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GLOSSOLALIA, LINGUE ED ENGRAMMA PSICHICO

 

 di Antonio Capasso - Gaetano Nunnari - Nicola Martella

 

Non mi appassiona dover parlare o riparlare di glossolalia, preferendo dedicarmi ad altro. Antonio Capasso ha insistito diverse volte nel tempo per iniziare un confronto con me e Gaetano Nunnari riguardo alle «lingue». Ho cercato di evitare un rinnovato confronto su questo tema, sapendo che accende gli animi, ma a nulla è servito. Col tempo, Antonio ha modificato un po’ lo stile e il tono delle sue missive, ma non la tenacia.

     Il seguente confronto era pensato di per sé fra Antonio Capasso e Gaetano Nunnari ma, essendo stato coinvolto da ambedue, è diventato un confronto a tre. Le mie risposte sono aggiunte a quelle già date da Gaetano. Risponderemo a mano a mano. I relativi nomi saranno distinti dalle sigle. {Nicola Martella}

 

 

Antonio Capasso: Caro fratello Martella, ti scrivo in merito all’articolo scritto da Gaetano Nunnari «Pentecostalismo e glossolalia». Nell’articolo s’affronta il tema del battesimo dello Spirito Santo e dell’esperienza delle chiese figlie del risveglio pentecostale. Purtroppo noto dall’articolo (ma anche in altri articoli del sito) che spesse volte si parla di pentecostali facendo di «un’erba un fascio».

Gaetano Nunnari: Fratello Capasso, purtroppo non hai letto bene gli articoli, altrimenti tale affermazione non l’avresti fatta. Ti faccio notare in ogni modo, che molte chiese, che hanno abbracciato il carismaticismo, tengono a puntualizzare che loro sono pentecostali.

Nicola Martella: Faccio notare comunque che ci sono molti conduttori di chiese pentecostali che prendono le distanze dal carismaticismo. Anche in questo sito abbiamo distinto gli uni dagli altri. [ Pentecostali e carismaticisti: distingui necessari]

Antonio Capasso: Mi dispiace per l’esperienza negativa fatta dal fratello Nunnari. Devo precisare che grazie a Dio non tutte le chiese di fede pentecostale sono così. Molte chiese pentecostali hanno come regola di fede, d’esperienza, e di condotta la sola scriptura. In questi ultimi anni, proprio perché questo risveglio è cresciuto in modo incredibile (sono centinaia di milioni nel modo e in Brasile si dice che abbia superato per numero la chiesa cattolica), facilmente si registrano infiltrazioni di false dottrine. Anche i pentecostali come tutti i cristiani appartengono a quella chiesa che deve essere semper reformanda.

Gaetano Nunnari: Su ciò ci sarebbero molte cose da dire, e non si può essere esaurienti con poche righe.

Nicola Martella: Chi ha come regola di fede, d’esperienza e di condotta, la sola scriptura, deve preoccuparsi di fondare le proprie asserzioni non sulla teologia dell’esperienza o sulla tradizione (o convenzione) del proprio gruppo d’appartenenza, ma su un’esegesi contestuale e rigorosa della Scrittura. Faccio notare che quella di Gaetano non è solo «una esperienza negativa», essendo egli cresciuto in una comunità neo-pentecostale (quindi carismaticista), dove ancora si trovano i suoi parenti. Egli ha condensato la sua via in quest’articolo: «Cammino dall’arbitrio neocarismatico all’ubbidienza della Parola».

Antonio Capasso: Tante, cose descritte dal fratello Nunnari si riscontrano nei neopentecostali o carismatici. Nei pentecostali classici (tranne pochi casi) tutto questo non si vede. Io sono convertito da trentuno anni, ho visto anch’io delle sbavature ma da questo a concludere che tutti adottino i metodi descritti dal fratello, ce ne passa. Tanti pentecostali non condividono le varie mode, come, il danzare nello spirito, il cadere nello spirito o i vari Lirio Porrello, Benny Hinn, Reinhard Bonnke, concerti, Toronto ecc. Se avessimo dovuto valutare i cristiani dei primi secoli in base alle false dottrine ed errori che circolavano, avremmo squalificato il cristianesimo. Mi duole però anche vedere che il fratello faccia della casistica e dell’esperienza personale un mezzo per arrivare a conclusioni dottrinali.

Gaetano Nunnari: Prima di tutto desidero ringraziarti per il tuo tono cortese. Nell’articolo in questione parlo della glossolalia e non tratto le dottrine carismatiche, ma ciò che ho vissuto in diverse comunità pentecostali classiche. Non è vero nel modo più assoluto che io abbia tratto le mie dalle mie esperienze personali. Le mie esperienze personali mi hanno spinto a una ricerca biblica più approfondita riguardo a queste dottrine. Anche questo lo avresti dovuto capire, visto che verso la fine dell’articolo l’ho precisato.

Nicola Martella: Personalmente non posso che rallegrarmi di tutti i credenti pentecostali che prendono le distanze da Peter Wagner, la sua «riforma neoapostolica», il suo «movimento profetico», da tutti i suoi seguaci (sopra elencati, più altri come Yonggi Cho) e pronipoti e da tutte le presunte «riforme strutturali». [► La «riforma strutturale» di Corrado Salmé]

Antonio Capasso: Credo che quello che conti, più di tutto e sapere se la Scrittura affermi o non affermi certe verità, aldilà delle sbavature o delle esperienze personali. Prenderò in esame solo quello che lui dice riferendosi alle Scritture. Afferma «Perché si fanno riunioni di preghiera per ricevere un dono che la Parola mette all’ultimo posto e non incoraggia di ricercare?». Vedo che il fratello fa confusione tra Battesimo dello Spirito Santo (Atti 2) e carisma delle lingue (1 Cor 12,10). Le riunioni di preghiera si fanno in ottemperanza al comando di Gesù (Atti 1,4.14), come fecero i 120, al fine di ricevere il battesimo dello Spirito Santo.

Gaetano Nunnari: Fratello Capasso, io non faccio nessuna confusione. T’invito a riflettere, perché caso mai è proprio il contrario. Io credo, come dice la Bibbia, che tutti i credenti nati di nuovo sono tutti battezzati in un unico Spirito.

Nicola Martella: Penso che Antonio e altri facciano, a loro volta, confusione fra Pentecoste e l’esperienza che essi chiamano impropriamente «battesimo dello Spirito Santo». Tale espressione non si trova mai nel NT greco. L’unico posto in cui essa compare impropriamente nelle nostre Bibbie è 1 Cor 12,13, che in effetti recita così: «Infatti noi tutti siamo stati immersi mediante un unico Spirito dentro un unico corpo, e Giudei e Greci, e schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un unico Spirito». Si tratta della «simultaneità con Cristo», quindi della rigenerazione, che permette allo Spirito Santo di immergere il credente nel corpo di Cristo e Cristo nel credente, tanto che si possa dire: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Per l’approfondimento si veda Nicola Martella, «Il battesimo dello Spirito», Carismosofia (Punto°A°Croce, Roma 1995), pp. 35-41; cfr. anche «L’effusione dello Spirito Santo», pp. 42-45. Faccio infine notare che a Pentecoste lo Spirito Santo non venne su centoventi credenti maschi, ma solo sui dodici apostoli.

Antonio Capasso: Il fratello mette in neretto le parole «ultimo posto». Che significa? Che è meno importante? Se questo è il senso, faccio notare che Paolo in 1 Cor 13,13 afferma: «Tre cose durano: fede, speranza, amore, ma la più grande d’essa è amore». Anche l’amore è messo all’ultimo posto, eppure Paolo dice che è più grande. Caro fratello in un elenco qualcosa deve pur stare all’ultimo posto ti pare? Ci può essere qualcosa dato dallo Spirito Santo che è di poco valore o inutile? Affermare poi che Paolo non incoraggi a ricercarlo come se fosse una cosa inutile, è far dire a Paolo quello che lui non ha detto. Paolo afferma: «Io ringrazio Dio che parlo in altre lingue più di tutti voi» (1 Cor 14,18). Sembra strano che il grande servo di Dio possa con tanto calore ringraziare Dio per un dono che poi giudica privo di valore e che consigli addirittura d’accantonarlo.

Gaetano Nunnari: Questo è il classico ragionamento, che io stesso facevo. Per capire ciò che realmente intendesse Paolo bisogna leggere il testo greco originale. Le cose suonano molto diversamente.

Nicola Martella: È rischioso tale ragionamento. Nel caso delle funzioni ministeriali di 1 Cor 12,28ss è scritto «primieramente… in secondo luogo… in terzo luogo… poi…»; nel secondo caso tutto 1 Cor 13 parla dell’agape e il v. 13 è solo la conclusione, per mostrare che essa è superiore quanto a durata addirittura alla fede e alla speranza. Inoltre i carismi (e in primis le lingue) particolari sono messi in secondo piano rispetto all’agape (1 Cor 13,1s); anzi nel catalogo delle funzioni ministeriali indirizzato non a una singola chiesa con problemi gnostici come Corinto, ma a tutte le chiese (la dizione «agli Efesini» è postuma, essendo una lettera circolare), i carismi particolari neppure compaiono (Ef 4,11ss), non essendo evidentemente ritenuti importanti «per il perfezionamento dei santi, per l’opera del ministero, per la edificazione del corpo di Cristo…».

     È strano come si possa citare a metà 1 Cor 14,18, tacendo che tale frase è in funzione della prossima: «…ma nella chiesa preferisco dir cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua» (v. 19). Inoltre in tutto il capitolo sminuisce il valore del parlare in altra lingua a favore della «profezia», ossia il parlare in modo ispirato sulla base della comune lettura della Parola di Dio.

Antonio Capasso: In 1 Cor 14,2 Paolo definisce le lingue, un parlare con Dio: «Chi parla linguaggi non parla agli uomini, ma a Dio». Non credo che Paolo (e spero neanche Nunnari) dubitasse della preziosità del dialogo con Dio. Al verso 4 afferma, che chi parla in altra lingua edifica se stesso. Al verso 14, che si può pregare in altra lingua. Al verso 15, che si può salmeggiare in altra lingua. Al verso 16, che si può benedire Dio in altra lingua. Sono inutili queste cose? In 1 Corinzi 14,26 Paolo annovera gli elementi che fanno parte del culto «Quando vi radunate, avendo ciascuno di voi un salmo, o un insegnamento, o una rivelazione, o un parlare in altra lingua, o un’interpretazione, si faccia ogni cosa per l’edificazione», quindi le altre lingue sono parte integrante del culto. Dice Nunnari: «Nella Bibbia troviamo tale pratica nelle altre chiese? No, solo in Corinto viene menzionata, e non è lodata, anzi». Che tale pratica non si trovi nelle altre chiese e che sia menzionata solo in Corinto, dipende dal fatto che solo in questa epistola Paolo affronta in modo esauriente l’ordine del culto. Quello che Paolo non loda, non sono le lingue, ma il modo disordinato d’esercitarle, cosa che avviene alle volte, anche nel mondo pentecostale, come avveniva nella chiesa di Corinto. Infatti, ai versi 27 e 28 egli precisa «Se c’è che parla in altra lingua, siano due o tre al massimo a farlo, e l’uno dopo l’altro, e qualcuno interpreti. Se non vi è chi interpreti, tacciano nell’assemblea e parlino a se stessi e a Dio».

Nicola Martella: Vedo che Antonio prende dal testo solo ciò che gli aggrada, dimenticando l’obiettivo dell’apostolo: accreditare la «profezia» a discapito del parlare in lingue. In 1 Cor 14,1 Paolo evidenziò particolarmente il «dono di profezia», preferendolo a quello delle lingue (v. 2 che qui sminuisce non servendo all’edificazione degli altri) e proseguendo a contrasto: «Chi profetizza, invece, parla agli uomini un linguaggio di edificazione, di esortazione e di consolazione» (v. 3). Per questo i profeti sono nel catalogo di Ef 2,11 e le lingue no. E il contrasto prosegue nei versi che seguono, per terminare dicendo: «…cercate di abbondarne per l’edificazione della chiesa». Quest’ultimo è il criterio nella valutazione dei carismi! Nel verso 2 Paolo sminuì le lingue proprio per la mancanza di tale criterio di edificazione, poiché tali misteri proferiti nello spirito e a Dio non edificano nessuno.

     Anche nel v. 4 c’è un contrasto in tal senso fra chi «edifica se stesso» (egocentrismo) e chi «edifica la chiesa» (ecclesiocentrismo). Nel v. 14 lo spirito che prega in lingue è messo in contrasto con la intelligenza che rimane infruttuosa. Nel v. 15 accade la stessa cosa: a pregare / salmeggiare con lo spirito è posto in contrasto il pregare / salmeggiare anche con l’intelligenza. Nel v. 16 al benedire Dio soltanto con lo spirito (ossia in lingue) e posta in contrasto la comprensione degli altri e l’approvazione del «rendimento di grazie» con un amen. Strano che Antonio non abbia voluto cogliere tale obiettivo di Paolo e tali contrasti nell’argomentazione; chi difende la verità, la deve rappresentare per intero.

     Poi si cita il v. 26 per difendere la glossolalia; ha dimenticato però di dire quanto detto prima e dopo dall’apostolo. Questo modo di argomentare non ha i tratti dell’ideologia di parte? Contrariamente alla «profezia», «le lingue servono di segno non per i credenti, ma per i non credenti» (v. 22), ossia serve a comunicare l’Evangelo nella lingua conosciuta dai forestieri (come a Pentecoste). A differenza della «profezia», le lingue non sono adatte per i raduni di chiesa, specialmente se tutti ne fanno uso, perché creerà una repulsione negli estranei (vv. 23ss). Infine arrivò il v. 26 in cui l’apostolo mirò a che «si faccia ogni cosa per l’edificazione»; perché «un parlare in altra lingua» avesse tale qualità, doveva essere limitata a «due o tre al più» (v. 27; quindi niente parlare in lingue tutti insieme, come si fa in varie chiese pentecostali!), e cioè solo in successione e solo se c’è chi interpreta; in caso contrario non bisogna permettere a nessuno di parlare in altra lingua (v. 28); i versi 27-28 sono citati da Antonio, ma per altra ragione. Pur non dovendo impedire il parlare in altre lingue, ogni cosa doveva essere fatta con decoro e con ordine (v. 40).

     Che Paolo affronti il problema delle lingue solo in questa epistola perché solo qui Paolo affronterebbe «in modo esauriente l’ordine del culto», è alquanto di parte. Ci sono brani in altre epistole che trattano il modo di edificarsi reciprocamente (Ef 5,19ss; Col 3,16s). Si può ribaltare l’argomentazione: Paolo parlò dei carismi particolari, poiché nella chiesa di Corinto si erano introdotti i «super apostoli» gnostici (2 Cor 11,5), provenienti dal giudaismo (v. 22), introducendo in essa altro Gesù, uno spirito diverso, e un evangelo diverso e seducendo così i Corinzi (vv. 3s). Questi ultimi erano diventati carismaticisti ante litteram, soggetti alla dipendenza psicologica di tali falsi maestri (v. 20). L’apostolo li smascherò, denunciandoli (vv. 13ss). Inoltre cercò di contenere i danni dello spiritualismo gnostico-mistico, ingiungendo regole che preservassero il decoro e l’ordine. In altre epistole non trattò tali cose (ma altre), semplicemente perché non avevano tali problemi carismaticisti.

Antonio Capasso: Aggiunge il fratello Nunnari: «Come si fa a interpretare una lingua che non esiste? A chi viene indirizzato il messaggio? Come si fa a “interpretare” con un lungo discorso articolato e vario, quando chi parla in altra lingua in genere ripete le stesse parole più volte? Non è possibile in senso razionale e linguistico, né tanto meno è biblico, visto che siamo esortati a dire sempre la verità».

     1. Paolo parla di interpretazione non di traduzione.

     2. Tutte le capacità espressive d’una lingua non possono mai essere misurate col metro d’altre lingue, anche fra le lingue umane quello che può essere detto con poche parole concise in una lingua, ha bisogno d’un lungo discorso in altra lingua.

     3. Un esempio biblico. «Mene, techel, peres»: «Questa è l’interpretazione delle parole: Mene, Dio ha fatto conto del tuo regno e gli ha posto fine; techel, tu sei stato pesato con la bilancia e sei stato trovato mancante. Peres, il tuo regno è diviso e dato ai Medi e ai Persiani» (Daniele 5,25-28). Tre parole «secche» (di che lingua si tratta?) che interpretate diventano intere frasi. È logico? Caro fratello non facciamo del razionalismo.

Nicola Martella: Le lingue parlate a Pentecoste erano comprensibili a chi le ascoltava, tanto che 3.000 Giudei autoctoni e forestieri furono convinti. Parlare quindi in lingue, significava parlare nelle lingue degli astanti per comunicare loro l’Evangelo. Questo è l’uso di «lingue» nel NT. Corinto era un porto di mare e arrivava gente da ogni parte. Nella chiesa ognuno di tali credenti forestieri pregava nella sua propria lingua, senza che si sapesse che cosa si dicesse o meno. Nella chiesa, che ho avuto il privilegio di fondare con mia moglie e un’altra coppia di missionari, ho visto attualmente questa buona regola: gli stranieri, che pregano nella loro lingua, devono essere tradotti da qualcuno o completamente o almeno riassumendo il loro pensiero.

     Nel mondo d’allora c’erano non solo molte lingue, ma anche molti dialetti all’interno della stessa lingua. Per questo Paolo affermò: «Io ringrazio Dio che parlo in altre lingue più di tutti voi» (1 Cor 14,18); per poter evangelizzare aveva bisogno di questo carisma, visto che, come egli stesso afferma, «da Gerusalemme e dai luoghi intorno fino all’Illiria, ho predicato dovunque l’Evangelo di Cristo, avendo l’ambizione di predicare l’Evangelo là dove Cristo non fosse già stato nominato, per non edificare sul fondamento altrui» (Rm 15,19s). Poteva succedere quindi di parlare in altre lingue in momenti particolari; ad esempio Pietro  e i suoi accompagnatori (parlava aramaico o ebraico) udirono il romano Cornelio e la gente in casa sua (a Cesarea dove si parlava greco) parlare in lingue diverse dalla loro e magnificare in esse Dio (At 10,46); si noti che quando Pietro raccontò gli stessi fatti, non menzionò neppure il parlare in lingue (At 11,15ss). In At 8 non si parlò di tale fenomeno a proposito dei Samaritani, ma è ricordato a proposito dei discepoli di Giovanni (At 19,6 «parlavano in lingue e profetavano»; la seconda parte, «proclamavano», rendeva chiara la prima parte, che era oscura ai più).

 

     1. Paolo parlò di interpretazione e non di traduzione?: Il termine italiano «tradurre» significa dapprima «portare qualcosa da una sponda a un’altra»; poi per analogia venne a significare: «portare il significato delle parole da una lingua a un’altra». Il termine greco ha a che fare con Hermes, il dio che nella mitologia greca portava i messaggi di Zeus ai destinatari; anche lui era quindi uno che faceva la spola fra due parti (cfr. At 14,12). Il termine greco hermēneía «spiegazione, traduzione» ricorre in 1 Cor 12,10 (hermēneía glōssōn «traduzione delle lingue»); poi solo ancora in 14,26.

     Il verbo hermēneuō «spiegare, tradurre» ricorre nei seguenti contesti. «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; tu sarai chiamato “Cefa” — che viene tradotto “Sasso”» (Gv 1,42). Infine ricorre in solo ancora Eb 7,2 a proposito di Melchisedek e del significato del suo nome: «…Melchisedek, re di Salem… il quale [è] tradotto dapprima “re di giustizia”, e poi anche “re di Salem”, vale a dire “re di pace”» (vv. 1s); si noti che l’autore dapprima traduce «Melchisedek» e poi «re di Salem».

     Il verbo diermēneuō «tradurre, interpretare, spiegare» è un rafforzativo del precedente e ricorre nei seguenti contesti. «E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo concernevano» (Lc 24,27). «Tabita, che, tradotto, significa “Gazzella”» (gr. Dorkas; At 9,36). «Parlano tutti in altre lingue? Traducono tutti?» (1 Cor 12,30). «Chi però profetizza è superiore a chi parla in lingue, a meno che egli traduca, affinché la chiesa ne riceva edificazione» (1 Cor 14,5). «Chi parla in lingua preghi che traduca» (1 Cor 14,13). «Se c’è chi parla in lingua, [lo facciano] in due o al massimo in tre e uno dopo l’altro; e uno traduca» (1 Cor 14,27). In 1 Cor 14,28 ricorre una particolare forma sostantivata (diermēneuntēs): «E se non c’è il traduttore, si taccia nell’assemblea e parli per sé e per Dio»; quindi chi parlava in altra lingua, doveva sincerarsi prima che ci fosse un traduttore del su particolare idioma.

     Il verbo methermēneuō «tradurre, spiegare, interpretare» è un altro rafforzativo del semplice verbo e ricorre nei seguenti contesti. «…Emmanuele, che, tradotto, vuol dire: “Dio con noi”» (Mt 1,23). «Talithà kumì! che tradotto vuole dire: “Giovinetta”, io te lo dico, “lèvati”!» (Mc 5,41). «…Golgota; il che, tradotto, vuol dire luogo del “teschio”» (Mc 15,22). «Eloì, Eloì, lamà sabactanì? che, tradotto, vuol dire: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» (Mc 15,34). «Rabbì — che, tradotto, significa: “Maestro”» (Gv 1,38). «Messia — che, tradotto, è: “Cristo”» (ossia «unto»; Gv 1,41). «Barnaba — che, tradotto, significa: “Figlio di consolazione”» (At 4,36). «Elima, il mago — perché così si traduce il suo nome» (At 13,8).

 

Quando questa radice verbale aveva a che fare con termini, locuzioni o lingue, significava tradurre. Tutto ciò mostra che la tesi, secondo cui Paolo parlasse di interpretazione e non di traduzione, sta su piedi d’argilla. Infatti abbiamo visto come i termini greci fossero usati in contesti con traduzioni letterali. Questo è tanto vero che in molti contesti tale verbo manca del tutto ed è sostituito direttamente da «che significa / vuol dire…» (Gv 9,7); «che significa / vuol dire in ebraico…» (Gv 20,16 Rabbunì e Maestro); oppure «detto “X” [in una lingua] e in ebraico [o altra lingua] “Y”» (Gv 19,13 Lastrico e Gabbatà; v. 17 Teschio e Golgota; cfr. Mc 15,22; Ap 9,11 in ebraico è Abaddon e in greco Apollion; cfr. Ap 16,16 si chiama in ebraico Harmaghedon).

 

     2. Ciò che può essere detto con poche parole in una lingua, ha bisogno d’un lungo discorso in un’altra?: Ciò lo può dire solo chi non ha mai tradotto da una lingua a un’altra. Chi come me traduce spesso, si preoccupa di essere fedele al testo originale, usando il meno parole possibili e cercando di essere comprensibile nell’altra lingua. Il fatto che la Bibbia sia stata tradotta in pressoché tutte le lingua del mondo, mostra che è possibile coniugare fedeltà all’originale e comprensione.

     La questione è che la maggior parte dei cosiddetti carismi di lingue, praticati oggigiorno, sono una specie di «mantra» sempre ricorrente, o tecnicamente parlando un «engramma psichico» fatto di poche parole, continuamente recitate. Se io pronunciassi continuamente parole in una lingua estera a me conosciuta, mi aspetterei che chi interpreta traducesse sempre le stesse cose e non si inventasse altri discorsi. Se siamo contro la recita meccanica e continua di preghiere, dovremmo esserlo anche contro la ripetizione continua degli stessi suoni; dovremmo anche mettere sotto disciplina chi trae da una stessa litania di suoni discorsi trascendentali sempre nuovi.

 

     3. Daniele 5,25-28: Portare questo brano come esempio biblico, mi è risultato interessante, ma altresì molto singolare. Per prima cosa si tratta di quattro parole: «Mene, mene, tekel, ufarsin». Il mio interlocutore non poteva trovarsi un brano più complicato, per asserire le sue tesi; quando però si argomenta, si devono usare brani omogenei alla questione che si sta affrontando (ossia la glossolalia). Qui c’erano due tappe successive da osservare: le parole non erano leggibili ai Babilonesi (probabilmente erano caratteri ebraici) e per questo non erano interpretabili (vv. 7s).

     Qui ci troviamo in un’altra situazione rispetto alla chiesa (non siamo al culto): le parole non furono continuamente recitate da un credente, ma scritte sull’intonaco di un muro da una mano trascendentale (Dn 5,5). Quindi la traduzione e l’interpretazione sono due passi successivi; al tempo di Daniele era una questione di lettura (vv. 15s), nella glossolalia si tratta di udito. Una volta fatta la lettura (v. 25), le parole potevano essere comprese; ciò che mancava era l’interpretazione applicata a quella specifica situazione, a causa di ciò che Belsatsar aveva appena commesso (vv. 22s). Una nota nella Bibbia Elberfelder recita: «Let. Mine, mine, scekel e mezza mina. — Allo stesso tempo però queste parole sono derivati da verbi e possono significare: Contato, contato, pesato e strappato. — A ciò si aggiunga che “farsin” richiama il nome “persiani”». Tali parole erano piene di doppi sensi, associazioni di pensiero, allusioni e similitudini. Ecco perché Daniele poté dare tale interpretazione da parte di Dio.

     Tali parole non furono recitate continuamente da qualcuno né fu data loro un’interpretazione ogni volta nuova. Se a Daniele fosse stato chiesto il significato a distanza di giorni, mesi e anni, avrebbe detto le stesse cose. In ogni modo, tutto ciò non ha nulla a che fare con un «engramma psichico» sempre uguale e con le variegate interpretazioni che altri gli danno di volta in volta.

Antonio Capasso: Il fratello Nunnari afferma ancora: «Personalmente sono arrivato alla conclusione che il dono delle lingue sia cessato, come la Bibbia afferma, perché ha adempiuto il suo scopo. Il sottoscritto non conosce il greco antico, ma gli esperti di tale lingua attestano che nel brano “le lingue cesseranno” (1 Corinzi 13,8) il verbo tradotto in italiano con “cesseranno” significa letteralmente “cadranno in disuso”».

     Il dono delle lingue ha adempiuto al suo scopo? Non serve più? Eppure come chiaramente affermato nella Parola di Dio in 1 Cor 14, con esse si parla con Dio v. 2, si è edificati v. 4, si prega v. 14, si salmeggia v. 15 e si benedice Dio v. 16. Non sono ancora oggi scopi validi? Nemmeno io conosco il greco, ma la Bibbia non la dobbiamo citare come i testimoni di Geova. Perché il testo afferma che «le profezie verranno abolite; le lingue cesseranno; e la conoscenza verrà abolita»; ma tutto questo avverrà «quando la perfezione sarà venuta» (v. 10). Leon Morris (che non è pentecostale) afferma nel suo commento a 1 Cor 13,8 (ed. G.B.U.), p. 220: «Quando però staremo dinanzi a Dio, non vi sarà più bisogno del profeta e quindi le profezie non saranno più necessarie, avranno perduto la loro efficacia». Le lingue: «Lo stesso ragionamento vale anche in questo caso: alla presenza di Dio non vi sarà più ne ragione ne scopo per discorsi estatici». Come il Morris tanti altri commentatori e studiosi affermano, come chiaramente s’evince dal testo, che alla perfezione cioè, quando saremo davanti a Dio tutte questa cose cesseranno, perché non avranno più ragione d’essere.

     Finito di citare la Bibbia, il fratello nel suo articolo ritorna sulle sue esperienze negative. Presenta i pentecostali come una massa di suggestionati (tanti sono stati battezzati nello Spirito Santo quando erano da soli, dove sta la suggestione di massa?) o addirittura di posseduti. Di cose negative ne ho viste anch’io caro fratello. Potrei aggiungere alle esperienze narrate da te altre ancora. Persone che suggerivano le parole da dire in lingua, o che consigliavano ai credenti di ripetere sempre la stessa parola velocemente che alla fine la parola diventava lingua sconosciuta. Lo stesso vale di predicatori che buttavano le persone a terra, ecc.

Gaetano Nunnari: Qui ci sono differenti opinioni, ma ti invito solamente a riflettere come mai fra tutti gli studiosi della Bibbia e fra tutti i traduttori, nessuno d’essi fosse pentecostale? Un motivo ci dovrà pur essere...

Nicola Martella: Ciò che afferma Leon Morris sulle «profezie» è condivisibile, sulle lingue egli non fa però un’analisi dei termini greci, essendo un commentario popolare e non propriamente esegetico. Personalmente quanto avevo da dire sulla glossolalia, l’ho già scritta da anni nel seguente articolo: Nicola Martella, «Glossolalia allo specchio», Carismosofia (Punto°A°Croce, Roma 1995), pp. 69-83. Qui si può leggere che in 1 Corinzi 13,8 il verbo legato a «lingue» non è attivo come quelli che accompagnano «profezie» e «conoscenza», ma è medio e bisogna tradurre «cesseranno di per sé», ossia un po’ alla volta. La storia conferma che già alcuni secoli dopo non si sapeva neppure più che cosa fosse veramente parlare in lingue; durante la storia della chiesa fu praticato solo da gruppi marginali, per lo più da marginali raggruppamenti gnostici e da spiritualisti misticheggianti caratterizzati da dottrine singolari.

     Antonio ritorna a 1 Cor 14, rilevando nuovamente aspetti parziali, dimenticando che in tutti tali versi Paolo squalificava il parlare in lingue rispetto alla «profezia», perché il prima non edifica la chiesa; rimandiamo su per la questione.  

     «Il dono delle lingue ha adempiuto al suo scopo? Non serve più?». Già a quel tempo non serviva per edificare la chiesa (1 Cor 14,6-17), ma era un segno per i non credenti, non per i credenti (v. 22). Per essere cessato nella sua portata già nel 2°-3° secolo d.C., bisogna rispondere affermativamente alla domanda. I missionari cristiani ne avevano bisogno per predicare la Parola in zone in cui non conoscevano le lingue; una volta che si formavano lì i discepoli, essi andavano altrove. Ci possono essere singoli casi in cui oggigiorno qualcuno, volendo comunicare l’Evangelo a qualcuno che non parla la sua lingua, Dio gli dona la capacità di parlarla per breve tempo? Dio è sovrano di farlo. Tutto ciò non ha però nulla a che fare con l’uso odierno della glossolalia nelle chiese (spesso tutti pregano insieme e nessuno traduce) né tanto meno con «l’engramma psichico», di cui sono affetti la maggior parte di coloro che pretendono di parlare in lingue.

     Nel suo articolo di Gaetano Nunnari non presenta «i pentecostali come una massa di suggestionati… o addirittura di posseduti». Inoltre tale questione l’ho affrontata io personalmente nell’articolo «Glossolalia e demonizzazione?». A ciò si aggiunga che chi studia tutti i fenomeni religiosi, prenderà atto che, oltre alla suggestione di massa, esiste la coercizione dottrinale all’interno di un sistema chiuso, che genera autosuggestione e concisione psicologica, volendo il singolo appartenere alla «normalità» del gruppo per sentirsi a posto e trovare accettazione e riconoscimento. Applicando allora tutto ciò al fenomeno odierno delle lingue, c’è ad esempio quel credente da oramai 30 anni che, vedendo come altri parlano in lingue quasi da subito, si convince depresso che Dio non lo ami abbastanza, che lui non sia abbastanza meritevole e degno, venendo periodicamente a dubitare anche della sua salvezza. La sovrastruttura dottrinale, una volta stabilita con la convenzione, diventa di per sé coercitiva. Poi i trucchi suggestivi e coercitivi (ripetere parole suggerite, ecc.) fanno il resto.

Antonio Capasso: Tutto questo però, non invalida quelle sane esperienze, che sulla base della parola di Dio, milioni e milioni di credenti in tutto il mondo hanno fatto nel Signore. Dio vi benedica. {7 gennaio 2009}

Gaetano Nunnari: Le risposte dettagliate ed esaurienti ai tuoi ragionamenti (legittimi per un pentecostale), le troverai nel libro del fratello Guglielmo Standridge, «Devo parlare in lingue?». Il fratello Guglielmo, con molto rispetto per i pentecostali moderati tratta la questione molto egregiamente, rispondendo in maniera completa e senza tralasciare nessuna di quelle questioni che sembra dare ragione ai pentecostali.

     Come il fratello Standridge, anche io faccio differenza fra pentecostali moderati che vogliono seguire la Bibbia (come ho motivo di credere di te) e quelli neopentecostali che invece seguono volentieri un’altro Gesù e un altro spirito (2 Corinzi 11). Spero che per amore di verità, tu voglia leggere tale libro, e t’assicuro che avrai tutte le spiegazioni necessarie. Nel frattempo ti saluto, con la preghiera che lo Spirito Santo ti guidi in tutta la verità.

Nicola Martella: Come detto, nella stragrande maggioranza dei casi non parlerei neppure di glossolalia, ma di un fenomeno noto alla psicologia e alla fenomenologia religiosa, ossia dell’«engramma psichico»: la registrazione mentale di alcune parole o locuzioni, che poi il soggetto ripete per entrare nuovamente in uno stato alterato della coscienza di natura mistica; al riguardo ho scritto in alcuni miei libri. L’unico «battesimo» esercitato dallo Spirito Santo è l’immersione che attua lo Spirito di Dio: il credente in Cristo e Cristo nel credente (simultaneità con Cristo) al momento di una sincera conversione e vera rigenerazione. La glossolalia appartiene — come ha detto un predicatore a una conferenza pentecostale a cui ho partecipato una volta — all’infanzia del cristianesimo, come i giocattoli hanno senso nell’infanzia di una persona; quando però si diventa «uomini fatti», non si hanno più bisogno di latte, ma di cibo sodo. Per me la questione è personalmente chiusa qui e non intendo ritornarci con Antonio, per evitare di ripeterci all’infinito. Per me la glossolalia è una questione marginale rispetto all’Evangelo: Gesù quale Cristo, la sua persona, il suo ministero allora in terra, la sua morte, la sua risurrezione, la sua ascensione al cielo, il suo ministero attuale e la sua funzione futura come Re in un regno concreto su questa terra. Dinanzi all’eccellenza dell’Evangelo, che con la sua potenza trasforma le persone, tutto il resto diventa marginale…

 

► URL:

http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A1-Glossolalia_lingue_engramma_MeG.htm

23-01-2009; Aggiornamento: 07-08-2009

 

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