesse dato vita e non ci fossero stati risvegli. Ma il massimo della presunzione la tocca quando fissa il millennio biblico, col terzo millennio. Si è reso conto Bevere, tanto per cominciare che questa profezia di Osea riguarda Israele e non la chiesa? [ L’interpretazione biblica]

 

     ■ Bevere scrive a proposito di Isaia 13,9-100Ecco il giorno del SIGNORE giunge: giorno crudele, d’indignazione e d’ira furente, che farà della terra un deserto e ne distruggerà i peccatori. Poiché le stelle e le costellazioni del cielo non faranno più brillare la loro luce; il sole s’oscurerà mentre sorge, la luna non farà più risplendere il suo chiarore»): «Quando Gesù ritornerà, poiché la sua gloria è molto più radiosa di quella del sole, oscurerà il sole che non potrà più essere visto, anche se continuerà ad ardere. Alleluia!» (p. 41).

     Perché «alleluia»? Ha capito lo scrittore che si tratta del giudizio tremendo di Dio?

 

     ■ Bevere scrive a proposito di Matteo 7,22-23 («Molti mi diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo e in nome tuo cacciato demòni e fatto in nome tuo molte opere potenti?”. Allora dichiarerò loro: “Io non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, malfattori!»): «Alcuni commentatori hanno tentato di spiegare che Gesù si riferisce a persone che non l’hanno mai ricevuto. Ma si tratta di un’interpretazione errata, poiché coloro che non hanno mai professato la salvezza nel nome di Gesù, non possono compiere opere soprannaturali nel suo nome... Nell’affermazione di Gesù: “Io non vi ho mai conosciuti”, la parola “conosciuto” traduce il termine greco ghinosko. Nel Nuovo Testamento questo termine è usato per descrivere la relazione sessuale tra un uomo e una donna (Matteo 1,25); rappresenta l’intimità. Gesù dice dunque: “Io non vi ho mai conosciuti intimamente”» (pp. 90-91).

     Nell’interpretazione di Matteo 7,44-23, John Bevere parte da un assunto che impropriamente attribuisce a questo testo e da qui muove per dare al testo un significato completamente falsato, oltre che, per sua stessa ammissione, insolito. Questo testo non dice che «coloro che non hanno mai professato la salvezza nel nome di Gesù, possono compiere opere soprannaturali nel suo nome». Esso parla invece di persone che «diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo e in nome tuo cacciato demòni e fatto in nome tuo molte opere potenti?”». Qui si parla di persone che si sono illuse di parlare e d’operare «nel nome di Gesù», e tuttavia hanno servito qualcun altro. Eppure hanno fatto «molte opere potenti». La Scrittura conferma a più riprese che ci si possa illudere nelle cose di Dio (Gcm 1,22) e che anche il diavolo possa fare «opere potenti» (2 Ts 2,9). Quindi, non hanno torto quei «commentatori» che «hanno tentato di spiegare che Gesù si riferisce a persone che non l’hanno mai ricevuto». Anche il tentativo di Bevere di restringere il significato del termine «conosciuti» (gr. ghinosko) a una conoscenza intima, come per dire: «Io non vi ho mai conosciuti intimamente», non convince per niente. Diciamo anzitutto che i termini biblici hanno vari significati e il criterio per stabilire qual è quello più giusto in un determinato testo, non ce lo dà il fatto che si sposa bene con ciò che vogliamo dire, ma ce lo dà il contesto. Ed in questo contesto «non vi ho conosciuti» non si riferisce al livello d’intimità, ma al fatto che questi pseudo-cristiani non sono veri discepoli di Gesù, non gli appartengono. Egli non ha avuto con loro un tipo di conoscenza sufficiente a salvarli, ma che poi non hanno voluto approfondire, svolgendo un ministero cristiano frutto perlopiù della loro iniziativa, come vuole sostenere Bevere, ma Gesù non li ha «mai conosciuti», in nessun modo, non li ha mai redenti e per questo essi sono restati dei «malfattori», destinati al giudizio eterno. Qui non stanno perdendo la salvezza come vuol dire Bevere, ma più semplicemente non l’hanno mai avuta. [N.d.R..: Si veda qui come parallelo la tragica figura di Simone il Mago e la drammatica diagnosi che Pietro fece di lui (At 8).]

     È triste però notare che Bevere, pur di sostenere le sue tesi, non si ferma dinanzi a niente, usando le Scritture a suo piacimento. La tesi di tutto il libro è che quei cristiani che seguono e servono Gesù, senza però conoscerlo intimamente — che decodificato vuol dire, senza avere rivelazioni dirette, speciali e su misura che lo Spirito di Dio vuol dare negli ultimi tempi — sono destinati all’inferno, perdono la salvezza, come anche è stato per Giuda e come lo è per questi che hanno usato il suo nome. Io mi chiedo se quanti hanno letto questo libro, hanno capito il suo vero messaggio.

 

     ■ Bevere scrive a proposito di Malachia 3,3 e di Isaia 52,1: «Il profeta Malachia afferma che negli ultimi tempi il Signore si presenterà alla sua chiesa come un fuoco che raffina: «Egli si metterà seduto, come chi raffina e purifica l’argento, e purificherà i figli di Levi e li raffinerà come si fa dell’oro e dell’argento; ed essi offriranno al SIGNORE offerte giuste” (Malachia 3,3)» (p. 103). «Risvégliati, risvégliati, rivéstiti della tua forza, Sion! Mettiti le tue più splendide vesti, Gerusalemme, città santa! Poiché da ora in poi non entreranno più in te, né l’incirconciso né l’impuro (Isaia 52,1). Sion rappresenta la chiesa» (p. 108).

     Dobbiamo affermare che Sion non rappresenta la chiesa, ma nella storia della salvezza sono due entità chiaramente distinte dall’inizio alla fine ed è buona norma dell’interpretazione biblica tener conto di questa differenziazione. La confusione di queste due entità porta a falsare il senso di molti testi biblici e a farne un’applicazione e un’appropriazione indebita. Questo è un errore ricorrente nella storia della chiesa e John Bevere vi cade in pieno. Queste predizioni che egli applica alla chiesa, riguardano invece Israele! E per apprezzare il valore di questa distinzione, bisogna considerare il cammino «diverso» che Israele e la chiesa fanno nella storia della salvezza. Quando Israele è stato «eletto», la chiesa non esisteva ancora. Poi la chiesa è stata «chiamata fuori» dal mondo e Israele si è indurito (Rm 11,25). Infine, Israele verrà ristabilito (Rm 11,25-32) e pare che questo coinciderà con una sorta di «parabola discendente» da parte della chiesa (cfr. Rm 11,17-23). In merito alla chiesa, infatti, il Nuovo Testamento prevede per i tempi della fine un aumento dell’apostasia (2 Ts 2,3; 1 Tm 4,1-2; Gd 18-19; 2 Pt 3,3-5; Mt 24,10-13). È fuorviante dunque applicare alla chiesa, ciò che è previsto per Israele. In sintonia con quanto Paolo dice in Romani 11, la profezia di Malachia 3,3 preannuncia il «risveglio» finale d’Israele. [N.d.R.: Il brano specifico e il suo contesto immediato riguarda soltanto i sacerdoti, figli di Levi!] Quella della chiesa pare che sarà tutta un’altra storia. Si badi bene: la chiesa e il singolo cristiano devono sempre cercare il risveglio e la consacrazione personale, soprattutto se vengono da un periodo di rilassamento spirituale. Ma questo è cosa diversa dal dire che le Scritture predicono un risveglio finale della chiesa su larga scala. Questo è vero solo per Israele e lo è anche in modo diverso da un qualsiasi risveglio ecclesiale, perché per Israele questo comporta una vera è propria conversione e «iniziazione» alle benedizioni del Nuovo Patto. Dire questo della chiesa significa misconoscere che essa è già entrata nelle benedizioni del Nuovo Patto. Significa inoltre deresponsabilizzare il cristiano, il quale non pensa più al risveglio come a una miccia che è nelle sue mani e può accendere in qualsiasi momento, allorché riconosce il proprio stato di peccato, ma pensa al risveglio come una predizione che si deve adempiere in un tempo imprecisato, indipendente dalla sua volontà. L’enfasi data anche nei libri di Bevere alla prossimità di questo «evento glorioso», non attenua questa deresponsabilizzazione, perché questo «messaggio profetico», più che predisporre il cristiano all’azione, gli dà solo una carica emotiva e lo pone in standby, nell’attesa di qualcosa di grande che lo avvolgerà. La volontà del credente è qui messa quasi totalmente da parte e il seguire Gesù è ridotto a qualcosa di molto soft, edulcorato con l’illusione di risvegli che piovono dal cielo.

 

     ■ Bevere scrive: «Giovanni afferma: “Poiché la legge è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo” (Giovanni 1,17). Gesù introduce la dimensione della grazia che dispenserà in noi l’abilità di Dio che ci renderà liberi dalla formula morta della legge» (p. 85).

     Si rifletta su quanto qui vuole dire il Bevere e sulle parole che usa. La liberazione apportata da Cristo non riguarda tanto la legge, ma «la formula morta della legge» e questa liberazione non è opera esclusiva di Cristo, ma «un’abilità che Dio dispensa in noi». Questo è il solito schema carismaticista, secondo il quale, non solo la legge, ma tutta la Scrittura è «una formula morta», senza la particolare rivelazione dello Spirito di Dio, che dia vita alla «lettera morta» del testo biblico. Questo approccio spiana la strada a una lettura estremamente soggettiva e arbitraria del testo, che si compiace soprattutto della «scoperta» di significati «nuovi» e «originali». Questo schema è applicato anche al ministero, che non ha una «particolare «unzione dello Spirito». Senza questa, tutto viene visto come sterile religiosità priva di frutto. Anche qui si creano pie illusioni e attese di particolari «unzioni», che distraggono il cristiano dall’immediatezza e dall’urgenza del suo dovere cristiano.

 

 

6.  CONCLUSIONE: Io non so se Bevere si è reso conto che con i suoi insegnamenti ha costruito una spiritualità parallela alla Scrittura, la quale, pur facendo abile uso dell’evidenza biblica, se ne scosta fortemente, e pur presentandola come «la parola vivente sul monte», cioè una sorta di «parola» nella Parola e di chiave di volta della Scrittura, in realtà, crea illusioni che distolgono il cristiano dal semplice compimento dei sicuri dettami della Parola di Dio.

     Si possono dire tante altre cose su questo libro, ma quanto detto ci aiuta ad aprire meglio gli occhi e capire che non è tutto oro quello che luccica. C’è un «fuoco» che anziché riscaldare brucia e anziché bruciare le scorie, estingue le verità più semplici della vita spirituale. La spiritualità del cristiano è fondata interamente sulla «fede che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre» (Gd 3); e chi si dispone alla lettura e alla meditazione di queste verità, lasciandosi da essa conquistare e sottomettere all’ubbidienza della fede, ha la promessa, non solo di capire la volontà di Dio, ma anche di sperimentare la sua potenza che trasforma la propria vita. Questo non è garanzia che poi avremo un ministero efficace e che tutti seguiranno il nostro esempio, ma è sicuro che Dio ci benedirà. Alimentare una spiritualità parallela a questa, aprendosi a presunte «nuove e ultime rivelazioni dello Spirito», è fuorviante e dannoso… come lo sono le pie illusioni che questo libro di John Bevere alimenta.

 

Il «cuore ardente» di John Bevere? Parliamone {Nicola Martella}(T)

 

► URL:

http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A2-Cuore-ardente_John-Bevere_MeG.htm

02-02-2009; Aggiornamento: 27-03-2009

 

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